The Blind Catfish – The King Of The River

Suonato e prodotto in modo egregio, “The King Of The River” è un bellissimo lavoro dove il blues del delta si unisce al rock moderno ed alla tradizione italiana

Il nostro grande fiume Po, vicino alle cui rive è stata scritta gran parte della nostra storia politica e sociale, bagna una terra di contadini così come d’industrie, di motori, cibo ed ovviamente tanta buona musica: nelle sue acque vive e regna il pesce gatto, sovrano incontrastato delle acque del fiume.

A fare da colonna sonora alle storie che si intrecciano con lo scorrere delle acque, c’è il blues rock dei The Blind Catfish, band che prende il nome proprio dal “fish monster” e che vuole essere (con successo) il cordone ombelicale che unisce il Po con un altro grande fiume, il Mississippi, vicino al cui delta è nato il blues, genere padre di tutta la musica moderna.
Suonato e prodotto in modo egregio, The King Of The River è un bellissimo lavoro dove il blues del delta si unisce al rock moderno ed alla tradizione italiana, colmo com’è di ottime canzoni, elettriche e sanguigne, dall’impronta southern e folk: dieci brani che toccano l’anima, più la riuscita ed inusuale cover di Billy Jean di Michael Jackson, trasformata dalla band di Carpi in una ballata intimista e melanconica.
Il resto dei brani alternano blues rock graffiante(Tool), a tratti raffinato e sensuale (The King Of The River), southern rock alla Blackberry Smoke (Late Night With The Cat) , ballate dai suoni roots (Lead You) ed altre dallo spirito rock (Belong To You).
Enorme il blues funky di The Ballad Of Lonely Sock, brano che si divide tra vicoli newyorkesi e saloon sporchi, di route di frontiera o strade polverose di pianura, che circonda ed accompagna il fiume nel suo lento discendere verso il mare.
The King Of The River si rivela un ascolto vario, adatto a tutti i tipi di palati, dai più in linea con il genere fino a chi preferisce suoni rock, proprio per la sua varietà di atmosfere che si fondono in questa lunga suite di musica del diavolo.
Ascoltando gli straordinari ritmi di Red Pants Panda si ha davvero l’impressione che L’Emilia non sia poi così lontana dal Mississippi: debutto coi fiocchi.

Tracklist:
01. Tool
02. The Ballad Of The Lonely Sock
03. The King Of The River
04. Belong To You
05. Red Pants Panda
06. Finding Emily
07. Lead You
08. Seamonkey
09. Late Night With The Cat
10. Bananapalooza
11. Billie Jean

Line-up:
Marco Maretti
Luca Fragomeni
Pietro Pivetti
Francesco Zucchi
Federico Bocchi

THE BLIND CATFISH – Facebook

Fallen – Secrets Of The Moon

Un bellissimo lavoro, capace di rievocare in maniera del tutto personale le sonorità che furono portate alla ribalta negli anni ’70 dalla florida scena tedesca, con nomi quali Klaus Schulze, Tangerine Dream e Popol Vuh, tra gli altri.

Nel novembre dell’anno scorso avevo avuto l’occasione di parlare di un interessante progetto solista denominato The Child Of A Creek, creatura musicale di Lorenzo Bracaloni.

All’epoca i dischi presi in esame erano stati ben due: il primo,”Quiet Swamps”, andava a tastare i territori del neo folk in una forma molto personale, mentre il secondo, “Hidden Tales And Other Lullabies”, vedeva il nostro cimentarsi in una manciata di brani ambient dall’ampio respiro melodico.
Proprio da quest’ultimo lavoro prende le mosse Fallen, nuova espressione musicale del buon Lorenzo che, con Secrets Of The Moon, regala agli ascoltatori un lavoro capace di rievocare abilmente le sonorità che, negli anni ’70, furono portate alla ribalta dalla florida scena teutonica (parliamo quindi di Klaus Schulze, Tangerine Dream e Popol Vuh, tra gli altri).
Va detto subito che la forma ambient in questo disco appare lontana anni luce dalle espressioni più minimali e cervellotiche che il genere in questione tropo spesso offre: qui ogni brano è dotato di una struttura melodica portante che, se per sua natura tende a reiterarsi, si rivela sempre e comunque gradevole ed avvolgente e quindi del tutto provvista di un’autonomia musicale svincolata dall’eventuale utilizzo di supporti visivi.
Nonostante si spinga molto vicino all’ora di durata, Secrets Of The Moon non mostra mai la corda e bandisce ogni forma di noia, anche se è implicito il fatto che chi non è avvezzo a sonorità di questo tipo potrebbe non trovarsi d’accordo con questa mia affermazione.
Eppure bisognerebbe ogni tanto provare a fermare la nostra folle corsa quotidiana, chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare da note limpide, eteree, capaci di raggingere le pieghe più nascoste del nostro spirito, facendoci recuperare quella sensibilità nei confronti dei piccoli particolari e di tutto ciò che, circondandoci quotidianamente, finisce per apparire banale e scontato nonostante la sua oggettiva bellezza.
Una morbida base elettronica che si stende su un soffuso tappeto percussivo: questo è a grandi linee ciò che ci si deve attendere dal lotto di brani compresi in questo magnifico album: Golden Dust e Ravenhand vi stupiranno per la loro eterea bellezza, Cosmos già dal titolo fa capire quanto l’autore sia devoto cultore di quella Kosmische Musik (sentite come questa definizione in lingua madre suoni più solenne rispetto all’orrendo “krautrock” … ) della quale i musicisti poc’anzi citati sono stati i numi tutelari, e At The End Of The World chiude il lavoro così come aveva preso avvio con la title track, lasciandoci in eredità solo gradite vibrazioni positive.
Peraltro, l’inevitabile gioco dei rimandi mi ha portato a riscoprire dischi che avevo acquistato quand’ero decisamente più giovane, in particolare “Cluster & Eno”, primo frutto della collaborazione tra il genio britannico ed il duo formato dai musicisti tedeschi Dieter Moebius e Hans-Joachim Roedelius, a conferma di quanto questo primo lavoro targato Fallen possieda anche un discreto potere “taumaturgico”: un buon motivo in più per lasciarsi cullare dalle note di Secrets Of The Moon …

Tracklist:
1. Secrets of the Moon
2. Golden Dust (The Vanishing)
3. Ravenhand
4. Of Dreams (and Wounds)
5. Cosmos
6. At the End of the World

THE CHILD OF A CREEK – Facebook

Forgotten Tomb – Hurt Yourself And The Ones You Love

L’ennesima prova maiuscola di una grande band, con un album inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista.

Per comprendere il valore effettivo dei Forgotten Tomb è sufficiente fare un ripasso mentale delle proprie conoscenze musicali cercando di ricordare quante siano le band che, nell’arco di oltre quindici anni di carriera ed almeno sette album all’attivo, abbiano mantenuto costantemente uno standard qualitativo così elevato.

