Chronic Hangover – Nero Inferno Italiano

Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere.

Vizio, perdizione ed inutili giustificazioni, insomma la vita nel bel paese, o è solo il nero inferno italiano ?

Tornano i romani Chronic Hangover, con il loro ottimo stoner doom metal, con molto groove e canzoni composte molto bene. I ragazzi hanno ascoltato ed assorbito molte cose per poter fare un disco così, completato poi da ottimi testi in inglese. Questo è il loro debutto su lunga distanza, dopo l’ottimo ep del 2014 “Logicamente il Signore ci punirà per questo”, e a quanto pare non li ha puniti, o almeno non nel modo canonico. Il suono dei Chronic Hangover è un misto di elementi classici del metal, ma la loro rielaborazione è talmente buona che ne esce un qualcosa di davvero originale. La voce di Jacopo è il noi narrante del disastro dell’italica vita, e ci accompagna per mano in una galleria di quadri che descrivono la nostra vita, si è proprio la nostra vita, senza senso e deprimente. Ma non piangiamoci addosso, facciamo schifo perché lo vogliamo fare e questo splendido disco è qui per ricordarcelo. Ci sono tante cose qui dentro, dallo stoner al doom, dal groove metal all’heavy, ma è tutto Chronic Hangover, qualcosa di completamente nuovo. Nero Inferno Italiano è un disco composto e suonato benissimo, pieno di novità e di carattere, originale dall’inizio alla fine, e diverte moltissimo, se solo ci fosse qualcosa da ridere. La soluzione è quella della copertina, in più però al bar fate mettere questo gran disco.

TRACKLIST
1. Vituperio
2. Homunculus
3. Sociopatia
4. Regretudo
5. Tossine
6. Villa Triste
7. Alamut 2112
8. Nero Inferno Italiano
9. Lucifer In The Sky With Diamonds

LINE-UP
Jacopo: Vocals
Rutto: Bass
Charlo: Drums
Zorro: Guitars

CHRONIC HANGOVER – Facebook

Dantalion – …And All Will Be Ashes

La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera.

Nell’ascoltare questo disco mi sono reso conto all’improvviso che, nel parlare della scena doom death spagnola, ho sempre omesso di citare i Dantalion ma, a ben vedere, un buon motivo c’era: la band galiziana, infatti, nella prima parte della sua carriera era dedita ad una black oscuro, a tratti persino avvicinabile al depressive (ho apprezzato molto, all’epoca, All Roads Lead To Death), prima di approdare in maniera totale alla musica del destino, nelle sue forme più estreme e dolorose, con Where Fear Is Born, risalente al 2014.

E’ molto probabile che il cambiamento  sia giunto anche in seguito al pesante rimpasto della line-up avvenuto dopo Return To Deep Lethargy (2010), ma quella che non è cambiata è la realtà di una band capace sempre di maneggiare in maniera efficace la materia oscura, indipendentemente dal genere prescelto.
Oggi le coordinate stilistiche spingono in direzione decisa verso una band seminale come i Novembers Doom, senza ovviamente dimenticare la naturale “dipendenza” dai My Dying Bride e non disdegnando di guardare alle splendide e consolidate band connazionali come Evadne ed Helevorn: quello che ne esce fuori è un gran bel disco, specialmente quando la band di Vigo lascia sfogare la propria vena più melodica e malinconica (Crimson Tide) .
…And All Will Be Ashes parte molto bene, con i primi tre brani (oltre a quello già citato, la bellissima ed evocativa Fleshly Sin e A River Of Depravation, che ossequia a tratti i primi Paradise Lost) efficaci e intensi come si richiede al genere, per poi scemare leggermente nella fase centrale: Desperation Nights viene risollevata, dopo un inizio piuttosto opaco, da un bel lavoro chitarristico nella seconda parte, Shadows Doomed To Die ne ricalca a grandi linee gli aspetti, mentre Tears Of Ash, posizionata nel mezzo, è un breve ed interlocutorio strumentale.
Ci pensa la conclusiva No Place For Faith, contraddistinta come il resto del lavoro dal pregevole lavoro della chitarra solista, a riporta l’album al livello della sua prima metà, lasciando così soprattutto buone sensazioni.
La svolta dei Dantalion regala infine agli appassionati un’altra buona band di death doom, togliendone però una altrettanto valida a chi prediligeva i tratti black della loro prima parte di carriera: a chi volesse approfondire proprio questo periodo consiglio di ascoltare l’esaustiva compilation The Ravens Fly Again, uscita nel 2014,che raccoglie il meglio dei primi quattro full length, mentre agli altri non resta che seguire il gruppo spagnolo in questa sua nuova incarnazione, senz’altro allo stesso modo convincente.

Tracklist:
1. Fleshly Sin
2. A River Of Depravation
3. Crimson Tide
4. Desperation Nights
5. Tears Of Ash
6. Shadows Doomed To Die
7. No Place For Faith

Line-up:
Villa – Drums
Brais – Guitars
Rober – Bass
Andres – Guitars
Diego – Vocals

DANTALION – Facebook

Raj – Raj

La prova dei Raj è di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Ep d’esordio per i Raj, band lombardo/veneta dedita ad uno sludge/stoner doom davvero intrigante.

La prima cosa che balza all’occhio è la durata dei brani, imprevedibilmente brevi per gli standard del genere, mentre appare molto più in linea con le abitudini il sound, piacevolmente retrò nel suo unire pulsioni sabbathiane, a partire dalla voce (spesso filtrata) di Francecsco Menghi, con le atmosfere diluite dello sludge e la psichedelia dello stoner.

Chitarra e base ritmica contribuiscono ad erigere un muro sonoro che non stravolge i canoni stilistici conosciuti, puntando su un impatto ossessivo che il riffing dai toni ribassati rende efficace e gradevole a chi è avvezzo al genere; interessante anche il break ambient costituito dalla quarta traccia Black Mumbai, indicatore di una propensione sperimentale che forse meriterebbe d’essere maggiormente distribuita all’interno del disco.
Come detto, il suo essere rivolto al passato, a volte in maniera ostentata, non si rivela affatto una nota di demerito per il gruppo: chi suona questo genere è una sorta di medium, capace di rendere del tutto vive ed attuali sfumature sonore che a molti possono apparire datate; i Raj lo fanno con competenza e convinzione, andando a fondere talvolta il sound più psichedelico dei Doomraiser con certo doom sciamanico in voga negli anni scorsi (Omegagame ne è forse l’esempio migliore ) oppure richiamando in maniera più esplicita, ma comunque non calligrafica, il marchio di fabbrica sabbathiano (Kaluza).
Dovendo cercare il pelo nell’uovo, al netto delle citata traccia ambient, questo ep autointitolato mostra a tratti un’eccessiva uniformità compositiva e, inoltre, non sempre convince la scelta di deformare il timbro vocale; resta il fatto che la prova dei Raj è senz’altro di ottimo spessore e, trattandosi di un primo assaggio, lascia aperte interessanti prospettive di sviluppo future.

