Twingiant – Blood Feud

La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante.

Devastazione completa operata mediante un uso massiccio di sludge e stoner all’ennesima potenza.

I Twingiant vengono dalla calda Phoenix, Arizona, sono attivi dal 2010 e questo è il loro terzo album sulla lunga durata. Il loro suono è molto pesante, un riuscito connubio fra potenza, lentezza ed una maestosità tipica di quei gruppi che hanno un passo differente rispetto alla maggior parte degli altri. Ascoltandoli si può percepire nettamente la grande capacità compositiva, che li porta a scrivere ed a suonare canzoni di ampio respiro, che ampliano la mente dell’ascoltatore mediante un potente rumore. Blood Feud è il racconto di un massacro, che procede ora lento ora veloce, ma che inesorabilmente spezza tendini e mette fine a molte vite. La progressione è incessante e senza scadimenti o cedimenti, anzi più ci si addentra dentro il disco più si viene ammaliati da questo suono, che renderà felice chi ama la musica pesante e pensante. I Twingiant hanno un tocco personale e riconoscibile, essendo uno dei migliori gruppi del genere, e il loro disco sarà una gioia per molte tormentati sonori. Le tracce si susseguono in maniera mirabile, costruendo un filo narrativo che le unisce in modo ben strutturato e complesso, granitico e terribile. Ci sono vari livelli in questo disco, e pur apprezzandolo fin dal primo ascolto, si riesce a cogliere sempre qualcosa di diverso ad ogni passaggio successivo. Alcuni momenti sono epici, come se ci trovassimo davvero nel Giappone medioevale, e la vita fosse solo una questione di affilatura della spada.

Tracklist
1.Throttled
2.Poison Control Party Line
3.Ride The Gun
4.Re-fossilized
5.Shadow of South Mountain
6.Formerly Known As
7.Last Man Standing
8.Kaishakunin

Line-up
Jarrod – Bass/Vocals
Nikos – Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Tony- Lead/Rhythm Guitar/Backup Vocals
Jeff – Drums

TWINGIANT – Facebook

Fister & Chrch – Split

La Crown and Throne Ltd pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

La Crown and Throne Ltd, label di Denver, pubblica questo notevole split album a tutto sludge, che vede quali protagoniste due band statunitensi, i Fister ed i Chrch.

I Fister sono in circolazione già da diverso tempo ed hanno una discografia molto ricca con all’attivo tre full length ed almeno una decina di uscite più brevi; in questo brano intitolato The Ditch, il trio di St.Louis inizia senza fare sconti sparando un primo terzo piuttosto feroce ed ossessivo, per poi aprirsi leggermente e placarsi ulteriormente indulgendo in rarefatti arpeggi: la combinazione appare efficace, nonostante lo schema sia ripetuto nell’arco della durata della traccia (venti minuti) con una certa puntualità, in virtù di un’intensità che, specialmente nei momenti più robusti, appare in grado di fare la differenza.
I Chrch (non ci siamo dimenticati una u, ma è la band che ha deciso di eliminarla dal proprio monicker da un paio d’anni) arrivano da Sacramento e rispetto ai compagni di split sono decisamente meno prolifici ma anche autori di uno sludge che propende molto più verso il funeral, riuscendo a colpire in virtù di un sound maggiormente elaborato ed impattante emotivamente; i sedici minuti di un brano come Temples costituiscono una prova di forza notevole ed il suo incedere a tratti dolente, a volte colmo di cupa e rabbiosa disperazione, punteggiato da uno screaming femminile lacerante, ci offre la sensazione d’essere al cospetto di una realtà di livello potenzialmente superiore alla media e, a tale proposito, questo occasione si rivela un buon pretesto per recuperare quanto prima il full length Unanswered Hymns, uscito nel 2015.
Lo split album in questione assolve alla perfezione al proprio compito, quello di portare alla luce gruppi di sicuro spessore ma che, a causa dell’affollamento che ormai è comune ad ogni genere, anche quelli dai connotati maggiormente underground, faticano a mettersi in evidenza al di fuori di delle aree geografiche d’appartenenza.