Ben poche, immagino, e tra queste la creatura di Herr Morbid è una tra quelle che sono tutt’oggi attive senza alcuna intenzione di mollare la presa, come dimostra un lavoro eccellente come Hurt Yourself And The Ones You Love.
Come ebbi già occasione di dire in occasione del precedente “… And Don’t Deliver Us From Evil”, i Forgotten Tomb hanno cambiato pelle rispetto alle asperità degli esordi, eppure, paradossalmente, non sono mai stati pesanti come oggi, con un sound riconoscibile in ogni passaggio e capace di attingere da svariati generi mantenendo un’impronta oscura e tutt’altro che che rassicurante dalla prima all’ultima nota.
Rispetto al precedente album i brani appaiono ancor più profondi e la componente doom forse spicca come non mai nella pur abbondante produzione della band piacentina: le chitarre suonano corposamente distorte e, a tale approdo, potrebbe non essere del tutto estranea l’esperienza di Herr Morbid con i Tombstone Highway, band che lo ha visto alle prese con una formidabile proposta di southern “doomizzato”.
Non a caso i due brani che maggiormente impressionano sono proprio quelli che trasportano questo seme: prima Bad Dreams Come True, specie nella sua fase iniziale, visto che in seguito si apre ad una delle rare quanto impressionanti sfuriate di black melodico, poi soprattutto la monolitica Dread the Sundown, traccia che segna probabilmente uno dei momenti più elevati dell’intera discografia del gruppo emiliano, con il suo riff dalla pesantezza quasi estenuante che, specie nella parte conclusiva, provoca un effetto straniante difficile da spiegare se non provandolo di persona.
L’opener Soulless Upheaval, la title track, Mislead the Snakes e la più  orecchiabile (relativamente, si intende) King of the Undesirables, portano al loro interno le stimmate di un sound che mai come oggi rasenta le perfezione, grazie al mirabile e graduale inserimento di elementi che lo hanno traghettato dal depressive black dei primi album fino a questa forma di metal che ne mantiene inalterato lo spirito, pur senza esibirlo in maniera cruda e diretta come avveniva al’inizio dello scorso decennio.
Il malinconico ambient di Swallow the Void mette la parola fine su un album inattaccabile sotto qualsiasi punto di vista.
Fuori dai nostri confini i Forgotten Tomb ci vengono invidiati un po’ da tutti; sarebbe il momento di dimostrare finalmente che anche in Italia un numero consistente di persone è in grado di apprezzare forme artistiche più estreme, come già avviene da tempo in molti altri paesi …

Tracklist:
1. Soulless Upheaval
2. King of the Undesirables
3. Bad Dreams Come True
4. Hurt Yourself and the Ones You Love
5. Mislead the Snakes
6. Dread the Sundown
7. Swallow the Void

Line-up:
Herr Morbid – Guitars, Vocals
Algol – Bass
Asher – Drums
A. – Guitars (lead)

FORGOTTEN TOMB – Facebook

Dementia Senex / Sedna – Deprived

Due tra le migliori realtà italiane in ambito post metal vengono riunite per questo split album edito dalla Drown Within Records.

Due tra le migliori realtà italiane in ambito post metal vengono riunite per questo split album edito dalla Drown Within Records.

Dementia Senex e Sedna, band entrambe di stanza a Cesena, si sono già messe in luce nel recente passato con ottime prove: i primi con l’ep “Heartworm” del 2013, i secondi con l’album omonimo dello scorso anno che è stato considerato da gran parte della critica come uno dei migliori lavori in assoluto del 2014.
I due brani presenti nello split sono stati incisi entrambi lo scorso anno ma, mentre per i Dementia Senex si tratta di una nuova produzione successiva allo scorso Ep, per i Sedna bisogna risalire a qualche settimana prima dell’inizio delle registrazioni dell’album; inevitabilmente ciò comporta per i primi una sostanziale evoluzione rispetto a quanto prodotto in precedenza, mentre per i secondi resta ben impresso il sound che poi sarebbe confluito nel lavoro su lunga distanza.
Indubbiamente i Dementia Senex denotano una rabbia veicolata in maniera più diretta, pur senza trascurare la componente melodica, nell’ambito di una traccia come Blue Dusk che sembra spostare comunque l’asse compositiva verso un sound meno aspro, mentre l’approccio dei Sedna, che affonda maggiormente le proprie radici in una forma molto personale di black metal impastato dallo sludge e da ampie sfumature post hardcore, anche con Red Shift  si dimostra in qualche modo più avvolgente pur essendo piuttosto contiguo a quello dei compagni di split.
In entrambi i casi la manipolazione della materia è di primissima qualità in maniera tale che, forse, mai prima d’oggi le due band concittadine si sono trovate così vicine anche dal punto di vista stilistico; in tal senso, se non si può fare a meno di constatare quanto l’intensità mostrata dai Sedna sia qualcosa difficilmente avvicinabile per chi si cimenta in questo genere musicale.
Nonostante ciò i Dementia Senex non escono certo ridimensionati dall’arduo confronto, confermando e rafforzando le doti messe in mostra all’epoca di “Heartworm”; va rimarcato però, a tale proposito, che dopo l’uscita dello split la band ha dovuto subire la defezione del vocalist Cristian Franchini e questo potrebbe intralciarne momentaneamente la progressione.
Detti ciò, Deprived è un uscita di pregio che riporta l’attenzione su due band destinate a dare ulteriore lustro alla scena metal nazionale.

Tracklist:
1. Dementia Senex – Blue Dusk
2. Sedna – Red Shift

Dementia Senex
Mattia Bagnolini – Drums
Cristian Franchini – Vocals
Filippo Merloni – Guitars
Marco Righetti – Guitars
Gianmaria Mustillo – Bass

Sedna
Mattia Zoffoli – Drums
Elyza Baphomet – Vocals, Bass
Alex Crisafulli – Vocals, Guitars

DEMENTIA SENEX – Facebook

SEDNA – Facebook

Breakin Down – Judas Kiss

Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Che in questi ultimi anni l’hard rock stia vivendo una seconda giovinezza (a livello qualitativo) non è un mistero: dai suoni classici a quelli più moderni il genere sta regalando album in linea con le produzioni passate; certo, le band ai primi posti delle classifiche come negli anni d’oro sono un ricordo, ma le varie reunion e gli ottimi ultimi lavori dei nomi storici, sommato ad una scena underground più che mai viva e di qualità, fanno sperare almeno in uno stabilizzarsi del genere su livelli di popolarità sufficienti per non andare a cercare album tra le edizioni giapponesi, come accadeva negli anni novanta e all’inizio del nuovo millennio.

Via uno, sotto l’altro, ultimamente mi capita sempre più spesso di imbattermi in gruppi usciti con lavori esaltanti: i nomi sono tanti, specialmente nella scena nazionale, a cui si aggiungono i sardi Breakin Down con il loro ultimo lavoro dal titolo Judas Kiss.
Nati nell’ormai lontano 1999 da un’idea della coppia Simone Piu (voce e basso) e Francesco Manna(chitarra), iniziano a calcare i palchi della regione come cover band, ma scrivere pezzi propri è un passo obbligatorio, così come assestare la line-up che, nel corso degli anni, vede avvicendarsi vari musicisti della scena isolana.
Il primo lavoro del gruppo esce nel 2011, quando la band vola negli states e con Fabrizio Simoncioni (Ligabue, Litfiba, Negrita tra gli altri) alla produzione incidono Miss California, che li porta in tour per l’Europa calcando inoltre palchi in compagnia di Pino Scotto, Stef Burns, Paolo Bonfanti ed Eric Sardinas.
Veniamo a Judas Kiss: l’album è uno splendido concentrato di hard rock americano, un riassunto di quello che laggiù è stato offerto negli ultimi quarant’anni di musica rock racchiuso in poco più di mezzora di suoni stradaioli, ipevitaminizzati da ritmiche adrenaliniche, watts elargiti a profusione ed un’anima southern che, quando prende il sopravvento, impreziosisce i brani, che siano nati sulle strade assolate della Sardegna o sulle route americane, poco importa.
Da sentire tutto d’un fiato, il lavoro tiene l’ascoltatore in pugno per tutta la sua durata, rapito dal tono sporco e sanguigno di Simone Piu, dalle sei corde grintose che inanellano ritmiche e solos che definirle trascinanti è un eufemismo (Francesco Manna e Mauro Eretta), e stordito dai colpi sul drumkit di Fabrizio Murgia.
Potrei parlarvi dello straordinario rock’n’roll di Babylon Rock City, del riff d’apertura del lavoro su Diamonds And Bitches, brano dal groove micidiale, delle tastiere settantiane nella semiballad The Long Goodbye, delle ritmiche stoner di Liver And Lovers e Rock’N’Roll Is Dead (Kyuss), ma in realtà non c’è una sola canzone, in questo disco, che non meriterebbe una particolare menzione.
Judas Kiss raccoglie l’eredità di Lynyrd Skynnyrd, Rolling Stones, Motorhead, senza dimenticare che siamo ormai nel nuovo millennio, ed allora i Breakin Down lo ammantano di sonorità desertiche alla Kyuss, ottenendo per un risultato stupefacente.
Un altro album da sbattere sul muso di chi afferma che il rock è morto, e questo in particolare, in virtù del suo valore, fa davvero male, molto male.