Tracklist:
1. Omegagame
2. Eurasia
3. Magic Wand
4. Black Mumbai
5. Kaluza
6. Iron Matrix

Line-up:
Marco Ziggiotti – guitars
Daniel Piccoli – drums
Francesco Menghi – vocals
Davide Ratti – bass

RAJ – Facebook

FVNERALS – Wounds

Suoni plumbei e oppressivi, ma che affascinano e feriscono noi ascoltatori

L’ oscurità ammanta costantemente la nostra anima e i Fvnerals, con il loro Wounds, ce lo ricordano in ogni momento; sono emersi dalle terre albioniche in quel di Brighton nel 2013 con il singolo The Hours, bissato nel 2014 con il full The Light per poi pubblicare, dopo un ulteriore singolo (The Path nel 2015), questo pregevole gioiellino.

La loro arte si nutre di doom, funeral, ambient, post-rock, drone miscelata e dosata in un suono che appare atmosferico, profondo, oppressivo con la voce della cantante Tiffany a sublimare e ad accompagnare in modo inquietante questo viaggio; qui non sono eretti muri di suono distorti e non ci sono vocals stordenti e aggressive, ma tutto è più “subdolo”, un lento flusso di coscienza che scava lentamente nella nostra anima ferendola e accentuando a ogni ascolto un profondo senso di isolamento.
Anche il fatto che i sette brani, per un totale di circa quaranta minuti, siano legati e scivolino uno sull’altro serve a rendere più affascinante, misterioso e desolante il percorso, come nell’ultimo brano Where, introdotto da note lontane di piano, accompagnato da una desolata voce e levigato da tristi e disperate note di chitarra; un po’ la summa di tutto il lavoro, come l’ ultimo granello di sale cosparso sulla nostra lacerata anima. Ottimo lavoro da una giovane band che mi ha molto emozionato e che spero possa “colpire” altre anime “torturate”.

TRACKLIST
1. Void
2. Wounds
3. Shiver
4. Teeth
5. Crown
6. Antlers
7. Where

LINE-UP
Tiffany Strom – vocals,bass,synth
Syd Scarlet – guitar
Chris Cooper – drums

FVNERALS – Facebook

Chalice Of Suffering – For You I Die

I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità.

Come già fatto in altri frangenti, la riedizione in diverso formato da parte un etichetta diversa ci ci offre l’occasione di riportare all’attenzione interessanti lavori usciti in tempi relativamente recenti e recensiti all’epoca per In Your Eyes.
Questa volta tocca ai Chalice Of Suffering, band del Minnesota autrice di un ottimo album di funeral doom atmosferico, con l’esordio intitolato For You I Die, edito nello scorso aprile in CD dalla russa GS Productions ed ora riproposto, nel sempre più diffuso e gradito formato in cassetta, dall’attiva label portoghese War Productions.

Il gruppo guidato da John McGovern (vocalist che, più che cantare, si esibisce in un semi recitato in stile Mythological Cold Towers) convince grazie ad un approccio diretto ed efficace, puntando su un lato melodico molto lineare ma sempre volto ad catturare l’attenzione dell’ascoltatore, avvolgendolo con un mood invero più malinconico che plumbeo.
I Chalice Of Suffering, in fondo, non fanno altro che assemblare con sapienza gli influssi principali del genere, attingendo per lo più alle sonorità novantiane (primi Anathema e My Dyng Bride) e ammorbidendole ulteriormente con una spiccata indole atmosferica.
For You I Die parte forte, mostrando subito il suo volto migliore con Darkness, brano dotato di armonie splendide che la band sfrutta a dovere piazzando a più riprese un assolo dal grande potenziale evocativo, per poi proseguire su questa falsariga, magari senza ritrovare quegli stessi spunti ma garantendo sempre uno standard elevato, specialmente in Who Will Cry e Screams Of Silence.
Subito dopo quest’ultimo brano si palesa un’improvvisa vena folk celtica, con le cornamuse che dominano la strumentale Cumha Do Mag Shamhrain, per arrivare poi all’incipit di Fallen, dove è invece il flauto ad introdurre una traccia piuttosto rarefatta, contraddistinta dal recitato in gaelico dello stesso suonatore di bagpipes, Kevin Murphy.
Void chiude un album ricco di contenuti e tutto sommato neppure troppo dispersivo, nonostante l’ora e tre quarti di durata, mostrando nuovamente il volto più canonico del death doom, questa volta sfruttando il buon growl dell’ospite Allen Towne.
I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità. Tutto sommato è apprezzabile l’ ortodossia nell’approcciarsi al funeral death doom melodico, al netto delle citate puntate nel folk di matrice celtica (un po’ fuori contesto per quanto gradevoli) e, trattandosi comunque di una band di nuovo conio, non si può che salutarne con favore questo disco d’esordio.

Tracklist:
1.Darkness
2.Who Will Cry
3.For You I Die
4.Alone
5.Screams Of Silence
6.Cumha Do Mag Shamhrain
7.Fade Away
8.Fallen
9.Void

Line-up:
John McGovern – Vocals, Lyrics
Will Maravelas – Guitars, Bass, Songwriting
Aaron Lanik – Drums
Robert Bruce – Tin Flute
Nikolay Velev – Keyboards, Guitars, Songwriting
Kevin Murphy – Bagpipes, Vocals (Gaelic)

Guest:
Allan Towne – Vocals

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Et Moriemur – Ex Nihilo in Nihilum

Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.

Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.

Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione.
Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.

Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below

Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums

ET MORIEMUR – Facebook

Ufosonic Generator – The Evil Smoke Possession

The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.