Tracklist:
1. Chrch – Temples
2. Fister – The Ditch

Line-up:
Fister
Kirk Gatterer – Drums
Marcus Newstead – Vocals (additional), Guitars
Kenny Snarzyk – Vocals (lead), Bass

Chrch
Ben – Bass
Shann – Guitars
Chris – Guitars, Vocals (backing)
Eva – Vocals
Adam – Drums

FISTER – Facebook

CHRCH – Facebook

The Blacktones – The Day We Shut Down The Sun

I The Blackstones tornano con un nuovo album e confermano tutto il bene che si era scritto in passato con questo mastodontico The Day We Shut Down The Sun.

Un paio di anni fa mi presentarono questa band proveniente da Cagliari, un quintetto attivo dal 2011 al debutto con l’album omonimo, roccioso esempio di stoner/hard rock oscuro ed emozionale che, a tratti, veniva attraversato da uno spirito doom che ne faceva un piccolo gioiellino di musica fuori dai soliti schemi.

E’ bastato aspettare il giusto ed ecco che i The Blacktones tornano con un nuovo album e confermano tutto il bene che si era scritto al tempo con questo mastodontico (in tutti i sensi) The Day We Shut Down The Sun.
Qualcosa è inevitabilmente cambiato nel sound del gruppo, che sposta le coordinate verso lo sludge lasciandosi alle spalle la città di Seattle e trasferendosi a New Orleans.
L’album è un viaggio nel quale, ad ogni passo rappresentato dalle carte dei tarocchi, l’uomo perde una delle sue prerogative per arrivare alla fine del percorso ed essere inghiottito dal caos primordiale: tematiche per nulla scontate, dunque, ma anzi dannatamente reali, almeno guardando quello che succede nel mondo ai nostri giorni.
Registrato al V-Studio, mixato da James Pinder al Treehouse Studio e masterizzato da Brad Boatright all’Audiosiege Studio, The Day We Shut Down The Sun è distribuito dall’attivissima Sliptrick Records e ci presenta un macigno doom/sludge metal, con ancora qualche venatura stoner ma intriso di uno stordente rock psichedelico che accompagna questo tragico viaggio a ritroso nella nostra anima.
L’album parte mettendo in evidenza le novità di cui vi abbiamo accennato, The Upside Down e Ghosts sono violenti e rabbiosi brani dove le chitarre sature e la voce colma di rabbia e disperazione portano il sound verso le paludi dove sguazzano Down e Crowbar.
La title track è un capolavoro doom metal così come dovrebbe suonare nel nuovo millennio, dove riemergono in parte gli input che avevano caratterizzato il primo album, mentre Alone Together ha nel break psichedelico il suo valore aggiunto prima di lasciare alle frustate alternative southern metal di I.D.I.O.T.S. il compito di aprirci definitivamente la testa in due.
I The Blackstones sparano le ultime due bombe sludge/alternative metal con Nowhere Man e Broken Dove prima che The Magician e The Fool chiudano un album arrembante e pesantissimo come The Day We Shut Down The Sun, grande prova di questa ottima realtà proveniente da una scena sarda brulicante di talenti.

Tracklist
1.V – The Pope
2.The Upside Down
3.Ghosts
4.IV – The Emperor
5.The Day We Shut Down the Sun
6.Not the End
7.III – The Empress
8.Alone Together
9.I.D.I.O.T.S.
10.II – The Popess
11.Nowhere Man
12.Broken Dove
13.I – The Magician
14.0 – The Fool

Line-up
Aaron Tolu – Voice
Gianni Farci – Bass
Sergio Boi – Guitar
Paolo Mulas – Guitar
Maurizio Mura – Drums

THE BLACKSTONES – Facebook

Warcrab – Scars of Aeons

Gli Warcrab hanno il merito di riportare alla natia casa britannica un certo tipo di death metal, con il valore aggiunto di una componente sludge doom che lo rende parzialmente più attuale ma, al di là di tutto, Scars of Aeons è il segno tangibile di una maturazione avvenuta in tempi lunghi ma decisamente importante da parte di questa ottima band.

Riprendiamo con un po’ di ritardo rispetto alla sua uscita Scars of Aeons, che a sua volta è la riedizione in formato cd, a cura dell’Indiana Transcending Obscurity Records, del secondo full length degli inglesi Warcrab, edito solo in digitale nel 2016 dalla Black Bow Records.