Tracklist:
1.Diamonds And Bitches
2.Judas Kiss
3.Dangerous Rose
4.Blood And Blood
5.The Long Goodbye
6.Home Sweet Hell
7.Babylon Rock City
8.Liver And Lovers
9.Woman
10.Sometimes
11.Rock’n’Roll Is Dead
12.Texas Radio

Line-up:
Simone Piu- Basso Voce
Francesco Manna-Chitarra
Mauro Eretta-Chitarra
Fabrizio Murgia-Batteria

BREAKIN DOWN – Facebook

Sinatras – Six Sexy Songs

Sei brani di death metal contaminato da sferragliante hard’n’roll e ipervitaminizzato da ritmiche grondanti groove

Riuniti sotto la bandiera del death’n’roll, cinque musicisti nostrani assemblati dal chitarrista Emanuele Zilio (Strange Corner) debuttano con questo ottimo ep , disponibile gratuitamente in download sul sito del gruppo.

Sei brani di death metal contaminato da sferragliante hard’n’roll e ipervitaminizzato da ritmiche grondanti groove, trascinante e sacrificato sull’altare del puro massacro on stage.
La band nostrana, con l’esperienza accumulata dai protagonisti, da parecchi anni sulla scena metallica, sa come far sanguinare strumenti e padiglioni auricolari: il loro metal estremo diverte e sconquassa, macinando riff su riff, tra tradizione death ed un’attitudine rock’n’roll che deborda dalle canzoni come un fiume di note, rompendo gli argini sotto un’alluvione di watt e invade e trascinando con sé i fan di queste sonorità i quali, per salvarsi, dovranno compiere un’impresa.
Le ritmiche colme di groove, molto cool di questi tempi, sono l’arma in più del combo che, sommato al death dei maestri Entombed dell’epocale “Wolverine Blues” e a un sound panterizzato e a tratti stonerizzato, rendono brani come Contamination, Sunshine e The Game assolutamente devastanti.
Sulla ottima Franck Is Back compare qualche accenno core nei suoni di chitarra e nel ritornello, mente il resto delle tracce sballotta l’ascoltatore tra il death scandinavo ed il metal statunitense.
La band a livello tecnico non offre il fianco a critiche, partendo dall’ottima prova del singer Fla, sul pezzo sia nel growl sia nelle clean vocals comunque sempre robuste e di impatto; la sezione ritmica si dimostra un motore a pieni giri (Lispio al basso e Jenny B. alle pelli) ed enorme risulta il lavoro delle due asce (Minkio e Lele), tra ritmiche forsennate e solos di dirompente impatto hard & heavy .
L’ep, immesso sul mercato per sondare il terreno prima di un futuro full length, dimostra tutte le ottime potenzialità della band nostrana, dunque l’ascolto è consigliato agli amanti del genere; il download gratuito è una mossa azzeccata da parte del gruppo, quindi, senza indugi, fatevi travolgere da questi sei brani sexy, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1. Contamination
2. Frank Is Back
3. Sunshine
4. The Game
5. W.A.F.S.
6. All Or Nothing

Line-up:
Lele Sinatra – Chitarra
Fla Sinatra – Voce
Lispio Sinatra – Basso
Minkio Sinatra – Chitarra
Jenny B. Sinatra – Batteria

SINATRAS – Facebook

Sick N’ Beautiful – Hell Over Hell

Preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Certo che nella capitale in fatto di metal e rock non si scherza: con ancora nelle orecchie l’industrial/street/ glam dei divertentissimi Dope Stars Inc, gruppo che se fosse straniero sarebbe idolatrato da mezzo globo, ecco che mi esplode nelle orecchie Hell Over Hell, debutto di questo fantastico combo, sempre di Roma, partito alla conquista del globo con il suo spettacolo di hard rock circense, che poi non è altro che hard rock alternativo, colmo di groove e digressioni moderne, talmente ben fatto che comincio a pensare che i Sick N’ Beautiful siano davvero di un altro pianeta.

Prodotto alla grande tra Roma e Los Angeles e licenziato dalla Rosary Lane Usa, l’album è composto da un lotto di brani divertentissimi e dall’appeal esagerato: la band capitanata dalla singer Herma, dotata di una voce sensuale, piccante e tremendamente cool, spazia tra l’hard rock stradaiolo, con bordate di groove e ritmiche industrial che accentuano i ritmi, rendendoli ambigui e ipnotizzanti; senza farsi mancare nulla, i Sick N’ Beautiful affondano il colpo, piazzando solos metallici grondanti feeling dalle corde delle due asce di Rev C2 e Lobo.
Le canzoni di questo lavoro (tredici più tre interludi elettro-atmosferici) spaziano tra l’industrial/groove di Rob Zombie e l’hard rock di matrice statunitense: il look dei protagonisti amalgama il fascino da zombie futurista dell’ex leader degli immensi White Zombie alla teatralità fantascientifica dei Kiss e del glam/horror di Alice Cooper, influenze dichiarate del gruppo, nel quale personalmente ho trovato anche molte affinità con lo Slash solista di “Beautiful Dangerous”, brano in compagnia di Fergie contenuto nel primo album del chitarrista americano, e con l’alternative dei Nymphs di Inger Lorre.
Spettacolare il singolo e primo video New Witch 666, dal solo orientaleggiante e dalle ritmiche industrial/groove poggiate su un’atmosfera da grand guignol, così come le ritmiche del basso pulsante di Sick to the Bone, che sfociano nello street metal di Bigbigbiggun, l’orchestrazione futurista di Makin’Angels, la trascinante No Sleep Till Hollywoood e la sexy Queen Of Heartbreakers.
Ancora atmosfere dal lontano oriente con Pain For Pain: il basso di Bag Daddy Ray pulsa ipnotico, così come gli interventi elettronici, mentre Gates To Midnight risulta una sorta di semi ballad, originalissima, cadenzata, ammaliante ed Hell Over Hell si avvia al gran finale con (All In The Name Of) Terror Tera, dove le ritmiche originalissime e la voce maschile, questa volta protagonista, ci stupiscono con sfumature al limite del blues, in un brano dall’andamento geniale.
Album che smuove montagne, divide oceani e provoca uno tsunami di emozioni nei corpi e nelle menti … forza gente, preparatevi e andate allo spettacolo, il circo è arrivato in città!

Tracklist:
1. March of the Scolopendra
2. Sick to the Bone
3. Bigbigbiggun!
4. Radio Siren
5. Interlude – Angel of the Lord
6. Makin’ angels
7. Kastaway Krush
8. Interlude – A Swedish Rhapsody
9. New Witch 666
10. No Sleep Till Hollywood
11. Queen of Heartbreakers
12. Pain for Pain
13. Bleed on Me
14. Gates to Midnight
15. Interlude – Pots, Pans, and Empty Green Meth Cans
16. (All in the Name Of) Terror Tera

Line-up:
Herma – Vocals
Rev C2 – Guitar
Lobo – Guitar
Big Daddy Ray – Bass
Mr.PK – Drums

SICK N’BEAUTIFUL – Facebook

RebelDevil – The Older The Bull, The Harder The Horn

Se siete amanti del southern metal, rompete il salvadanaio e correte dal vostro fornitore di fiducia, perché quest’anno di album così non ne sentirete molti.