Il doom classico ha avuto nella prima metà degli anni novanta un ritorno di fiamma che andava a braccetto con la qualità dei gruppi della Hellhound prima e, in seguito della, Rise Above di Lee Dorrian, label fondata dallo sciamano inglese dopo il buon riscontro dei suoi Cathedral.

Ovviamente anche per quegli ormai storici gruppi, gli anni settanta ed i gruppi pionieri del rock metal messianico erano le fonti massime di ispirazione per tornare a far risplendere i suoni diventati famosi grazie ai Black Sabbath, ma glorificati da enormi talenti come Pentagram e Candlemass.
Il successo dello stoner, figlio tossico e desertico del doom, ha lasciato qualche scoria nel sound dei nuovi gruppi che, nell’underground, intraprendono la strada lenta e monolitica della musica del destino: un bene per certi versi, visti i risultati e le ottime realtà che, specialmente. nel nostro paese arricchiscono il patrimonio sabbatico della scena metal.
Ufosonic Generator, monicker che ricorda non poco il mondo della cattedrale di Dorrian, sono un quartetto nostrano che arriva all’esordio con questo The Evil Smoke Possession, fulgido esempio di doom metal potente, molto rock’ n’ roll nell’approccio, con riferimenti ed ispirazioni che vanno dagli anni settanta ai gruppi della generazione successiva, senza farsi mancare di un pizzico di follia stoner, ormai presente nelle opere delle nuove generazioni.
Una quarantina di minuti tra potenza dirompente, frenate monolitiche ed andamento che si trascina tra la sabbia di un deserto reso rosso dal fiume vulcanico che gli scorre sotto, pronto ad esplodere tra le pachidermiche note di At Witches’Bell, Meridian Daemon e Silver Bell Meadows.
The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.

TRACKLIST
1.A Sinful Portrait
2.Anapest
3.At Witches’Bell
4.Master Of Godspeed
5.Meridian Daemon
6.Silver Bell Meadows
7.Mowing Devil
8.The Evil Smoke Possession

LINE-UP
Gojira – Vocals
Carmichael Bell – Bass
DD Morris – Guitar
S.McManchester – Drums

UFOSONIC GENERATOR – Facebook

 

Crypt Of Silence – Awareness Ephemera

La contiguità stilistica con i Mourning Beloveth è sempre piuttosto marcata e questa è l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere.

Poco più di due anni fa, quando mi ritrovai a parlare dell’album d’esordio dei Crypt Of Silence, Beyond Shades,
mi espressi in maniera non entusiastica nei confronti dell’operato del gruppo ucraino, pur valutandolo alla fine positivamente, in quanti mi appariva troppo appiattito su posizioni simili a quelle dei primi Mourning Beloveth, senza possederne però lo stesso impatto melodico e drammatico.

Oggi il gruppo irlandese rappresenta sempre la Stella Polare per la giovane band dell’est, ma il salto di qualità che auspicavo, confidando anche nell’innato fiuto della Solitude Productions nello scovare talenti, è avvenuto: Awareness Ephemera è un lavoro che rispecchia in molti aspetti il suo predecessore, con quattro lunghi brani per una durata complessiva attorno ai cinquanta minuti, ma la differenza la fa tutta l’incisività della scrittura.
Infatti, l’incedere dolente e rallentato di Longest Winter, fin dalle prime note fa capire quanto i Crypt Of Silence abbiano appreso al meglio la lezione, ammantando ogni nota del pathos necessario per avvincere e convincere i potenziali ascoltatori: il letale mix fra My Dying Bride, Mourning Beloveth e Daylight Dies (evocati questi ultimi soprattutto in Insignificant Sense) prende corpo srotolandosi dolorosamente, con ritmiche che sovente si fanno asfissianti spingendosi ai confini del funeral, particolarmente nella pachidermica Life Passed By.
E’ la meravigliosa Meridian, comunque, la traccia che chiude l’album, a fotografare nella maniera più nitida l’attuale status dei Crypt Of Silence, i quali scendono senza timore sullo stesso terreno dei loro maestri d’oltremanica, avvicinandoli non poco se non addirittura eguagliandoli a tratti; certo, la contiguità stilistica è sempre molto marcata e questa è, forse, l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere, anche perché per incidere brani di questo spessore non è sufficiente essere solo dei buoni copisti, ma bisogna possedere la giusta dose di talento.
Il compito che affidiamo ai ragazzi ucraini, alla prossima occasione, sarà soltanto, quindi, quello di farci affermare “sembrano … i Crypt Of Silence”, perché diciamo tranquillamente che il death doom proposto in Awareness Ephemera è inattaccabile per potenziale ed impatto emotivo, il che non è affatto poco per chi si nutre di questo genere musicale.

Tracklist:
1. Longest Winter
2. Insignificant Sense
3. Life Passed By
4. Meridian

Line-up:
Andriy Buchynskyi – Drums
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass
Vitalii Kaigorodtsev – Guitars (rhythm)

CRYPT OF SILENCE – Facebook

Uktena – Our Path to Trouble

Il tema del lavoro degli Uktena verte su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.

Esordio molto interessante per questa band del North Carolina denominata Uktena.

Portatori di un sound decisamente molto psichedelico ma nel contempo anche robusto, questi americani puntano per il loro passo d’avvio su un unico brano di venti minuti, esattamente ciò che serve per rendere poco appetibile il tutto ad ascoltatori pigri o disattenti …
Meglio così, del resto, in tal modo solo i più meritevoli potranno godersi le sonorità di Our Path to Trouble, un lavoro che, alla fine, non è neppure così facile da catalogare, tra sfumature lisergiche, ritmiche prossime al doom e una voce dal taglio quasi punk, anche se i suoi interventi non sono particolarmente frequenti.
L’opera acquista un peso ancor maggiore per la presenza, in diverse parti del lungo brano, di samples riferiti a John Trudell, cantautore, poeta ed attivista che è stato, fino alla sua morte avvenuta circa un anno fa, una vera spina nel fianco nei confronti di intendeva mettere a tacere per sempre la voce dei nativi americani.
Il tema del lavoro degli Uktena, le cui redini sono nelle mani di Nate Hall, verte proprio su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.
Our Path to Trouble, così, si snoda in maniera genuina e nemmeno troppo prevedibile, con un mood psichedelico quasi d’altri tempi che, nella parte finale, lascia spazio ad umori folk, il tutto eseguito con un certo slancio dalla band. Peccato per la durata piuttosto limitata, perché ho trovato davvero moto valida questa nuova formazione ed il suo operato, sia dal punto di vista strettamente musicale che concettuale. In attesa di sviluppi futuri, non resta che supportare per ora gli Uktena, il cui esordio peraltro è avvenuto sotto l’egida di un’etichetta italiana, la Hypershape Records.