Detto così può sembrare tutto molto complicato, ma in realtà si tratta soltanto di intercettare la musica quando è lei che ti si viene a proporre e non viceversa, con il grande vantaggio che, come tutte le forme d’arte, dopo che si è compiuta può tranquillamente restare in attesa per un periodo indeterminato prima che qualcuno sollevi il velo e la porti alla luce.
L’etichetta di Mumbai è una tra quelle che maggiormente spicca nella sua opera di meritoria rilucidatura di opere che, altrimenti, rischierebbero di restare confinate a pochi intimi e questo è appunto il caso di Scars of Aeons, esempio mirabile di death sludge che prende in misura piuttosto equa sia dalla più guerresca tradizione death albionica (quindi Bolt Thrower), sia dal fangoso ma ritmato sludge d’oltreoceano (con gentaglia come i Crowbar a guidarne le fila).
Il risultato è decisamente gustoso, perché gli ottimi Warcrab in poco più di mezzora scaraventano nelle nostre orecchie cinque macigni che hanno il grande pregio di non farsi notare solo per la loro pesantezza ma, anche e soprattutto, per la capacità della band di variare sul tema scovando riff memorabili, oltre a regalare anche ottime parti di chitarra solista che non è cosi scontato ascoltare in certi ambiti.
Ecco perché questa terza uscita targata Warcrab (dopo l’omonimo full length d’esordio del 2012 e l’ep Ashes Of Carnage del 2014) possiede tutti i crismi per soddisfare gli amanti del death così come quelli del doom, con attimi di feroce piacere derivante dall’ascolto di un traccia killer come Destroyer of Worlds.

Gli Warcrab hanno il merito di riportare alla natia casa britannica un certo tipo di death metal, con il valore aggiunto di una componente sludge doom che lo rende parzialmente più attuale ma, al di là di tutto, Scars of Aeons è il segno tangibile di una maturazione avvenuta in tempi lunghi ma decisamente importante da parte di questa ottima band.

Tracklist:
1.Conquest
2.Destroyer of Worlds
3.In the Shadow of Grief
4.Bury Me Before I’m Born
5.Scars of Aeons

Line-up:
Vocals – Martyn Grant
Guitar – Paul “Budgie” Garbett
Guitar – Leigh Jones
Lead Guitar – Geoff Holmes
Bass – Dave “Guppy” Simmonds
Drums – Rich Parker

WARCRAB – Facebook

Jupiterian – Terraforming

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Dallo scrigno brulicante di inquietanti forme di vita musicali della Transcending Obscurity, eccoci arrivare questo secondo full length dei brasiliani Jupiterian, interpreti di un maestoso sludge death doom.

Ho notato che sia oggi che in passato questo gruppo paulista ha riscosso pareri decisamente discordanti, e io stesso avevo apprezzato ma senza esaltarmi il death doom offerto dai nostri circa tre anni fa con l’ep di debutto Archaic, ma credo che questo sia il destino chi non si limita ad offrire musica accondiscendente o banale: personalmente ritengo che Terraforming, oltre a costituire un’evoluzione sonora davvero decisa ed importante, sia pressapoco la miglior forma possibile di sludge che si possa offrire di questi tempi perché, se proviamo a prendere una band che interpreta il genere nella maniera più estrema ed incopromissoria possibile, come per esempio i Primitive Man, conferendole una quantità minima ma fondamentale di senso melodico, ecco venirne fuori l’essenza musicale dei Jupiterian.
E’ grazie a questo che l’album non ottiene solo l’effetto di opprimere l’ascoltatore perché, aprendosi a passaggi più fruibili nonostante non venga mai meno un’assoluta pesantezza, riesce ad attrarre irresistibilmente così come farebbe l’enorme massa gravitazionale del maggiore dei pianeti richiamato dal monicker della band.
Se Matriarch e Forefathers sono l’emblema del migliore è più compiuto sludge doom (con annessi accenni di ambient), in Unearthly Glow si fanno largo quelle insperate melodie che che paiono riportare il tutto su un piano più accessibile, e se nella title track lo sperimentatore Maurice De Jong (Gnaw Their Tongues) offre il suo contributo ad un notevole break ambientale/rumoristico, la successiva Us And Them dei Jupiterian non ha davvero nulla in comune con la ben più nota canzone pinkfloydiana, anche se alla fine la chitarra disegna passaggi gradevolmente cristallini, prima che Sol rada al suolo definitivamente quel poco che era rimasto barcollante in posizione verticale, con un riffing dal carico oppressivo difficilmente descrivibile.
A mio avviso la dote migliore dei Jupiterian sta essenzialmente nel loro non accontentarsi di picchiare soltanto, ricordando a noi e a molti dei propri colleghi di genere quanto sia fondamentale variare ed offrire di tanto in tanto agli ascoltatori degli appigli ai quali potersi aggrappare per non essere spazzati via dallo tsunami di riff che la band brasiliana non fa certo mancare.