Beh, se esiste una band per cui vale la pena parlare di super gruppo, questi sono i nostrani RebelDevil, strordinario quartetto di southern metal composto da vere leggende della scena tricolore: Dario Cappanera alla sei corde (Strana Officina), Gianluca Perotti al microfono (Extrema), Alessandro Paolucci al basso (Raw Power) e Ale Demonoid alle pelli.

Partiti intorno al 2008 da un’idea di Cappanera e Perotti, la band esordì con “Against You” portando con sé un po’ di sano metal southern, colmo di groove, direttamente dagli stati del sud, di quell’America della quale la musica della band è debitrice.
Il nuovo lavoro continua su queste coordinate ed il rock sudista, ipervitaminizzato da scariche metalliche e ingrassato da quantità letali di groove, abbinato al talento dei protagonisti, regala momenti di puro godimento, vero sballo rock’n’roll.
La tradizione southern rock, unita alla potenza del metal stonerizzato, ormai a tutti gli effetti uno dei generi più seguiti in questi ultimi anni, viene enfatizzato dal songwriting del gruppo, questa volta perfetto, e le dieci canzoni che compongono il lavoro chiamano in causa tutta l’esperienza dei musicisti coinvolti i quali, pur non facendo mistero delle loro influenze, sparano bordate di rock americano notevoli.
Black Label Society, Corrosion Of Conformity, Pantera e Down, sono le influenze che più si evidenziano nella musica di questo trascinante lavoro, che vede un Perotti straordinario sia nei brani più diretti, sia sopratutto nelle due semiballad (Alone In The Dark e Angel Crossed My Way) dove risulta perfetto anche nell’uso delle clean vocals.
Cappanera è il solito macina riff, e la sezione ritmica tutta sudore e polvere deborda con una prova “grassa” e a tratti pesante come un macigno.
Brani dai refrain entusiasmanti abbinano pesantezza e melodia, anthem di metal sudista che non oso pensare che danni potrebbero fare sul versante live (Crucifyin’ You e Freak Police da questo lato sono devastanti), vengono accompagnate da sfuriate dal sapore thrash (Rebel Youth, Religious Fantasy) che aggiungono adrenalina al clima da battaglia desertica di questo trascinante ed esaltante The Older The Bull, The Harder The Horn.
Se siete amanti del genere, rompete il salvadanaio e correte dal vostro fornitore di fiducia, perché quest’anno di album così non ne sentirete molti, garantito.

Track List:
1 – Rebel Youth
2 – Sorry
3 – Freak Police
4 – Remember
5 – Religious Fantasy
6 – The Older the Bull, the Harder the Horn
7 – Angel Crossed My Way
8 – Crucifyin’ You
9 – Alone in the Dark
10 – Power Rock ‘n’ Roll

Line-up:
Gielle Perotti – voce
Dario Cappanera – chitarra
Alessandro Paolucci – basso
Ale Demonoid Lera – batteria

REBELDEVIL – Facebook

Satori Junk – Satori Junk

Debutto per questi rumorosi milanesi che conoscono a fondo l’arte di catturare l’ascoltatore in spirali soniche.

Debutto per questi rumorosi milanesi che conoscono a fondo l’arte di catturare l’ascoltatore in spirali soniche.

Nel loro suono non troviamo nulla di veramente innovativo, poiché c’è la più grande delle ricchezze per un disco: farsi ascoltare molte volte e non averne abbastanza.
Questi ragazzi hanno un suono molto simile agli Electric Wizard, temi in quota Black Sabbath e comunque hanno più di un piede nel suono stoner, ma la loro caratteristica principale è questo groove molto pieno che li porta a spiccare.
Le canzoni sono lunghe, tutte superano i cinque minuti, ma tengono incollati alle casse o alle cuffie, ad aspettare ciò che viene dopo il primo riff, dopo il giro di batteria, senza mai annoiare.
I Satori Junk fanno sembrare semplice ciò che molti gruppi fanno con estrema difficoltà, ovvero sono naturali e hanno composto un disco che è la summa di tutto ciò che sono stati fino ad ora, gettando le basi di un buon futuro.
Questi otto pezzi non sono che l’inizio in territorio discografico di un cammino che spero per loro e per noi, li porti molto lontano.
Con i giusti volumi questo disco omonimo farà tremare più di un muro, avendo al suo interno pesantezza e potenza, ma anche tanta melodia, e un alto indice di gradimento sia per chi già conosce questo suono, sia per chi lo bazzica meno.
Satori Junk si rivolge, anche a causa della sua natura, al di fuori dello stretto ambito stoner, ponendosi come un disco a cui stanno strette le definizioni, anche perché è forte la componente psych anni settanta senza essere affatto predominante.
Un ascolto che ha diverse facce ed un solo grande groove.

Tracklist:
1. T.T.D.
2. Spooky Boogie
3. Monsters
4. Shamaniac
5. Blessed Are The Bastards
6. Ritual
7. Lord Of The Pigs
8. Queen Ant Jam

Line-up:
Luke – Voce, Synth
Chris – Chitarra
Lorenzo – Basso
Max – Batteria
Alessandro – Roadie e Uomo Banchetto

SATORI JUNK – Facebook

Temperance – Limitless

Mettetevi comodi e partite con i Temperance per un viaggio spettacolare, che vi condurrà in questo spazio “senza limiti”.

Non era facile per i Temperance, band di Marco Pastorino dei Secret Sphere e della stupenda vocalist Chiara Tricarico, tornare in pista dopo i fasti del clamoroso debutto omonimo dello scorso anno, finito sulla mia personale playlist del 2014 come uno dei più riusciti lavori in ambito symphonic metal.

Squadra che vince non si cambia, ed allora ritroviamo la band al completo con i fratelli Capone e Liuk Abbott, supportati da Simone Mularoni (DGM) a mixare questo altro splendido esempio di metal dalle mille sfaccettature, ora sinfonico, ora con una marcata impronta elettronica, ora apertamente estremo, ma sempre irresistibile e dall’enorme appeal.
Certo è che l’effetto sorpresa che, lo scorso anno, aveva aggiunto valore ad un debutto di per sé eclatante, viene inevitabilmente a mancare ma, invece di fargli perdere qualche punto, accresce il valore di questo stupendo combo e delle loro composizioni.
Molto più presente rispetto al passato è la componente elettronica, specialmente nei primi brani, mentre quella estrema affiora piano piano, esplodendo in tutta la sua spettacolare violenza verso la metà del lavoro, andandosi ad amalgamare sapientemente con il suono sinfonico, marchio di fabbrica del gruppo nostrano.
Gran lavoro della sezione ritmica e sempre più notevole l’apporto del buon Pastorino, sia alla voce, supportando al meglio la splendida vocalist, sia nel songwriting, anche questa volta superlativo, confermandosi come uno dei maggiori talenti in circolazione, non solo all’interno dei nostri confini.
Una predisposizione melodica non comune, unita ad un uso delle linee vocali che definire perfetto è un eufemismo, fanno di Limitless un’altra prova sontuosa e l’opera, se accostata con le ultime prove delle band più famose, dimostra come i Temperance hanno tutte le carte in regola per diventare una dei nomi di punta del metal nazionale anche al di fuori dai patri confini, insieme ai Lacuna Coil, dimostrando che, quando c’è il talento, anche i nostri musicisti possono giocarsela alla pari se non superare le realtà straniere idolatrate, a volte a dispetto dei santi, dagli addetti ai lavori.
D’altronde, come non rimanere ammaliati dalla prova di una Tricarico sempre più convincente, che ci delizia su tredici brani meravigliosi, che rappresentano la perfetta commistione tra metal e sinfonia, armonia e violenza, eleganza pop e furia metallica, in una tempesta di emozioni.
Sinceramente non riesco a nominare un brano piuttosto che un altro, mettetevi quindi comodi e partite con i Temperance per questo viaggio spettacolare, vi basterà seguire la track list per lasciarvi condurre in questo spazio “senza limiti”.