Tracklist:
1. Our Path to Trouble

Line-up:
Nate Hall – voce, chitarra, mandolino elettrico;
Joe Anderson – basso;
Scott Thomas – batteria;
Ben Brower – chitarra

UKTENA – Facebook

Bethlehem – Bethlehem‬

L’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Ho sentito più di una persona attendere con una certa fiducia questo nuovo album dei Bethlehem, alla luce di una storia che colloca la band tedesca tra quelle fondamentali per la crescita e lo sviluppo di un certo modo di interpretare la materia estrema.

Allo stesso modo, da parte mia, c’erano diversi dubbi legati al precedente Hexakosioihexekontahexaphobia, album che non mi aveva lasciato ricordi indelebili, e questa nuova fatica autointitolata ne dissipa alcuni ma ne fa crescere altri.
Sicuramente la creatura che, ormai da molti anni, viene guidata dal solo Bartsch , non produce musica che possa lasciare indifferenti e, nonostante la matrice black sia sempre bene in vista, il risultato finale non può essere mai scontato.
D’altra parte, però, pur non volendo togliere ai Bethlehem il titolo di band seminale e imprescindibile per quella che sarebbe diventata poi la scena black metal tedesca, resta il fatto che la loro produzione è sicuramente di buon livello, considerando anche che il leader si e circondato di musicisti di spessore (tra tutti il notevole batterista Stefan Wolz) ma senza raggiungere picchi corrispondenti allo status acquisito.
Anche questo nuovo lavoro, quindi, non sposta il mio giudizio pur se, rispetto al suo predecessore, si rivela leggermente più diretto e meglio focalizzato su un’indole black doom che offre più di un passaggio avvincente e ben memorizzabile.
Un altro aspetto che potrebbe fungere da spartiacque per più di un ascoltatore è l’interpretazione fornita dalla vocalist polacca Onielar, improntata su un registro isterico, a tratti anche molto teatrale, comunque più adatto a un disco di natura totalmente depressive piuttosto che ad un contesto simile, e che a mio avviso, oltre che stucchevole alla lunga, si rivela decisamente inferiore e meno versatile rispetto alla prova fornita da Guido Meyer su Hexakosioihexekontahexaphobia.
In definitiva, l’album dei Bethlehem mostra diversi sprazzi di genialità, ma i passaggi che si ricordano più volentieri sono quelli strumentali afferenti alla matrice doom e non quelli che, invece di stupire, finiscono solo per compromettere la fluidità di certe tracce.
Così è la diretta opener Fickselbomber Panzerplauze a convincere, così come i brani più meditati e melodicamente lineari quali Kynokephale Freuden im Sumpfleben e Arg tot frohlockt kein Kind, nelle quali trova spazio in maniera più concreta il qualitativo lavoro chitarristico di Karzov, mentre tra le tracce più anomale spicca Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr, oscillante tra riff plumbei e minacciosi e liquide pulsioni dark wave .
Bartsch si conferma compositore di vaglia e senz’altro una delle migliori menti musicali in circolazione, ma sono troppe le scelte che personalmente ritengo cervellotiche e non del tutto funzionali al risultato finale, incluso il rutto che accoglie l’ascoltatore all’inizio del lavoro e che fa solo venire voglia di restituirlo al mittente …
Detto questo, l’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Tracklist:
1. Fickselbomber Panzerplauze
2. Kalt’ Ritt in leicht faltiger Leere
3. Kynokephale Freuden im Sumpfleben
4. Die Dunkelheit darbt
5. Gängel Gängel Gang
6. Arg tot frohlockt kein Kind
7. Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr
8. Wahn schmiedet Sarg
9. Verdammnis straft gezügeltes Aas
10. Kein Mampf mit Kutzenzangen

Line-up:
Bartsch – Bass, Keyboards
Wolz – Drums
Karzov – Guitars, Keyboards
Onielar – Vocals

BETHLEHEM – Facebook

Suffer Yourself – Ectoplasm

Ottima seconda prova di funeral doom da una band in costante evoluzione

Fin dalla cover alcuni dischi accendono l’ interesse di noi ascoltatori, di noi ” cercatori d’oro”; mi sbilancio ma questa mi è piaciuta tantissimo e anche il particolare titolo “Ectoplasm” mi ha spinto ad ascoltare il 2° full dei Suffer Yourself, già autori di un ottimo full nel 2014 (Inner Sanctum).

Nati come one man band di Stanislav Govorukha già EX AUTO DA FE (funeral death), CORAM DEO (melodic death), ILLUMINANDI (folk-gothic) si sono evoluti nella attuale band, locata in Svezia, che comprende altri tre musicisti che aiutano il leader a creare un grande disco di funeral death doom in cui si miscelano artigianalmente, con cura certosina, molte influenze per creare un opera che come sempre data la lunghezza, cinque brani per un ora di splendida musica, ha bisogno di numerosi ascolti per “entrare”. Il suono, come il titolo esplica, appare come una “sostanza mobile ectoplasmica” e può essere morbido, sinuoso, vaporoso, fluido, non ben definito, ma in ogni caso sempre emozionante e di infinita tristezza, come nel magnifico brano “The Core\Nika Turbina” in ricordo del trentennale del disastro di Chernobyl (…i’ll paint my name on the abandoned walls to come back in thirty years). Due brani anche per la loro lunghezza, Abysmal Emptiness di sedici minuti e Dead Visions di diciannove minuti sono l’ esempio migliore di come sono intersecate anche in modo inaspettato tutte le influenze del leader, da grandi muri di suono (come i grandi Esoteric) in perenne movimento a momenti più direttamente death (metà di Abysmal) che scivolano in parti più morbide, “melodiche”, in modo da rendere questa opera maestosa, misteriosa e cangiante; le vocals del leader passano da un lento salmodiare a un ottimo growl, con parti anche cantate in russo\ucraino. E’ sempre un piacere poter seguire ed ascoltare bravi musicisti che suonando con passione e idee, ci affascinano nel loro percorso musicale.