Tracklist:
1. Matriarch
2. Unearthly Glow
3. Forefathers
4. Terraforming (ft. Maurice de Jong of GNAW THEIR TONGUES)
5. Us and Them
6. Sol

Line up:
V – Voices, Guitars, Percussions, Synths
A – Guitars
R – Bass
G – Drums

JUPITERIAN – Facebook

Soyuz Bear – Black Phlegm

Black Phlegm è un album che magari non brillerà per la sua varietà ma esibisce un impatto oggettivamente devastante in più di un frangente.

Sludge doom di nortevole impatto per l’esordio su lunga distanza dei francesi Soyuz Bear.

Black Phlegm prende le mosse dalle migliori band del settore (oltre alle dichiarate influenze di Eyehategod e Iron Witch, vanno aggiunti anche gli imprescindibili Dopethrone) e, fin dalle prime note della title track, si capisce che il quartetto di Tolosa non ha nessuna intenzione di indulgere in passaggi che non siano contrassegnati da un riffing di pesantezza non comune.
In poco più di mezz’ora i Soyuz Bear vanno avanti senza tentennamenti con il loro incedere pachidermico ma sempre abbastanza diretto, fatta eccezione per il breve episodio rumoristico intitolato S.W.T.V.M. e per la violenta accelerazione impressa a Scrub.
Per il resto, questo nero monolite si abbatte con violenza sull’ascoltatore senza lasciargli scampo: nei brani più rallentati (Swollen in primis) ogni riff è una martellata che inchioda il malcapitato al suolo, ribadendo che Black Phlegm è un album che forse non brilla per la sua varietà, ma esibisce in compenso un impatto oggettivamente devastante in più di un frangente.

Tracklist:
1. Black Phlegm
2. Human Vanity
3. Dying People
4. Scrub
5. S.W.T.V.M.
6. Swollen

Line-up:
Val – Bass
Pierrick – Drums
Yoann – Vocals
Bast – Guitars

SOYUZ BEAR – Facebook

Forgotten Tomb – We Owe You Nothing

I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale.

I Forgotten Tomb sono una delle eccellenze italiane del nostro metal estremo fin dagli esordi, quando scuotevano l’audience con un black metal dalla forte impronta depressive sia musicalmente sia a livelli di tematiche.