Tracklist:
1. Oblivion
2. Amber & Fire
3. Save Me
4. Stay
5. Mr. White
6. Here & Now
7. Omega Point
8. Me, Myself & I
9. Side By Side
10. Goodbye
11. Burning
12. Get A Life
13. Limitles

Line-up:
Liuk Abbott – Bass
Giulio Capone – Drums, Keyboards
Marco Pastorino – Guitars (lead), Vocals
Sandro Capone – Guitars (rhythm) (2013-present)
Chiara Tricarico – Vocals (2013-present)

TEMPERANCE – Facebook

New Disorder – Straight To The Pain

“Straight To Pain” ci consegna una band al suo massimo livello ed un album che difficilmente riuscirete a togliere dal vostro lettore, una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi.

C’è tanta carne al fuoco nel nuovo album dei romani New Disorder, il piatto che poi ci confezionano è un delizioso mix di tanti sapori che, uniti, formano una gustosa pietanza di cui sicuramente chiederemo il bis.

Ma andiamo con ordine: la band romana nasce nel 2009 e all’attivo ha due ep, “Hollywood Burns” dello stesso anno, “Total Brain Format” del 2011 ed il full length d’esordio “Dissociety”, uscito per la Revalve nel 2013.
In questi anni, vari cambi di line-up hanno lasciato il solo cantante Francesco Lattes come unico superstite della band originale: niente di male, la band rimpolpa le fila e firma per all’inizio dello scorso Agoge Records anno, che produce e distribuisce questo ottimo Straight To The Pain.
Intanto una considerazione: Francesco Lattes è un gran vocalist, la sua voce passionale, cangiante nei toni, segue in perfetta armonia gli umori di un sound difficile da catalogare e per questo molto affascinante.
Nel songwriting vivono molte personalità, la base su cui si poggia è sì un metal alternativo, ma questo viene manipolato ad uso e consumo della band che stupisce tra ritmiche core, brani dove il rock americano (diciamo post grunge? Diciamolo …) viene travolto da parti in cui il prog moderno (specie nelle ottime partiture chitarristiche) prende il sopravvento e Straight To The Pain può così spiccare il volo.
Musica adulta, matura, canzoni che, ad un primo ascolto, possono risultare difficili, ma che crescono in modo esponenziale dopo che avrete fatto vostre tutte le sfumature di questi ottimi undici brani.
Le atmosfere cambiano, dicevamo, e così si passa dal metal dai rimandi core di Never Too Late To Die, scelta come singolo, alla metallica ed in your face Judgement Day, dalla bellissima semiballad Lost In London alla violente Love Kills Anyway e alla conclusiva The Beholder, tutto con un gusto progressivo che, sommato alla grande prova del singer, fanno di questo lavoro un piccolo gioiello di rock/metal moderno.
Prodotto negli studi di Gianmarco Bellumori, Straight To The Pain ci consegna una potenziale top band ed un album davvero bello che difficilmente riuscirete a togliere dal lettore una volta che si sarà fatto spazio dentro di voi. Assolutamente da avere.

Tracklist:
1. Into the Pain
2. Never Too Late to Die
3. A Senseless Tragedy (Bloodstreams)
4. Judgement Day
5. Straight to the Pain (feat. Eleonora Buono)
6. What’s Your Aim? (Call It Insanity)
7. Lost in London
8. Love Kills Anyway
9. Bitch On My Wall
10. The Perfect Time
11. The Beholder
12. Lost in London ( acvoustic version)

Line-up:
Francesco Lattes – vocals
Fabrizio Proietti – guitar
Alex Trotto – guitar
Ivano Adamo – bass
Luca Mancini – drums

NEW DISORDER – Facebook

Hierophant – Peste

Venti minuti nel segno della pestilenza, l’inferno sulla terra raccontato dagli Hierophant.

Dura solo una ventina di minuti Peste, ritorno sulle scene della band ravennate, ma sono venti minuti d’intensità estrema notevole, una bordata di metallo massiccio, urlante e assolutamente non convenzionale.

Gli Hierophant sono al terzo lavoro, i precedenti full length messi in archivio portano i titoli di “Hierophant”, omonimo debutto del 2010 e “Great Mother: Holy Monster” dello scorso anno.
Peste supera ogni aspettativa con questi dieci brani collegato tra loro, uno più rabbioso dell’altro e che formano un unico intenso monolite di metal estremo dove l’hardcore, il black, il death ed il punk uniscono le proprie forze per scaricarci addosso una valanga di potenza inaudita.
Un clima di delirio e sofferenza, raccontata dalla musica del gruppo che si avvale delle urla disumane di Carlo, cantore tra i fumi dei falò di cadaveri bruciati, sorretto dal basso colmo di groove di Giacomo che, con il drumming di Ben, compone una coppia ritmica da apocalisse.
Le chitarre sempre impostate su riff pesanti come macigni (Lollo e Steve) formano appunto con il basso un muro sonoro estremamente potente, l’atmosfera vera e non romanzata di un’apocalisse sulla terra, portata da un virus che, nei secoli passati, ha avvicinato con la sua devastazione la terra all’inferno.
Non un attimo di tregua e tanta violenza sonora, sommata alla varietà di stili che la band utilizza per creare il proprio sound, fanno di Peste un lavoro originale ed estremamente affascinante: una band ed un album fuori dagli schemi … notevoli.

Tracklist:
1. Inganno
2. Masochismo
3. Nostalgia
4. Sadismo
5. Apatia
6. Paranoia
7. Sottomissione
8. Alienazione
9. Egoismo
10. Inferno

Line-up:
Giacomo – Bass
Ben – Drums
Lollo – Guitars
Karl – Vocals
Steve – Guitar

HIEROPHANT – Facebook

Frozen Sand – Prelude

Ottimo ep d’esordio per i prog metallers Frozen Sand, ideale preludio all’imminente full length.

I Frozen Sand provengono da Novara, nascono nel 2010 e, all’insegna di un buon progressive metal, alternando tradizione e modernità, licenziano questo Ep di quattro brani dal titolo Prelude, appunto preludio di una storia che sarà sviluppata nel futuro esordio sulla lunga distanza.

Fractal Of Frozen Lifetimes, questo è il titolo del concept in cui la band sviluppa il suo songwriting fatto di un metal/prog che predilige le atmosfere piuttosto che cervellotiche parti tecniche, anche se ai musicisti del gruppo la bravura strumentale non manca di certo.
Ottime le vocals, che passano da parti evocative che creano un aurea epica, al growl (ormai usato sempre più spesso dalle band del genere) fino ad un’ottima voce pulita, il che rende l’ascolto dei brani vario, così come vario risulta il sound di Prelude che alterna con disinvoltura progressive e metal classico, inserendo ritmiche di death moderno che seguono l’alternarsi delle voci, cambiando atmosfere ad ogni passaggio.
Inutile elencare influenze o band da cui il gruppo piemontese prende spunto, qualsiasi amante dei suoni progressivi troverà modo di farsi una sua idea: la cosa che invece salta all’orecchio è la personalità con cui i Frozen Sand affrontano un genere non facile come quello racchiuso in Prelude, aumentando la curiosità e le aspettative per il futuro full length, di cui sicuramente ci faremo carico di parlarvi.

Tracklist:
1.Chronicle I – Chronomentrophobia
2.Chronicle II – Sand Of The Hourglass
3.Chronicle III – Khrono’s Pendulum
4.Fracture

Line-up:
Luca Pettinaroli – Vocals
Mattia Cerutti – Guitar
Tiziano Vitiello – Bass
Simone De Benedetti – Drums
Federico De Benedetti – Guitar, synth guitar & back vocals

FROZEN SAND – Facebook

Ecnephias – Ecnephias

Qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media

Parlare del nuovo album di una band che si conosce molto bene e nei confronti della quale si nutrono inevitabilmente aspettative elevate non è mai facile.