TRACKLIST
1. Ectoplasm
2. Abysmal Emptiness
3. The Core
4. Dead Visions
5. Transcend the Void

LINE-UP
Malcolm Sohlen – Bass
Kateryna Osmuk – Drums
Lars Abrahamsson – Guitars
Stanislav Govorukha – Guitars, vocals, programming

SUFFER YOURSELF – Facebook

The Human Condition – Pathways

Considerando che Pathways è il primo album del gruppo, il risultato può sicuramente considerarsi discreto, rimanendo confinato nel purgatorio dei lavori di genere.

Un viaggio rallentato e melanconico nel doom metal classico è il debutto sulla lunga distanza dei The Human Condition, un lavoro di genere che lascia buone impressioni e speranze per il futuro.

Il quintetto britannico, attivo da un po’ di anni,arriva all’agognato esordio solo quest’anno, dopo un demo, ormai dirialente a cinque anni fa, e la firma per Topillo Records.
Pathways è un lavoro incentrato sul doom classico, su questo non ci piove, anche se qualche arrangiamento richiama il doom/death dei primissimi Paradise Lost ed Anathema.
Un album che sulla drammatica ed introspettiva condizione umana costruisce ogni passaggio ed ogni riff con cui la band ha costruito questo monumento di desolante solitudine, con la musica del destino come colonna sonora.
Come scritto, qualche passaggio più intenso distrae da un mood in linea con i gruppi storici del genere, da ricercare tra le band storiche del periodo a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo, lasciando ad altri le solite influenze sabbathiane e cercando nell’inesorabile ed evocativa lentezza del sound di Candlemass, Solitude Aeturnus, Solstice e Revelation.
Un dettaglio migliorabile è sicuramente la voce, un po’ troppo monocorde e qualche passaggio ripetuto in molti dei brani, per il resto il sound viaggia sui binari classici del genere e brani come The Things I Should Have Said e Chrysalis troveranno sicuramente estimatori tra i consumatori di musica del destino.
Considerando che Pathways è il primo album del gruppo, il risultato può sicuramente considerarsi discreto, rimanendo confinato per ora nel purgatorio dei lavori di genere.

TRACKLIST
1.The Tempest
2.The Things I Should Have Said
3.The Gifts I Gave
4.Pathways
5.Chrysalis
6.22 Years
7.My Will Has Gone

LINE-UP
James Moffatt – Bass
Phil Purnell – Drums
Jonathon Gibbs – Guitars
Kieron Tuohey – Guitars
Nathan Harrison – Vocals

THE HUMAN CONDITION – Facebook

Serpent – Trinity

Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

Ennesimo gioiellino metallico pescato tra polverosi scaffali e riedito dalla Vic Records.

Si parla di doom metal classico con gli svedesi Serpent, trio che nel 1993, anno della sua nascita, vedeva collaborare Lars Rosenberg (ex Entombed) e Andreas Wahl (Therion) più Johan Lundell.
La discografia del gruppo è limitata a tre album: il primo, In the Garden of Serpent uscito nel 1996, seguito da Autumn Ride dell’anno dopo, poi riedito nel 2007, anno in cui esce questo ultimo lavoro, Trinity.
Il trio ad oggi è completamente rivoluzionato e vede Piotr Wawrzeniuk (ex-Therion, basso e voce), Ulf Samuelsson alla sei corde e Per Karlsson alle pelli.
Trinity, masterizzato agli Unisound da Dan Swanö, è un buon esempio di musica del destino che da una base sabbathiana sviluppa le sue coordinate stilistiche verso il genere di ispirazione Candlemass e Count Raven.
Lunghe litanie cadenzate si danno il cambio con brani dai ritmi leggermente più sostenuti, le atmosfere messianiche e la voce evocativa rientrano nei canoni della musica del destino di stampo classico ed old school, e il gruppo dà il meglio quando il ritmo diventa un battito cardiaco che si avvia ad un lento spegnersi.
Brani più lineari si intervallano a tracce ispirate come in Serpent Bloody Serpent (chiaro tributo ai Black Sabbath) e December Mourning, un episodio sofferto, lentissimo e violentato da una sei corde satura di watt.
Chasing The Oblivion, più aperta ed heavy, torna ai Count Raven di High on Infinity, mentre la conclusione è affidata a Monolith, che come promette il titolo risulta uno strumentale granitico, dalle atmosfere nere come la pece.
Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

TRACKLIST
1.Lamentation
2.Serpent Bloody Serpent
3.Nightflyer
4.Erlkönig
5.December Morning
6.Disillusions
7.Chasing The Oblivion
8.Monolith

LINE-UP
Piotr Wawrzeniuk – Bass, Lead Vocals
Perra Karlsson – Drums
Ulf Samuelsson – Guitar

Haast’s Eagled – II: For Mankind

Magnifico secondo disco dai creatori del “kaleidoscopic doom”

Credo che capiti a chiunque ascolti MUSICA: la ricerca continua di nuovi suoni, emozioni e sensazioni in grado di migliorare il nostro stato d’ animo logorato dagli accelerati ritmi di vita; nel grande mare di band dedite al doom, in tutte le sue oscure varietà, ho scoperto questa band del sud del Galles dedita, come riferisce la loro casa discografica la Holy Roar, a un “kaleidoscopic doom” o se preferite a un “doomlounge jazz”.

In ogni caso il disco è splendido e vi invito, come al solito, a provarlo e a dare fiducia a questa nuova realtà denominata Haast’s Eagled, giunta alla sua seconda opera, II: For Mankind (la prima è omonima e si può scaricare dal bandcamp). Il nome particolare deriva da una specie estinta di aquila della Nuova Zelanda; la cover in rosso intenso è inquietante e il full contiene quattro lunghi brani dai sette ai venti minuti che dipanano un sound denso, imponente con grandi suoni di chitarra che possono ricordare gli statunitensi Yob per come lentamente sviluppano il loro brano; esempio è il mastodontico brano Zoltar (venti minuti) che inizia con delicate, tristi note di pianoforte e dopo un minuto vira (doom meets Pink Floyd) con uno splendido caldo, ampio e circolare riff di chitarra che accompagna la lenta ascesa verso le vocals che intonano una litania misteriosa, per poi esplodere in un doom sludge potentissimo e terminare con il piano doppiato da un romantico sax: la traccia è eccellente e per me è tra le migliori di questo 2016 ricco di belle uscite in campo doom e non solo. Anche gli altri tre brani, più contenuti nel minutaggio, offrono delizie sonore tendenti a creare il loro personale sound. Preferisco il termine caleidoscopico a lounge jazz e credo che questi quattro musicisti abbiano un grande potenziale, una loro visione del doom e spero che si possano ascoltare live prima o poi anche nelle nostre terre.

