Wingless – The Blaze Within

Alternative metal poco incline alla commercialità e molto ben costruito, con violenza e rabbia incanalata in un sound che non dimentica un tocco cool nell’uso delle due voci (estrema e pulita) ma con un tocco di personalità.

Quello degli Wingless è alternative metal poco incline alla commercialità e molto ben costruito, con violenza e rabbia incanalata in un sound che non dimentica un tocco cool nell’uso delle due voci (estrema e pulita) ma con un tocco di personalità.

Il trio in questione proviene da Cracovia, in Polonia, è al secondo album dopo il debutto del 2014, intitolato Hatred Is Purity, e licenzia qualche mese fa The Blaze Within un massiccio pezzo di granito modern metal o alternative (come preferite), dosando violenza e melodia con quest’ultima usata con maturità e senza nessuna ruffianeria.
Non sono certo gli Wingless un gruppo con velleità commerciali vietate ai maggiori di diciotto anni, ed infatti Olaf Różański (voce), Grzegorz Luzar (chitarra e basso) e Paweł Solon (percussioni), scelgono la strada del metal moderno da strada (se mi concedete il termine), le cui influenze sono individuabili tra i gruppi degli anni novanta, con parti melodiche e ritmiche che si fanno ricercate e tooliane, mentre la violenza trae linfa dai solchi delle opere dei Prong e dei Ministry attraversati dal trip alternative di Psalm 69.
E in effetti, con il passare degli ascolti, The Blaze Within lascia ottime sensazioni e attimi intensi di musica intimista e drammatica, mentre l’altalena tra la parte più rabbiosa e quella melodica intensifica l’emozionante cambio di umori e sensazioni che brani come la title track, Victory Hotel o Descend lasciano nell’ascoltatore.
Un album che cresce con gli ascolti e con i minuti, lasciando il meglio di sé alla fine dove la già citata Descend si candida ad apice emotivo di un lavoro davvero bello ed interessante.

TRACKLIST
1.Non serviam
2.A blaze within
3.Great shineless brightness
4.Unheard sublime
5.Victory Hotel
6.Reap what you have sown
7.The hours of my rest
8.Descend
9.Jerk me off

LINE-UP
OLAF RÓŻAŃSKI – vocals
GRZEGORZ LUZAR – guitars, bass
PAWEŁ SOLON – drums

WINGLESS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Dimonra – Violent Paranoia

Prodotto benissimo e curato in ogni dettaglio, Violent Paranoia in appena tre tracce convince e ci consegna un gruppo pronto per un full length in grado di fare proseliti, visto l’enorme potenziale in mano a questi quattro giovani musicisti milanesi.

Quando si suona un certo tipo di rock/metal, la caratteristica fondamentale è l’appeal che i brani trasmettono all’ascoltatore, tradotto in una ruffianeria che riesca ad ammaliare senza perdere un grammo in intensità (d’altronde si parla pur sempre di musica dura).

Questa premessa risulta obbligatoria per presentare il secondo ep dei Dimonra, giovane gruppo milanese formatosi lo scorso anno e con appunto all’attivo un altro ep, Evil.
Violent Paranoia si compone di tre brani che uniscono in un solo sound alternative metal, dark rock ed elettronica, oltre ad una predisposizione per ritmiche funky che danno un tocco originale ed assolutamente irresistibile alla musica del gruppo, specialmente nella notevole Flash Mob.
La title track e Sick? alternano potente metallo moderno ad atmosfere dark wave, in un contesto moderno e, come detto, ricco di melodie vincenti, grazie anche alla voce ipnotizzante e particolare della vocalist Memori.
Il basso di XV pulsa come sangue impazzito nelle vene, mentre riff metallici (Hale) e bordate spacca pelli (Chance) ribadiscono la vena metallica dei Dimonra.
Prodotto benissimo e curato in ogni dettaglio, Violent Paranoia in appena tre tracce convince e ci consegna un gruppo pronto per un full length in grado di fare proseliti, visto l’enorme potenziale in mano a questi quattro giovani musicisti milanesi.