Non fa eccezione sicuramente questo disco auto-intitolato degli Ecnephias, provenienti da due grandi prove quali “Inferno” e “Necrogod”; anche in questo caso, come accaduto in occasione del precedente lavoro, l’impatto non è stato dei più semplici, vista un’iniziale difficoltà ad entrare in sintonia con la nuova creazione della band lucana.
Infatti, così come “Necrogod” differiva sensibilmente da “Inferno”, lo stesso si può dire di Ecnephias rispetto al suo predecessore: in entrambi i casi gli album hanno svelato il loro valore in maniera graduale, dopo diversi ascolti, una caratteristica che di norma è sinonimo di una certa profondità delle composizioni.

Mi sono chiesto come mai ciò non mi fosse capitato a suo tempo anche con “Inferno” che, al contrario, mi aveva folgorato fin dai primi ascolti, ma credo che la risposta risieda soprattutto nella collocazione dei brani in scaletta: infatti, se un anthem come “A Satana” spalancava subito all’ascoltatore le porte dell’album, “Necrogod” riservava i suoi momenti migliori nella propria parte discendente con le magnifiche “Kali Ma” e “Voodoo”.

La stessa cosa, tutto sommato, avviene qui, con i due brani più immediati e trascinanti, Nyctophilia e Vipra Negra, che arrivano dopo oltre tre quarti d’ora di musica che necessita d’essere lavorata con una certa pazienza. Tutto questo è paradossale, in fondo, se pensiamo che lo stesso Mancan ha dichiarato che questo lavoro sarebbe stato molto più melodico rispetto ai precedenti, a dimostrazione del fatto che ammorbidire il sound non significa automaticamente rendere la musica più immediata e meno profonda.

È innegabile che le sfuriate di “Necrogod” oggi vengano stemperate in una veste più vicina al gothic dark che al metal, andando a rivangare, di volta in volta, le forme più suadenti di band come Moonspell o Type 0 Negative, fermo restando il tratto originale che il gruppo potentino ha sempre esibito, sia pure mostrando le sue diverse anime.
Infatti, qualunque sia lo stile predominante di un loro disco o di un singolo brano, gli Ecnephias sono riconoscibili fin dalla prima nota, non la sola ma sicuramente una delle principali tra le caratteristiche che rendono una band di livello superiore alla media; il loro quinto album (il quarto a partire dal 2010) può e deve essere quello della definitiva consacrazione, in grado di rompere le catene che imprigionano nel nostro paese, tranne rarissime eccezioni, chiunque provi a proporre musica dalle radici ben piantate nel metal.

A un disco come questo, infatti, non manca davvero nulla, in quanto possiede sia la giusta dose di orecchiabilità capace di far breccia anche in chi è meno avvezzo a sonorità più robuste, sia un compatto scheletro metallico in grado di far oscillare spesso il capoccione durante l’ascolto, sia infine quel peculiare gusto melodico mediterraneo che oggi propende più verso i Moospell che non ai Rotting Christ, le due band che costituiscono le estremità del territorio in cui gli Ecnephias si sono mossi in tutti questi anni. La scelta stessa di non intitolare il lavoro è il segno di quanto questo sia considerato dai suoi autori la summa di una già brillante carriera; un punto d’arrivo, per un verso, e nel contempo una base dalla quale muoversi per cercare di ampliare ulteriormente la propria notorietà fuori e dentro i confini nazionali.

Si è detto di una seconda metà dell’album probabilmente superiore a quella iniziale, ma sottovalutare l’intensità di brani quali The Firewalker, A Field of Flowers e Chimera sarebbe delittuoso; certo è che, a partire dalla a tratti pacata Tonight, con il suo splendido lavoro chitarristico, il disco subisce un’ulteriore impennata, prima con Lord Of The Stars, dove riappaiono parzialmente le evocative liriche in italiano, assenti in “Necrogod”, che ben si sposano con le melodie che vengono tessute dalla chitarra di Nikko e dalle tastiere di Sicarius, poi con la vera canzone killer del lavoro, Nyctophilia, il classico capolavoro che da solo varrebbe  un intero disco, grazie al suo refrain indimenticabile, ma che in questo caso è fortunatamente accompagnata da una serie di tracce degne del suo valore.

Detto di Vipra Negra, altro episodio simbolo che, volendo esemplificare al massimo, si può definire, almeno a livello di struttura musicale, la “A Satana” di Ecnephias, ho voluto lasciare per ultimo il brano che spicca sugli altri per la sua diversità, Nia Nia Nia, esperimento assolutamente riuscito nel suo intento di conferire al sound oscuro della band quegli elementi folk esaltati dall’utilizzo del dialetto lucano.

Ho già citato il pregevole lavoro di Nikko alla chitarra e di Sicarius alle tastiere, ma non va dimenticato il sobrio e preciso operato della coppia ritmica Miguel Josè Mastrizzi (basso) e Demil (Batteria), anche se, come è ovvio, i fari sono puntati su quello che degli Encephias è il leader storico, Mancan: il musicista potentino è indubbiamente uno dei vocalist più caratteristici dell’intero panorama metal, non solo tricolore, e continua a progredire in tal senso ad ogni album; le sue clean vocals sono ormai ben più che all’altezza di quelli che per timbrica e genere sono i suoi modelli di riferimento, e parlo di Fernando Ribeiro e del (mai abbastanza) compianto Peter Steele, mentre il suo growl è sempre corrosivo e di rara efficacia anche se, alla luce del mood meno estremo del disco, in alcuni passaggi il ricorso a questo stile vocale non appare più così necessario.

Gli Ecnephias del 2015 sono senza alcuna ombra di dubbio una di quelle band che all’estero ci invidiano e che da noi non trovano invece lo spazio che meriterebbero, un po’ per la difficoltà di chi si muove in questi ambiti nel divulgare la propria arte ad una cerchia più ampia di persone, ma soprattutto a causa del provincialismo che attanaglia l’intero movimento.

Sta agli appassionati (quelli veri) andare oltre questi limiti atavici per apprezzare, prima, e diffondere, poi, un altro grandissimo disco concepito e partorito all’interno della nostra feconda quanto contraddittoria penisola.

Tracklist:
1. Here Begins the Chaos
2. The Firewalker
3. A Field of Flowers
4. Born to Kill and Suffer
5. Chimera
6. The Criminal
7. Tonight
8. Lord of the Stars
9. Wind of Doom
10. Nyctophilia
11. Nia Nia Nia
12. Vipra Negra
13. Satiriasi

Line-up:
Mancan – Vocals, Guitars, Programming
Sicarius – Keyboards, Piano
Demil – Drums
Nikko – Guitars
Miguel José Mastrizzi – Bass

ECNEPHIAS – Facebook

Ancillotti – The Chain Goes On

Elegante,metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy.

I lettori della nostra ‘zine che all’apertura della home cliccano sulla sezione metal, non avranno certamente bisogno che mi dilunghi per presentare Bud Ancillotti, un nome che è strettamente legato ad una band leggendaria dell’hard & heavy nazionale come la Strana Officina.