Il tempo ha parzialmente smussato questo aspetto, anche se una certa disincantata negatività permane a livello lirico, mentre il sound si evoluto in una forma di black death con ampie venature doom, sempre in grado di offrire notevoli spunti melodici e soprattutto, mantenendo una cifra stilistica unica, che è poi il vero e proprio segno distintivo delle band di livelli superiore.
We Owe You Nothing è il nono full length del gruppo di Ferdinando Marchisio (alias Herr Morbid) e ad ogni nuova uscita di band provviste di un simile status è sempre grande il timore di riscontrare un appannamento irrimediabile della freschezza compositiva ma, a giudicare da questi sei brani, si può tranquillamente affermare che tale pericolo sia stato scongiurato.
Certo, bisogna partcire forzatamente dall’assunto che i Forgotten Tomb di oggi non sono più gli stessi di Love’s Burial Ground e nemmeno quelli di Negative Megalomania, il che appare tutt’altro che scontato vista la tendenza di molti a soffermarsi sul passato invece di focalizzarsi sul presente; detto questo We Owe You Nothing mantiene impresso a fuoco il marchio della band e ciò accade sia quando nella title track si palesano quelle sfumature southern che Marchisio ha sfogato nel recente passato con i Tombstone Highway, sia in Second Chances, allorchè il brano si stempera in un magnifico rallentamento di pura matrice doom.
L’ormao storica base ritmica, formata da Alessandro “Algol” Comerio al basso e da Kyoo Nam “Asher” Rossi alla batteria), che accompagna il leader fin da Love’s Burial Ground è un sinonimo di garanzia e coesione che valorizza ulteriormente il lavoro, anche quando prendono piede le caratteristiche progressioni chitarristiche come in Saboteur e, soprattutto, nel tellurico finale di Abandon Everything.
Longing For Decay è un buon brano dalle pesanti sfumature stoner sludge che però scorre via senza fornire particolari scossoni emotivi, che giungono invece con Black Overture (che contraddicendo il titolo in realtà chiude il lavoro) , splendido strumentale contraddistinto da un black doom atmosferico e melodico.
I Forgotten Tomb hanno raggiunto uno status invidiabile, che è quello di una band che può seguire una strada propria infischiandosene delle tendenze o delle convenienze commerciali, senza che questo vada minimamente ad inficiare il risultato finale; per quanto mi riguarda, ritengo che We Owe You Nothing sia il miglior album sfornato dalla band piacentina in questo nuovo decennio, rivelandosi molto più incisivo e ricco di sfumature rispetto ai pur buoni Under Saturn Retrograde, …and Don’t Deliver Us from Evil e Hurt Yourself and the Ones You Love, e questo non affatto cosa da poco …

Tracklist:
1. We Owe You Nothing
2. Second Chances
3. Saboteur
4. Abandon Everything
5. Longing For Decay
6. Black Overture

Line-up:
Ferdinando “Herr Morbid” Marchisio – guitars, vocals
Alessandro “Algol” Comerio – bass
Kyoo Nam “Asher” Rossi – drums

FORGOTTEN TOMB – Facebook

Rudhen – Di(o)scuro

Le chitarre ribassate raccontano di una psichedelia altra, un percorso di sabba che cominciò a Birmingham molto tempo fa ed arriva anche a Treviso, dove viene rielaborato in maniera inedita dai Rudhen, un gruppo che macina musica e tanto altro.

I trevigiani Rudhen arrivano al debutto sulla lunga distanza dopo due buoni ep, ed è davvero un gran disco.

Musicalmente siamo in territori stoner, con molte influenze, anche post metal in certi momenti. La cosa che spicca maggiormente è la creazione di questo groove continuo, un magma non velocissimo ma inesorabile che erode ogni cosa che incontra. Come detto già nella recensione di un loro ep su queste pagine, i Rudhen sono un gruppo che non si disperde nella nebbia di un genere abbastanza abusato, ma risaltano grazie alla loro potenza e alla varietà sonora. Inoltre come argomenti questo disco non si fa mancare nulla e spazia dalla presa della Bastiglia alla vicenda mai abbastanza narrata di Cartagine. Si spazia con la musica e con la mente, non si rimane mai fermi per più di qualche secondo, o perché spazzati via dai Rudhen, o perché loro stessi ti portano lontano. Più che essere sopra la media come qualità, è un lavoro fatto bene e con canoni personali. Certamente le loro coordinate sono conosciute, ma non è mai una musica scontata, e le chitarre ribassate raccontano di una psichedelia altra, un percorso di sabba che cominciò a Birmingham molto tempo fa ed arriva anche a Treviso, dove viene rielaborato in maniera inedita dai Rudhen, un gruppo che macina musica e tanto altro.

Tracklist
1.Castore
2.Magnetic Hole
3.Fragile Moon
4.14-07-1789 (Prise de la Bastille)
5.Carthago Delenda Est
6.My Girls are like Hallucinogenic Frogs
7.Polluce

Line-up
Alessandro Groppo: Voice
Fabio Torresan: Guitar
Davide Lucato: Bass
Luca De Gaspari: Drums

RUDHEN – Facebook

Primitive Man – Caustic

Come l’uomo primitivo, i tre del Colorado seguono l’istinto e non fanno alcun calcolo di convenienza, e ciò fa loro onore, però l’adesione senza mediazioni a questo stile musicale passa per forza di cose attraverso un proposta più sintetica, pena l’inevitabile accantonamento da parte della maggioranza dei potenziali fruitori.