TRACKLIST
1. Pyazz Bhonghi
2. The Uncle
3. Zoltar
4. White Dwarf

LINE-UP
Greg Perkins – Bass
Joseph Sheehy – Drums
Adam Wrench – Guitars, Vocals
Lee Peterson – Unknown

HAAS’T EAGLED – Facebook

Qaanaaq – Escape From The Black Iced Forest

Cinque brani piuttosto lunghi e ricchi di repentine aperture melodiche, alternate a qualche accelerazione e a fughe strumentali di matrice prog, sono quanto offre un album anomalo come Escape From The Black Iced Forest.

Più o meno dal nulla sbucano questi Qaanaaq, band bergamasca che propone una stramba mistura tra doom, death, gothic e progressive.

Se, in teoria, questi indizi parrebbero portare su territori affini ad Opeth e successiva genia, in raelta, nonostante la band di Åkerfeldt sia un riferimento dichiarato dal quintetto lombardo, il sound gode di una personalità sorprendente, offerta in particolare dal lavoro tastieristico di Luca Togni, capace di caratterizzare ogni brano con un approccio misurato quanto incisivo.
Niente a che vedere quindi, con ampie aperture sinfoniche od invadenti orchestrazioni plastificate: il tocco di Luca Togni è quanto mai legato al progressive settantiano ed è volto più a punteggiare il sound che non ad assumerne il controllo, lasciando che gli altri strumenti (suonati da altri due Togni, Mattia e Luca, rispettivamente al basso e batteria, e da Dario Leidi alla chitarra) si sbizzarriscano nel contribuire a creare un tappeto sonoro sul quale esibisce un growl piuttosto efficace Enrico Perico (dalle tonalità che ricordano non poco quelle di Mancan degli Ecnephias).
Cinque brani piuttosto lunghi e ricchi di repentine aperture melodiche, alternate a qualche accelerazione e a fughe strumentali di matrice prog, sono quanto offre un album anomalo come Escape From The Black Iced Forest, frutto compositivo di musicisti non più di primo pelo che vi hanno riversato una freschezza compositiva raramente riscontrabile oltre che la dote, anche’essa in via d’estinzione, di non interpretare il proprio ruolo in maniera seriosa, a partire dall’immaginario groenlandico che aleggia sull’intero progetto, almeno a livello lirico (Qaanaaq è, appunto, la città più a nord di quella che qualche buontempone pensò di chiamare “terra verde” ).
Probabilmente i suoni di tastiera esibita da Luca Togni potranno lasciare perplessi i più, mentre personalmente li trovo geniali nel loro apparente minimalismo, in quanto capaci di insinuarsi in maniera velenosa nel cervello (micidiali in tal senso il finale di Body Walks e la parte centrale di High Hopes); resta oggettivamente difficile catalogare i Qaanaaq in maniera esaustiva, perché il doom, che è il primo genere dichiarato, viene esibito nella sua forma più riconoscibile solo nella traccia finale Red Said It Was Green, perché anche la stessa Untimely At Funerals, che parte proprio come una vera marcia funebre, cambia volto più volte fino ad approdare a passaggi che lambiscono la fusion.
In definitiva, l’opera prima dei Qaanaaq si rivela tutt’altro che cervellotica o particolarmente ostica ma è ugualmente rivolta a menti sufficientemente aperte.

Tracklist:
1. Body Walks
2. Eskimo’s Wine Is A Dish Best Served Frozen
3. Untimely At Funerals
4. High Hopes
5. Red Said It Was Green

Line-up:
Enrico Perico – vocals
Dario Leidi – guitar
Mattia Togni – bass
Luca Togni – keyboards
Nicola Togni – drums

QAANAAQ – Facebook

Barbarian Swords – Worms

Secondo full length per i catalani Barbarian Swords, band capace di offrire un interpretazione piuttosto interessante del black metal imbastardendolo con una massiccia dose di doom.

Secondo full length per i catalani Barbarian Swords, band capace di offrire un interpretazione piuttosto interessante del black metal imbastardendolo con una massiccia dose di doom.

Worms è un album che mostra, volutamente, gli aspetti meno politically correct del metal, con la sua ricerca di passaggi ad effetto che vanno ad enfatizzare brutalità assortite (ne sono testimonianza titoli di brani come The Last Virgin On The Earth, Sodomized o Carnivorous Pussy, che non lasciano molto spazio ad equivoci).
Detto questo, l’operato della band si rivela interessante, sicuramente non tedioso e, fatte tutte le debite proporzioni e sostituendo la componente thrash con quella black, Worms ricorda non poco per modus operandi quel Slow, Deep And Hard che fu il primo dirompente album dei Type O Negative.
E’ bene precisare che le similitudini si fermano all’alternanza tra sfuriate e rallentamenti mortiferi e, soprattutto, all’ostentata misoginia dei loro interpreti, perché si tratta alla fine di due lavori che sono ben lungi dal poter essere avvicinabili l’un l’altro per importanza e valore, ma non per questo però Worms va sottovalutato o messo nel dimenticatoio
I Barbarian Swords svolgono infatti il loro compito al meglio, portando alle estreme conseguenze le proprie peggiori perversioni senza porsi particolari limiti né etici ne musicali: ne scaturisce un album sporco, cattivo e pervaso da un filo di humour nerissimo, con brani notevoli come Christian Worms (che, seppur solo nel titolo richiama un’altra traccia storica della band di Steele come Christian Woman) o The Last Virgin On The Earth, Sodomized, senza contare l’interminabile incubo doom di Requiem.
Ecco, forse al gruppo di Barcellona viene meno solo il dono della sintesi, perché settanta minuti di questo tenore potrebbero rivelarsi indigesti per molti, esclusi gli appassionati di doom che non disdegnano atmosfere truculente e grottesche.