TRACKLIST
1.Violent Paranoia
2.Flash Mob
3.Sick?

LINE-UP
Memori – Vocals
Hale – Guitars
XV – Bass, Programming
Chance – Drums

DIMONRA – Facebook

Vermilion Whiskey – Spirit Of Tradition

Spirit Of Tradition è quanto di più vero troverete ascoltando southern metal, d’altronde i Vermilion Whiskey provengono dalla Louisiana, terra di coccodrilli, whiskey e southern blues.

Prendete cinque metallari della Louisiana, precisamente da Lafayette, date loro da bere e fateli accomodare su un piccolo palco di qualche locale del Sud degli Stases.

Il blues , come d’incanto, sarà il demone che, posseduta l’anima dei musicisti farà suonare loro metal demonizzato dal sound del Mississippi, un southern rock che vi entra dentro come un serpente se avete la pessima idea di entrare nelle acque melmose del fiume, in prossimità dello stato dove i Vermillion Wiskey hanno registrato l’album, con una capatina in Texas tanto per non farci mancare quel tocco di atmosfera desertica tanto di moda in questi anni.
Mezz’ora, sei brani e Spirit Of Tradition è bell’e pronto, inattaccabile se parliamo di questo genere, suonato con sangue, sudore e gli attributi al proprio posto: d’altronde questa è gente dura, abituata a tanti fatti e poche parole, o al massimo tante sbronze, mentre riff pesanti come macigni (Monolith) si danno il cambio con sfumature bluesy e southern d’annata (l’opener Road King) mentre le esalazioni dell’whiskey si fanno insistenti.
Thaddeus Riordan e compagni ci sanno fare, perciò i fans del southern rock metal si cerchino questo spaccato di vita del sud, non se ne pentiranno.

TRACKLIST
1.Road King
2.The Past Is Dead
3.Come Find Me
4.Monolith
5.One Night
6.Loaded Up

LINE-UP
Thaddeus Riordan – Vocals
Ross Brown – Guitar
Carl Stevens – Guitar
Jeremy Foret – Bass
Buck Andrus – Drums

VERMILION WHISKEY – Facebook

Green Meteor – Consumed By A Dying Sun

I Green Meteor sono un rumoroso collettivo che ha la precisa funzione di farci viaggiare il più rumorosamente possibile con la loro musica, un misto di fuzz, psichedelia e space rock in quota Hawkwind.

Space fuzz rock con voce femminile da Philadelphia. I Green Meteor sono un rumoroso collettivo che ha la precisa funzione di farci viaggiare il più rumorosamente possibile con la loro musica, un misto di fuzz, psichedelia e space rock in quota Hawkwind.

Questo suono è affascinante e morboso, nasce dalla salita alle stelle attraverso le asperità dei Grateful Dead, passando per la tradizione psichedelica pesante americana. I Green Meteor tracciano ardite rotte spaziali, fondono chitarre ed organi sia musicali che umani per arrivare alla meta. Nati nel 2015, cominciano un’intensa attività musicale per poi arrivare al questo debutto attraverso Argonauta Records. Il disco è molto originale, distorto e marcio al punto giusto per essere gustato dalla platea di rumoristi che sta diventando sempre più esigente e che qui troverà moltissimo. I Green Meteor salgono e scendono, guidando il loro mezzo spaziale in mezzo a turbolenze e a momenti di puro piacere. La voce femminile è decisiva nel determinare il successo di questo suono, perché riesce a creare atmosfere molto particolari, arrivando a connotare decisamente il tutto. Consumed By A Dying Sun è un ottimo disco di psichedelia pesante, composto anche da una forte componente di fuzz che aiuta a caricare maggiormente il lavoro nel suo insieme. Ascoltando il disco si riesce a carpire anche una vena punk hardcore che spinge la band a fare qualche passaggio molto più veloce dando una scarica all’ascoltatore. In definitiva questo debutto è l’apertura di una ottima miniera di musica pesante e psichedelica che riesce a salire molto in alto.