Il singer, accompagnato dal figlio Brian dietro le pelli e dal fratello Sandro al basso, con l’aggiunta dell’ottimo Luciano Toscani alla sei corde, arriva all’esordio sulla lunga distanza (dopo il demo “Down This Road Toghether”) con il progetto che porta il suo glorioso cognome.
Licenziato dall’etichetta tedesca Pure Steel Records, firma di prestigio per i suoni heavy classici, The Chain Goes On aggiunge un’altra tacca sull’asta del microfono del vocalist nostrano, risultando un ottimo lavoro, suonato e prodotto benissimo, uno splendido spaccato di hard & heavy tradizionale che , inevitabilmente, porta alla mente (specialmente a chi quei gloriosi anni li ha vissuti) il passato di una musica che molti danno per morta ma che, al contrario, non solo è la fonte da cui nasce l’immenso fiume metallico, ma vive ed è perfettamente in salute, magari lontana dai riflettori ma sempre fiera ed assolutamente protagonista.
Una raccolta di brani rocciosi dove la grintosa voce di Bud declama anthem metallici, esaltanti, un songwriting sopra le righe che regala momenti pregni di quel sano heavy metal di cui non ci si può che innamorare, acciaio che fonde e si modella tra ritmiche ruvide ma dall’enorme appeal, solos sferraglianti e ballad splendide (Sunrise), a comporre un lavoro completo, curato ed elettrizzante dalla prima all’ultima nota.
Bang Your Head mette subito in chiaro che qui si fa hard rock al suo massimo livello, seguita dalla veloce Cyberland, ma siamo solo all’inizio, perché irrompe poi uno dei brani più belli del disco, Victims Of The Future, cadenzata, sostenuta da un riff mastodontico e da una prova di Bud da applausi: sanguigno ma allo stesso tempo elegante, il singer toscano invita a sedersi al banco e con attenzione seguire la lezione su come si canta su un album di questo tipo.
The Chain Goes On scorre che è un piacere tra canzoni eccezionali come Legacy Of Rock (un brano che i Saxon non scrivono più da vent’anni), I Don’t Wanna Know, Warrior e la già citata e bellissima Sunrise.
Elegante, metallico, epico, struggente, esaltante, in poche parole un must per gli appassionati dell’hard & heavy: l’esordio della band toscana regala brividi a profusione, colmando il vuoto delle uscite discografiche in questo genere, specialmente a questi livelli, aspettando il singer con una nuova prova degli altrettanti grandi Bud Tribe.

Tracklist:
1. Bang Your Head
2. Cyberland
3. Victims of the Future
4. Monkey
5. Legacy of Rock
6. Liar
7. I Don’t Wanna Know
8. Devil Inside
9. Warrior
10. Sunrise
11. Living for the Night Time

Line-up:
Sandro “Bid” Ancillotti – Bass
Brian Ancillotti – Drums
Luciano “Ciano” Toscani – Guitars
Daniele “Bud” Ancillotti – Vocals

ANCILLOTTI – Facebook

Soman – World On Fire

“World On Fire” è il racconto di un mondo che sta bruciando, la morte di una civiltà che è solo supposta tale e di un pianeta condannato alla fine dal nostro disgraziato vivere.

Brutalità death in arrivo da Genova, con questo grande album di debutto: i Soman sono dei giovani ragazzi attivi come gruppo dal 2011, con tanta voglia di fare death metal.

I vecchi saggi della Buil2Kill li hanno prontamente messi sotto contratto ed ecco uscire World On Fire; diciamo che il disco è la colonna sonora di una devastazione su scala planetaria neanche troppo futura.
I riferimenti sono certamente ai grandi nomi della scena, Carcass, Misery Index e una spruzzata di Black Dahlia Murder, ma i Soman sono un gruppo che fin dalle prime battute riesce ad imprimersi molto bene nella testa dell’ascoltatore.
Infatti, da tempo non mi capitava di sentire una band death così potente ed originale; intendiamoci, nel death metal difficilmente si inventa qualcosa, ma questi ragazzi genovesi lo fanno in una maniera in stile “Miasma” dei Black Dahlia Murder, ovvero giovinezza, freschezza ed un talento innato che li porta direttamente al livello di gruppi ben più blasonati. World On Fire è il racconto di un mondo che sta bruciando, la morte di una civiltà che è solo supposta tale e di un pianeta condannato alla fine dal nostro disgraziato vivere.
Se tale è l’inizio, i Soman sono un gruppo dal futuro molto luminoso, ma basta il questo presente con  World On Fire.
Risparmiatevi l’ultimo degli Obituary e spendete qualche euro per il futuro del metal, comprando questo disco, album dell’anno death metal, senza se e senza ma.

Tracklist:
1 Genesis
2 Symphony Of War
3 World On Fire
4 Doomsday
5 Fatman
6 Fallout
7 Matrioska
8 Meatgrinder
9 Skullcup
10 Demon’s Coffin
11 The Last Exhalation

Line-up:
Stefano Rodano – Voce
Pietro Giovani – Chitarra
Luca Ansevini – Chitarra
Maurizio Caviglia – Batteria
Mattia Merlo – Basso

SOMAN – Facebook

De Puglia Madre – 100 % Trazzcore

Band pugliese con un suono demolitore, un strano tipo di metal di grande effetto: il trazzcore.

Band pugliese con un suono demolitore, un strano tipo di metal di grande effetto: il trazzcore.

Provenienti da Ascoli Satriano, i De Puglia Madre, o meglio ditta demolizione De Puglia Madre, si sono formati appunto per demolire con il loro suono , che è potente e devastante, con una struttura nu metal ma con uno stile molto particolare, a partire da una pesantezza davvero voluminosa ed al cantato in italiano che si rivela una scelta azzeccata.
Il trazzcore è un animale ferito sull’asfalto che, nel finire i suoi giorni, uccide ancora e lo fa con ancor più rabbia contro tutto e tutti.
Difficilmente in Italia si sentono dischi di questo tipo e di questo livello, con una produzione più che buona nonostante sia artigianale, ma forse la sua forza è proprio in questo.
I De Puglia Madre sono un gruppo che impressiona fin dal primo ascolto e sicuramente i metallari più contaminati apprezzeranno questo disco: a me ha fatto davvero piacere sentirlo e sta in continuo nelle mie orecchie.
Il cantato in italiano è un qualcosa che li rende molto particolari e soprattutto dona moltissimo alla loro musica, la nostra metrica si rivela perfetta per i De Puglia Madre.
Un’ altra loro particolarità è l’uso del basso a sei corde suonato con attitudine chitarristica e che rende il tutto più cupo.
I testi perfettamente intelligibili sono notevoli e parlano delle malattie mortali delle nostre società, del nostro essere isole, della merda che ci sta in giro, e lo fanno molto bene.
Una conferma che in certi ambiti di provincia il metal arriva davvero a toccare vette alte, tutto ciò partendo dal basso.

Tracklist:
1. Rimorso
2. Amico Nemico
3. Collasso
4. Sotto Controllo
5. Millennio
6. Indiani
7. Metamorfosi
8. Demoni Dentro
9. Mamba Negro

Line-up:
Francesco Petrillo – Batteria
Antonio Perruggino – Chitarra
Danilo Moscano – Voce
Stefano Cautillo – Basso Sei Corde

DE PUGLIA MADRE – Facebook

Folkstone – Oltre… L’Abisso

Un album che è una perla per chi vuole provare emozioni diverse in un’epoca di plastificazione del passato e desertificazione del presente, per non parlare di un futuro che non esiste.

Nuovo disco per il migliore gruppo folk metal italiano e non solo: tornano i Folkstone con il loro quinto album in studio e con la loro miscela di metal e musica medioevale, ma sotto c’è molto di più.