Tracklist:
1. I’m Your Demise
2. Outcast Warlords
3. Pure Demonology
4. Christian Worms
5. Total Nihilism
6. The Last Virgin On The Earth, Sodomized
7. Carnivorous Pussy
8. Requiem
9. Ultrasado Bloodbath

Line-up:
Panzer – Bass
Joe Beltza – Drums
Steamroller – Guitars
Voice Of Noise – Guitars
Von Pax – Vocals
BARBARIAN SWORDS – Facebook

Lucifer’s Fall – Fuck You We’re Lucifer’s Fall

Le tracce del demo non sono male, peccato per la deficitaria produzione che non permette di assaporare le prolungate armonie metal doom dark del gruppo.

Si presentano a noi i doomsters australiani Lucifer’s Fall con questo ep di tre brani, integrato dal demo Dungeon Demos II, uscito lo scorso anno.

Il gruppo di Adelaide si forma solo tra anni fa, ma ha già licenziato un primo lavoro omonimo sulla lunga distanza: il loro doom metal old school si rifà alla tradizione e segue le orme dei maestri settantiani ed i loro discepoli discesi dal Monte Fato nel decennio successivo.
Dunque l’approccio è del più classico e l’ep che dà nome al lavoro parte con due lunghi brani, che non lasciano ombra di dubbio sulla proposta del quintetto.
Molto suggestiva Lost, tredici minuti di sound sabbathiano , ma che lascia intravedere le molteplici influenze della band, dai Pentagram, ai Candlemass, fino ai Reverende Bizarre.
Con la traccia che da titolo all’ep (Fuck You We’re Lucifer’s Fall) le acque si smuovono di un bel po’ e l’heavy metal fa capolino nel sound, così da entrare negli anni ottanta.
Le tracce del demo non sono male, specialmente la cavalcata The Summoning e la lenta marcia Unknown Unnamed, che si trasforma anch’essa in un metal song,peccato per la deficitaria produzione che non permette di assaporare le prolungate armonie metal doom dark del gruppo, che ha buone potenzialità e potrebbe riservare qualche sorpresa in futuro, specialmente per chi ricerca nomi nuovi nel doom classico.

TRACKLIST
1.Lost
2.Salvation
3.Fuck You We’re Lucifer’s Fall
4.Fuck You We’re Lucifer’s Fall (demo)
5.Mother Superior (demo)
6.The Summoning (demo)
7.Unknown Unnamed (demo)

LINE-UP
Deceiver – Vocals
Unknown Unnamed- Drums
Heretic – Rhythm Guitar
The Invocator – Lead Guitar
Cursed Priestess – Bass

LUCIFER’S FALL – Facebook

Mojuba – Astral Sand

Dimenticatevi lo stoner da classifica, in Astral Sand si picchia duro e si viaggia in un’atmosfera sabbatica

Da un’idea di Francesco Mascitti nel 2014 si formano i Mojuba, che arrivano all’esordio con Astral Sand tramite Red Sound Records.

La band, oltre al chitarrista e fondatore, vede Pierpaolo Cistola dietro al microfono e la sezione ritmica composta da Alfonso Bentivoglio alle pelli e Fabrizio Rosati al basso.
Un richiamo alle origini del blues nel nome (il “Mojuba” è una preghiera africana di lode e ringraziamento, da cui deriva il termine Mojo, l’amuleto magico che accompagnava i bluesman delle origini) ed una voglia matta di jammare sulle ali dello stoner rock, pescando ispirazioni dalle varie scene che si sono succedute nei decenni prima della fine del secolo scorso e lasciandole fluire in un sound dal clima psichedelico e rituale.
Dimenticatevi lo stoner da classifica dunque, in Astral Sand si picchia duro e si viaggia in un atmosfera sabbatica, in una lunga e messianica jam dove, nella coltre di nebbia causata da fumi illegali, hard rock settantiano, doom psichedelico e stoner rock si alleano per farvi perdere nei meandri di note che formano questo intrigante rito.
Atmosfere dilatate si alternano a bordate elettriche pesanti come incudini, la voce grezza ci accompagna tra le note che prendono forma nella nostra mente come fantasmi o spiriti danzanti, mentre la chitarra disegna riff di scuola Rise Above e di quei gruppi che si unirono alla famiglia di Lee Dorrian.
Un album che va assaporato fino all’ultima nota, in un crescendo che ha il suo picco proprio nell’ultimo brano, La Morte Nera: quattordici minuti di stoner doom che ipnotizza, destabilizza e porta all’inevitabile debacle psichica. Da avere.

TRACKLIST
1. Wawa Aba Tree
2. Drowning Slowly
3. Musuyidee
4. Lost in the Sky
5. Adobe Santann
6. Astral Sand
7. Sesa Woruban
8. La Morte Nera

LINE-UP
Francesco Mascitti – Guitars
Pierpaolo Cistola – Vocals
Alfonso Bentivoglio – Drums
Fabrizio Rosati – Bass

MOJUBA – Facebook

Wolf Counsel – Ironclad

Ironclad si rivela un lavoro soddisfacente anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.

Da Zurigo arrivano i Wolf Counsel, gruppo dedito ad un doom metal piuttosto canonico, fatto salvo qualche sporadico elemento stoner presente nei brani più dinamici.

La materia viene ben trattata ed Ironclad, full length che segue l’esordio dell’anno scorso Vol.I, alla fine si rivela un lavoro soddisfacente, anche se privo di quella scintilla in grado di ergerlo ad di sopra della soglia della normale attenzione da parte dei potenziali ascoltatori.
Infatti, ascoltate Pure as the Driven Snow, brano doom dall’andamento indolente ma piuttosto evocativo, e la più stonerizzata e psichedelica title track, il resto dell’album si snoda dignitosamente verso la sua fine, dove ritroviamo comunque una buona Wolf Mountain, senza che il tutto provochi ulteriori sussulti.
I Wolf Counsel eseguono bene il compito, anche da punto di vista prettamente strumentale, ma qualche dubbio lo lascia la voce del leader Ralf Winzer Garcia, al quale manca un po’ di personalità per riuscire ad incidere maggiormente.
Nel complesso, quindi, Ironclad non può essere considerato un disco non riuscito, ma sicuramente fatica a fare breccia in chi, come me, del doom apprezza maggiormente le derivazioni più estreme od atmosferiche, mentre è probabile che l’accoglienza possa essere migliore da parte di chi è legato alla matrice più tradizionale del genere: resta il fatto che, anche in questo caso, l’eccellenza sta altrove, per cui un ascolto è senz’altro doveroso, ma con il serio rischio che non abbia alcun seguito.
Forse, spingere con maggiore convinzione sul versante psichedelico del sound potrebbe aiutare i Wolf Counsel a scongiurare il rischio di restare confinati nell’affollato limbo delle band di discreto livello ma destinate, a lungo andare, ad un inevitabile oblio.