TRACKLIST
01 – Acute Emerald Elevation
02 – Sleepless Lunar Dawn
03 – In the Shadow of Saturn
04 – Mirrored Parabola Theory
05 – Consumed by a Dying Sun

LINE-UP
Leta
Amy
Tony
Algar

GREEN METEOR – Facebook

Hollow Leg – Murder ep

Due brani che confermano le ottime impressioni già destate da questo gruppo statunitense e che aggiungono carne sanguinolenta sul fuoco del genere, aspettando il prossimo capitolo sulla lunga distanza.

Tra le paludi della Florida è ormai tradizione suonare doom metal irrobustito da una lenta e possente componente sludge e personalizzato da una vena southern, tipica delle band degli stati del sud.

Ormai non sono pochi i gruppi che nel genere hanno trovato la giusta dimensione, onirica, a tratti mistica e sabbatica ed avvolta in atmosfere deviate, come un serial killer dal volto coperto dalle pelli dei coccodrilli e ganci che tintinnano in una baracca fatiscente, in attesa di un corpo da tenere sollevato per essere lavorato con sadica perizia.
Gli Hollow Leg sono una di queste realtà, a loro modo estreme, attivi da quasi una decina d’anni, provenienti da Jacksonville e con tre full length alle spalle, di cui Crown era l’ultima lenta marcia tre le paludi del Mississippi, licenziata lo scorso anno dalla Argonauta Records.
Murder è invece un ep di due brani, con la title track che accende la passione con un incedere più dinamico rispetto ai canoni, un mid tempo che sembra per una volta lasciare le rive del grande fiume ed i suoi pericolosi abitanti, per fare un’improvvisata al sacerdote Lee Dorrian e ai suoi Cathedral per recarsi tutti insieme ad un concerto dei Black Sabbath, mentre Raven torna a torturare vittime con una valanga caldissima di southern/sludge, con un riff portante che è un’autentica goduria sludge/psycho/stoner.
Due brani che confermano le ottime impressioni già destate da questo gruppo statunitense e che aggiungono carne sanguinolenta sul fuoco del genere, aspettando il prossimo capitolo sulla lunga distanza.

TRACKLIST
1.Murder
2.Raven

LINE-UP
Tom Crowther – Bass
John Stewart – Drums
Scott Angelacos – Vocals
Brent Lynch – Vocals, Guitars

HOLLOW LEG – Facebook

Kalopsia – Angelplague

Prendete un pizzico di Malevolent Creation, Slayer, Cannibal Corpse e Dismember ed avrete un cocktail estremo da offrire agli astanti prima che le torture sulla vittima predestinata abbiano inizio

Le orde brutali che per anni hanno attraversato l’Atlantico invadendo il territorio europeo a colpi di brutal death metal, passato il periodo buio hanno riorganizzato le truppe e stanno ricominciando a sbarcare sulle rive del vecchio continente.