La fantastica produzione di questo disco mette in risalto la grandezza dei Folkstone i quali, con un tappeto di musica dura, strumenti medioevali e melodie che abbiamo ormai dimenticato, scrivono testi bellissimi e davvero inediti alle nostre latitudini. Nel folk metal è facile cadere nel ridicolo, tentando di scimmiottare musiche ed atteggiamenti del passato, mentre è altrettanto difficile fonderli con la modernità musicale. I Folkstone riescono dove molti falliscono e vanno anche oltre, ponendosi davvero nella prospettiva di antichi cantori dei borghi medioevali dell’Alta Italia, in un epoca che ha lasciato tracce indelebili nella nostra cultura. Durante tutto il loro percorso i Folkstone hanno sempre avuto ben chiara in testa la direzione e questo disco è il compimento, non necessariamente un arrivo definitivo, della loro poetica. Per chi non avesse ancora letto la bibbia del folk metal, il libro “Folk Metal” di Fabrizio Giosuè, il genere è un universo affollatissimo nel quale la bellezza convive con la faciloneria e tanto altro. Con Oltre … L’Abisso i Folkstone mostrano d’essere una delle migliori band del movimento, le loro liriche sono incredibili e sembrano davvero scritte in un tempo ormai andato: per esempio L’Ultima Notte è davvero una canzone ansiogena, per come descrive gli ultimi momenti di vita della vittima di razzia notturna in un villaggio, mentre In Caduta Libera, scelto come singolo, è una chiarissima dichiarazione d’intenti. Compare anche una bellissima interpretazione di Tex, dei Litifiba, e non deve stupire poiché i primi Litfiba sono molto vicini ai Folkstone. Ogni passaggio del disco, ogni giro di chitarra e ritmo di batteria è curato in tutti i particolari ed è un valore aggiuntivo per un’opera già di per sé ottima. Un album che è una perla per chi vuole provare emozioni diverse in un’epoca di plastificazione del passato e desertificazione del presente, per non parlare di un futuro che non esiste. Ma la forza può arrivare da un passato che in fondo è dentro a tutti noi. O se va male può essere una grande festa e basta.

Tracklist:
1. In Caduta Libera
2. Prua Contro Il Nulla
3. La Tredicesma Ora
4. Mercanti Anonimi
5. RespiroAvido
6. Manifesto Sbiadito
7. Le Voci Della Sera
8. Nella Mia Fossa
9. Fuori Sincronia
10. Soffio Di Attimi
11. L’Ultima Notte
12. Ruggine
13. Tex ( Litfiba )
14. Oltre… L’Abisso

Line-up:
Lore – Bagpipes, Bombard, Flute, Vocals (lead)
Roberta – Bagpipes, Bombaurd, Vocals
Andrea – Bagpipes, Percussions, Vocals
Matteo – Bagpipes, Vocals
Edoardo – Drums
Maurizio – Guitars, Bagpipes, Citern, Woodwind instruments
Federico – Bass
Silvia – Harp, Tambourine, Percussions
Luca – Guitars

FOLKSTONE – Facebook

Bretus – The Shadow Over Innsmouth

Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.

Nuovo disco della band doom catanzarese Bretus, una delle migliori in Italia e non solo.

Alla fine, è successo ciò che era nei nostri migliori incubi, ovvero che il lento e corrosivo suono dei Bretus incontrasse il più grande medium di incubi di tutti i tempi: H.P. Lovecraft.
La quinta fatica discografica dei Bretus, dopo l’epico split con i Black Capricorn (difficile immaginare uno split migliore), è incentrata su uno dei racconti del ciclo di Cthulhu.
Innsmouth e il suo porto sono una discesa verso gli inferi, anzi chi conosce Lovecraft sa che c’è qualcosa di ben peggiore dell’inferno.
I Bretus mettono superbamente in musica tutta l’angoscia dello scrittore ed effettivamente il doom metal è forse la musica più indicata per musicare l’angoscia lovecraftiana: la sua lentezza, la sua profondità, lo scavare incessante ma senza fretta, il lasciare grande spazio all’immaginazione dell’ascoltatore sono tutte caratteristiche che questo genere musicale condivide con l’uomo di Providence.
I Bretus portano avanti dal 2000 l’incubo in musica, ispirandosi ad un immaginario ben definito e ben presto si conquistano la loro fama nella scena tanto da essere invitati al Malta Doom Fest e più recentemente al Doom Over Vienna IX. Il festival maltese è uno dei migliori festival doom del globo anche perché a Malta c’è un’ottima scena, forse eredità dei Templari ?
Nel 2012 pubblicano “In Onirica” che è appunto un disco maggiormente sognante e con un suono più etereo rispetto a questo; in  The Shadow Over Innsmouth il velo dell’incubo notturno è un dolce ricordo, poiché l’incubo diventa realtà, anche se in Lovecraft c’è sempre il dubbio di cosa sia davvero reale o no, lasciandoci con una domanda : è la nostra vita in fondo ad essere un incubo, o gli incubi sono la vita ?
Il suono di questo disco è fangoso e non lascia speranza, accompagnandoci per mano verde e lasciva nell’antico porto di Innsmouth.
Forse è l’opera migliore dei Bretus fino a questo momento, anche se essendo una band dalle infinite potenzialità ci aspettiamo sempre qualcosa di grandioso.
Recentemente ho letto che alcuni studiosi, cosiddetti eretici, affermano che le opere di Lovecraft non siano affatto di fantasia, ma che descrivano, in maniera romanzata qualcosa che esiste davvero, siano essi annunaki o antichi dei di qualche pianeta lontano.
A voi la scelta.

Tracklist:
1 Intro
2 The Curse Of Innsmouth
3 Captain Obed Marsh
4 Zadok Allen
5 The Oath Of Dagon
6 Gilman House
7 The Horrible Hunt
8 A Final Journey

Line-up:
Ghenes – Chitarra
Zagarus – Voce
Azog – Basso
Striges – Batteria

BRETUS – Facebook

Assumption – The Three Appearances

Gran disco, l’ennesimo partorito in ambito estremo dalla musicalmente sempre fertile Trinacria.

Gli Assumption sono un duo palermitano composto da Giorgio e David, musicisti che troviamo coinvolti anche in altre band già portate in evidenza da Iyezine: il primo, che si occupa della voce e di tutti gli strumenti ad eccezione della batteria, lo ritroviamo anche con Elevators to the Grateful Sky, Sergeant Hamster Haemophagus e Morbo, mentre il secondo, che si dedica appunto al lavoro dietro alle pelli, è tutt’ora anch’esso coinvolto nelle ultime due band.

Musicisti versatili, dunque, visto che nei gruppi citati si spazia dallo stoner al death, dalla psichedelia al grindcore: sotto il monicker Assumption i due, invece, affidano la loro urgenza espressiva ad un death-doom di grande fascino, derivante da caratteristiche peculiari che talvolta ne rendono persino un po’ forzata la collocazione in tale ambito stilistico.
The Three Appearances presenta una mezz’oretta di musica che, almeno nella sua prima metà circa, coincidente con i primi tre brani, ci riporta di peso all’alba degli anni ’90, per l’esattezza proprio al 1991, anno di grazia che vide l’uscita di tre capolavori epocali per il metal estremo: “Necroticism …” dei Carcass, “Forest Of Equilibrium” dei Cathedral e “Blessed Are The Sick” dei Morbid Angel: non è un azzardo affermare ciò, visto che un ascoltatore attento potrà rinvenire agevolmente un growl profondo alla David Vincent sovrastare un riffing di stampo carcassiano, spesso rallentato fino alla bradicardia, così come avveniva nella irreplicata pietra miliare edita dalla band di Lee Dorrian.
Esagero? No, anche perché, essendo (purtroppo) sufficientemente vecchio per aver potuto ascoltare quei dischi in tempo reale, e per di più quand’ero già adulto, le prime piacevoli sensazioni provate all’ascolto del lavoro degli Assumption sono state proprio quelle legate a tali sonorità apparentemente antiche, eppure sempre dannatamente attuali.
Il duo siciliano riesce in questa non facile impresa senza disdegnare di regalare un’ultima parte di album dai tratti più sperimentali, come quella rappresentata dai dodici minuti della title-track, laddove viene immessa un’importante componente psichedelica che va a compenetrarsi con passaggi di morbosa lentezza, sempre sorretti da un growl e da un chitarrismo davvero convincenti da parte di Giorgio.
Gran disco, l’ennesimo partorito in ambito estremo dalla musicalmente sempre fertile Trinacria.

Tracklist:
1. Moribund State Shift
2. The NonExisting
3. Veneration of Fire
4. The Three Appearances (Snag Gsum)

Line-up:
David – batteria
Giorgio – chitarra, basso, synth, voce

ASSUMPTION – Facebook