Tracklist:
1. Pure as the Driven Snow
2. Ironclad
3. Shield Wall
4. The Everlasting Ride
5. Days Like Lost Dogs
6. When Steel Rains
7. Wolf Mountain

Line-up:
Ralf Winzer Garcia – Bass, Vocals
Reto Crola – Drums
André Mathieu – Guitars
Ralph Huber – Guitars

WOLF COUNSEL – Facebook

Trees Of Eternity – Hour Of The Nightingale

Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Occuparsi di un disco come questo, ben sapendo tutto ciò che accaduto prima della sua uscita, rende dannatamente difficile mantenere il giusto distacco, fondamentale per evitare che il coinvolgimento emotivo finisca per deformare sensazioni ed impressioni.
Quindi proverò a parlare, almeno a livello descrittivo, di Hour Of The Nightingale come se fosse il “normale” disco d’esordio di una “normale” band.

I Trees Of Eternity nascono come progetto parallelo di Juha Raivio, chitarrista e compositore principale degli immensi Swallow The Sun, che ha chiamato a sé, oltre al suo vecchio compagno di band Kai Hahto alla batteria, la splendida vocalist sudafricana Aleah Stanbridge ed i fratelli Fredrik e Mattias Norrman, noti soprattutto per esser stati a lungo due travi portanti dei Katatonia.
Da una simile configurazione non poteva che venirne fuori una band dedita ad un sound oscuro ma, ovviamente, rispetto al robusto death doom melodico dei Swallow The Sun, viene esplorato il lato più intimista e soffuso, favorito dal timbro vocale di Aleah, delicato, a tratti quasi un sussurro lontano anni luce da gorgheggi o tentazioni operistiche e, forse anche per questo, del tutto adeguato alle intenzioni di Raivio.
Hour Of The Nightingale si rivela, fondamentalmente, uno scrigno di emozioni dal primo all’ultimo minuto, e non potevano esserci dubbi al riguardo, perché il musicista finnico ha dimostrato in tutti questi anni d’essere un compositore dotato di una sensibilità fuori dal comune, capace con il suo inconfondibile tocco chitarristico di indurre alla commozione gli innumerevoli fan della sua band principale.
Nei Trees Of Eternity, ovviamente, le coordinate sono ben diverse: la chitarra tesse sempre melodie struggenti, ma il tutto viene asservito alla voce carezzevole della Stanbridge piuttosto che a quella ben più ruvida di Kotamaki, e l’andamento dell’album procede di conseguenza, per oltre un’ora di poesia e bellezza che si fanno talvolta tangibili, quasi fisiche.
Dieci gemme musicali si susseguono senza che una pesante cappa di malinconia cessi di aleggiare sulle note prodotte da un gruppo in grado di offrire, a chi adora queste sonorità, un’esperienza unica per coinvolgimento emotivo …

Oh, al diavolo! Come si fa a continuare a parlare di questo disco senza tenere conto che Aleah non è più tra noi da quasi sei mesi? Come si può evitare d’esser trascinati in un gorgo di tristezza e disperazione nell’ascoltare le struggenti trame musicali e le laceranti e profetiche liriche che lei stessa ha scritto?
A partire da My Requiem, brano che apre l’album, dove Aleah canta “Too late you’re calling out my name /
To raise me up out of my grave / Alive in memory I’ll stay” fino ad arrivare alla strofa conclusiva di Gallows Bird (“As the last ray of hope is lost / fight and resistance / Nothing remains to hold / me to this existence”), non viene mai meno un costante groppo alla gola, che costringe ad un impari battaglia con la propria sensibilità per provare a ricacciare indietro le lacrime.
Quest’ultima, lunghissima traccia, che arriva dopo lo splendore acustico di Sinking Ships, ha davvero il sapore del commiato, con le sue atmosfere drammatiche nella fase iniziale, che riportano il sound al doom più dolente: la chitarra tesse melodie di incommensurabile bellezza mentre Aleah ci dona il privilegio di ascoltarla per l’ultima volta regalandoci, dopo l’intervento di un Nick Holmes mai così cupo, un’ultima parte in cui prevale, invece, un rabbrividente senso di pace e di consapevolezza.
Hour Of The Nightingale sarebbe stato lo stesso un disco stupendo, ma non si può negare che gli eventi nefasti precedenti l’uscita abbiano moltiplicato all’ennesima potenza un impatto emotivo già di suo oltre la norma.
Però, ripensandoci, l’idea di parlare di Aleah al presente non è stata affatto sbagliata: voglio credere che il suo spirito sia sempre accanto al suo compagno di vita Juha, aiutandolo a superare la sua perdita fornendogli l’ispirazione per elargirci altre impagabili emozioni.
E, in fondo, è proprio grazie all’immortalità conferita dall’arte che Aleah Stanbridge occuperà per sempre un posto di rilievo anche nel nostro cuore di semplici appassionati ed umili cronisti di tanta bellezza: Hour Of The Nightingale è un disco perfetto che, purtroppo, non potrà mai avere un seguito, e questo è un altro buon motivo per riservargli un posto privilegiato tra i nostri ascolti, oggi e negli anni a venire.

Tracklist:
1.My Requiem
2.Eye Of Night
3.Condemned To Silence (feat. Mick Moss)
4.A Million Tears
5.Hour Of The Nightingale
6.The Passage
7.Broken Mirror
8.Black Ocean
9.Sinking Ships
10.Gallows Bird (feat. Nick Holmes)

Line-up:
Aleah Stanbridge – Vocals, Lyrics, Songwriting
Juha Raivio – Guitars, Songwriting
Kai Hahto – Drums
Fredrik Norrman – Guitars
Mattias Norrman – Bass

TREES OF ETERNITY – Facebook