Il death metal old school rigenerato nell’underground ha ripreso forza aiutato dalle buone prove dei gruppi storici e dalle ottime performance delle band che, per anni, hanno vissuto nell’ombra; dal New Jersey arrivano i Kalopsia, band fondata dal chitarrista Matt Medeiros dei tripallici Ruinous, dei quali vi abbiamo parlato sul finire dello scorso anno in occasione dell’uscita del belligerante Graves Of Ceaseless Death.
Dunque l’instancabile axeman americano torna dopo pochi mesi con il nuovo lavoro dell’altra sua diabolica ed inumana creatura, i Kalopsia, dall’ormai lontano 1999 abominevole e brutale realtà che non sfigura al cospetto del suo alter ego Ruinous.
Prendete un pizzico di Malevolent Creation, Slayer, Cannibal Corpse e Dismember ed avrete un cocktail estremo da offrire agli astanti prima che le torture sulla vittima predestinata abbiano inizio: i testi gore, infatti, accompagnano la proposta musicale del gruppo che, senza mezzi termini, conquista rivelandosi efferata, brutale ma valorizzata da un songwriting e da un lavoro ritmico entusiasmante.
Grande solista si dimostra Steve Horvath, protagonista di una prova sopra le righe e un inferno sulla terra scatenano i due musicisti ritmici (Justin Spaeth alle pelli e Drew Murphy) mentre il leader è un demonio torturatore al microfono.
At The Serpent Devours e la bellissima Source Of My Evil sono i brani migliori di un album consigliatissimo: ancora un altro centro pieno per Matt Medeiros in evidente stato di grazia.

TRACKLIST
1. Destined to Return
2. As the Serpent Devours
3. Christened Upon the Slab
4. Not Peace But Pestilence
5. Scorched Earth and Blackened Skies
6. Source of My Evil
7. Surge of Terror
8. Bitter Sacraments

LINE-UP
Matt Medeiros – Guitar, Vocals
Justin Spaeth – Drums
Drew Murphy – Bass
Steve Horvath – Lead Guitar

KALOPSIA – Facebook

Dead Season – Prophecies

Non solo Nevermore, anche se è indubbia la forte ispirazione del gruppo americano, ma anche echi death/black di scuola est europea e potenza death metal classica personalizzano il sound di questo ottimo combo transalpino.

I Nevermore di Warrel Dane sono state una delle band più importanti per l’evoluzione del thrash metal, con una serie di lavori imperdibili ed almeno un paio considerati autentiche pietre miliari, come Dreaming Neon Black e Dead Heart In A Dead World: questo tipo di thrash metal oscuro, drammatico e progressivo, valorizzato dalla teatrale voce del leader, possiede anche l’anima dei Dead Season, band transalpina autrice di questo mastodontico lavoro dal titolo Prophecies.

Una storia musicale iniziata più di dieci anni fa, ed un primo lavoro sulla lunga distanza licenziato tre anni fa (From Rust To Dust) contornato da una manciata di opere minori, hanno portato il quintetto francese alla pubblicazione di questo ultimo devastante lavoro, che se porta ben in vista il marchio dei maestri americani, non fa mancare una propria personalità che tradotto vuol dire: sferzate estreme al limite del death/black, un gran lavoro al microfono dove scream, growl ed una splendida voce pulita si danno il cambio, rendendo ancora più varie le atmosfere dei vari brani, ed una prova molto convincente sia a livello di songwriting che tecnico.
Un’ora di musica estrema che non smette di regalare sorprese, un anima prog che si veste di bianco e contrasta quella nera ed estrema in una battaglia che non fa prigionieri ma lascia solo cadaveri sul campo, una serie di brani formidabili e tanta violenza in musica fanno di Prophecies un ottimo album; i brani mantengono un livello altissimo e diventa davvero difficile estrapolare un paio di titoli che più impressionano, anche se Prohibition of God, Ministry Of Thruth e Sexual Binging sono quelli che più risaltano, ma sono convinto che ad un altro ascolto ne nominerei altri tre, proprio per l’elevata qualità generale dei brani che compongono Prophecies.
Non solo Nevermore, anche se è indubbia la forte ispirazione del gruppo americano, ma anche echi death/black di scuola est europea e potenza death metal classica personalizzano il sound di questo ottimo combo transalpino.