Tra tanti monicker improbabili o che, comunque, ben poco centrano con l’offerta musicale delle varie band, quelle dei Primitive Man incarna alla perfezione  i turpi intenti di questi tre figuri provenienti da Denver.

La band ha esordito nel 2013 con un monolite intitolato Scorn, con il quale hanno subito esibito la loro intransigente interpretazione dello sludge, esasperandone al massimo l’impatto e rifuggendo ogni minima tentazione pseudomelodica, lasciando spazio ad una sequela di riff rallentati e distorti all’jnverosimile sovrastati da urla belluine.
Nel lasso di tempo intercorso fino all’uscita di questo nuovo macigno intitolato Caustica, in nostri hanno fatto uscire anche un ep ed una serie di split album; quest’ultimo formato, probabilmente, si addice in maniera particolare alla proposta dei Primitive Man, perché quasi un’ora e venti di misantropica incomunicabilità (tale è la durata della più recente fatica) mette a dura prova anche il più ben disposto degli ascoltatori.
Diciamo che un mezz’oretta di feroce tetragonia può essere anche gradita, stante il suo effetto straniante ed assieme catartico (nelle giornate no, ascoltare a volume insensato un brano come Disfigured è pur sempre meglio che uscire di casa e dare una testata al primo che si incontra per strada), mentre allungandosi a dismisura la distanza, la pressoché totale mancanza di variazioni sul tema, fatti salvi i brevi intermezzi rumoristici, rende davvero un impresa l’ascolto integrale di Caustic.
Come l’uomo primitivo, i tre del Colorado seguono l’istinto e non fanno alcun calcolo di convenienza, e ciò fa loro onore, però l’adesione senza mediazioni a questo stile musicale passa per forza di cose attraverso un proposta più sintetica, pena l’inevitabile accantonamento da parte della maggioranza dei potenziali fruitori.

Tracklist:
1. My Will
2. Victim
3. Caustic
4. Commerce
5. Tepid
6. Ash
7. Sterility
8. Sugar Hole
9. The Weight
10. Disfigured
11. Inevitable
12. Absolutes

Line-up:
JPC – Bass
ELM – Vocals, Guitars
JDL – Drums

PRIMITIVE MAN – Facebook

Iron Monkey – 09 13

09 13 è una prova potentissima e molto violenta, che fa ben capire perché come questo gruppo sia stato uno dei più amati del genere, e mostra anche quanto ancora possano dare alla musica estrema.

Torna con una formazione diversa uno dei gruppi fondamentali nella storia dello sludge, pubblicando un album pesantissimo e bellissimo.

Con gli inglesi Iron Monkey ci eravamo lasciati nel 1999, quando si sciolsero dopo aver pubblicato due album devastanti come Iron Monkey e Our Problem, grondanti sangue e uno sludge metal imbastardito con il noise e con il metal, il tutto farcito da un groove marcio.
Nati a Nottingham e fieramente parte di quella scena, pubblicarono il primo album omonimo nel 1996 con la piccola Union Mill, e il disco venne ristampato l’anno successivo dalla concittadina Earache, il massimo all’epoca per chi volesse farsi devastare le orecchie. Gli Iron Monkey avevano e hanno un retroterra punk hardcore e ciò lo si può sentire anche ora, riuscendo ad unire ciò con altri elementi per un mix unico. La linea genealogica porta sicuramente ai Black Sabbath per quanto riguarda i riff, inoltre i ragazzi di Nottingham hanno sviluppato un qualcosa che dall’altra parte dell’oceano veniva su quasi uguale ad opera degli Eyehategod o dei Crowbar per certi aspetti. Bisogna però mettere subito in chiaro che il suono degli Eyehategod e degli Iron Monkey ha ben poco in comune se lo si ascolta, poiché gli inglesi hanno una maggiore linea melodica nascosta sotto un cumulo di pesantezza, mentre gli americani sono maggiormente legati alla jam come metodo di composizione.
Questo album non è affatto un tuffo nel passato, questa è una nuova fase nella vita della band: sono cambiati i componenti, nel 2002 è morto Johnny Morrow per un attacco di cuore, essendo gravemente malato ai reni, ed il suo posto alla voce è stato preso da S. Briggs dai Chaos Uk, il quale aveva suonato con Morrow nei My War. Rispetto a Morrow, Briggs possiede una voce meno potente e cavernosa, ma più adatta a pezzi maggiormente veloci. Uno dei pregi del gruppo, e che è fortemente presente su 09 13, è l’assoluta mancanza di pianificazione della canzone, si parte e poi si vedrà dove si arriva, per cui si alternano pezzi più lenti e pesanti ad altri veloci, quasi hardcore sludge, con il risultato di dare una mazzata incredibile all’ascoltatore. Gli Iron Monkey sono sempre pesanti e dal suono unico, ed in questo disco riescono a completare alcuni discorsi che nei lavori precedenti erano rimasti solo in nuce. 09 13 è una prova potentissima e molto violenta, che fa ben capire perché questo gruppo sia stato uno dei più amati del genere, e mostra anche quanto ancora possa dare, anche se in pratica l’unico membro originario rimasto è il chitarrista Robert Graves.

Tracklist
1.Crown of Electrodes
2.OmegaMangler
3.9-13
4.Toadcrucifier – R.I.P.PER
5.Destroyer
6.Mortarhex
7.The Rope
8.Doomsday Impulse Multiplier
9.Moreland St. Hammervortex

Line-up
JIM
LEGENDARY STEVE WATSON
BRIGGA

IRON MONKEY – Facebook

Row Of Ashes – Let The Long Night Fade

Let The Long Night Fade è un album con il quale si può faticare ad entrare in sintonia ma, allorché ciò accade, avendo l’accortezza di non limitarsi ad un approccio frettoloso, si squarcia improvvisamente il velo su una band poco convenzionale e dal potenziale non ancora del tutto espresso in questo lavoro.

Gli inglesi Row Of Ashes appartengono alla notevole scuderia della Third I Rex, etichetta che propone con buona regolarità band appartenenti ad una cerchia che abbraccia, approssimativamente, generi come black, doom e post metal, il tutto offerto in forme mai scontate.

Questo gruppo londinese, al proprio primo passo su lunga distanza, non fa eccezione rispetto a queste buone abitudini, con un album come Let The Long Night Fade che non può certo lasciare indifferenti.
Indubbiamente l’elemento che rende peculiare l’operato dei Row Of Ashes è la voce di Eliza Gregory, non tanto per questioni di genere bensì per l’intensità a tratti esasperata che la ragazza mette nella propria interpretazione: da toni carezzevoli e timbriche quasi adolescenziali (Let The Long Night Fade e 2.5907786999999987 55.6852689) si passa senza soluzione di continuità ad urla belluine capaci di esprimere una rabbia che ha poco da invidiare ai migliori interpreti del settore.
La band ne asseconda l’operato con un approccio molto essenziale e ruvido, anche quando i ritmi si placano come nei due brani citati, mantenendo sempre sotto traccia una tensione palpabile pronta ad esplodere quando il wattaggio si incrementa: in questi casi il tutto viene espresso con uno sludge hardcore dissonante (The Hunt And The Herd, Dual Wounds) oppure lasciando qualche spazio a barlumi melodici (Descending, Mass Strandings).
Let The Long Night Fade è un album con il quale si può faticare ad entrare in sintonia ma, allorché ciò accade, avendo l’accortezza di non limitarsi ad un approccio frettoloso, si squarcia improvvisamente il velo su una band poco convenzionale e dal potenziale non ancora del tutto espresso in questo lavoro, a tratti convulso ma dall’enorme carico di inquietudine.
La conclusiva False Teeth racchiude efficacemente entrambe le anime dei Row Of Ashes, con la furia che monta lentamente come l’onda di un mare che da calmo si fa tempestoso, e quando questo avviene è ormai troppo tardi per mettersi in salvo.

Tracklist:
1.Let The Long Night Fade
2.The Hunt And The Herd
3.Gravesend
4.Descending
5.2.5907786999999987 55.6852689
6.Mass Strandings
7.Dual Wounds
8.False Teeth

Line-up:
Will Turner-Duffin – Guitar
Eliza Gregory – Vocals/Lyrics
Dan Arrowsmith – Drums
Chris Wilson – Bass

ROW OF ASHES – Facebook