TRACKLIST
1.The New Man
2.Blood Links Alienation
3.Prohibition of God
4.Homogenetic
5.Guidestones
6.Ministry of Thruth
7.Endless War
8.Four Minutes of Hate
9.Mind Entertainement
10.Sexual Binging
11.The Dissident Part I
12.The Dissident Part II

LINE-UP
Nicolas Sanson – Bass
Grégoire Galichet – Drums
Guillaume Singer – Guitars
Julien Jacquemond – Vocals

DEAD SEASON – Facebook

Night Demon – Darkness Remains

Darkness Remains è vera goduria metallica, con un lotto di brani che hanno attraversato il tempo e sono arrivati nel nuovo millennio a ribadire che la musica metal non sarà mai obsoleta in qualsiasi anno e paese venga suonata.

Questo è heavy metal classico suonato con un’attitudine ottantiana commovente, sicuramente per molti un mostro uscito da una vecchia chiesa sconsacrata dimenticata dal tempo, vintage ed old school fino al midollo; ma se nel 1980 avevate quattordici anni, con uno spirito ribelle e la voglia di qualcosa in più che il solito rock e pop proposto alla radio, allora tirate fuori il chiodo, fatevi il riporto sulla testa ormai sgombra dalla criniera e dateci dentro con Darkness Remains, secondo album del trio americano unito sotto il monicker Night Demon.

Licenziato dalla SPV/Steamhammer, l’album è una vera goduria metallica, un lotto di brani che hanno attraversato il tempo e sono arrivati nel nuovo millennio a ribadire che la musica metal, non sarà mai obsoleta in qualsiasi anno e paese venga suonata.
La copertina rispecchia il sound del gruppo, dalla vena hard & heavy che non va oltre ai primi due o tre anni del decennio metallico per eccellenza, con un passo a ritroso negli anni settanta (si sente l’ispirazione sabbathiana in alcuni passaggi rallentati, tipiche dei gruppi dell’epoca) e poi tanto, tantissimo sound maideniano era Paul Di Anno e ritmiche saxoniane a mettere l’accento su un disco bellissimo.
Pronti via, ed il trio californiano (Dusty Squires alla batteria, Armand John Anthony alle chitarre e Jarvis Leatherby al basso ed alla voce) travolge con il suo concentrato di puro, ed entusiasmante heavy metal, oscuro quel tanto che basta per prenderlo sul serio, melodico e ritmicamente irresistibile come se non fossero passati quasi quarant’anni, con Prowler o Princess Of The Night che stanno riempiendo di note metalliche le stanze dei kids di tutto il mondo.
Nominare un brano diventa un’impresa, la qualità nel genere è altissima, i ricordi vivi più che mai nei vecchi rockers come il sottoscritto e la lezione per i più giovani è bell’e pronta e si chiama Darkness Remains, approfittatene.

TRACKLIST
01 – Welcome to The Night
02 – Hallowed Ground
03 – Maiden Hell
04 – Stranger In The Room
05 – Life On The Run
06 – Dawn Rider
07 – Black Widow
08 – On Your Own
09 – Flight Of The Manticore (Instrumental)
10 – Darkness Remains

LINE-UP
Dusty Squires – Drums
Armand John Anthony – Guitars
Jarvis Leatherby – Vocals, Bass

NIGHT DEMON – Facebook

Afar – Selfless

Selfless e un’opera più che valida, certamente non così peculiare o dirompente per risultare imprescindibile, ma altrettanto meritevole di attenzione ed approvazione da parte degli appassionati più attenti.

Afar e una delle molteplici one man band statunitensi votate al black metal più atmosferico ed introspettivo.

Itay Keren fa parte dei discretamente noti Windfaerer e, per questo suo progetto solista, lascia da parte l’anima folk della sua attuale band per focalizzarsi del tutto su un’interpretazione del genere che corrisponde perfettamente a quanto ci si sarebbe attesi: abbiamo così tempi sempre piuttosto ragionati che spesso appaiono più accelerati di quanto non siano effettivamente, a causa dello screaming per lo più esasperato; in effetti, non di rado invece il sound si spinge verso lidi black doom e tutto sommato si rivela apprezzabile proprio questo suo oscillare tra passaggi ariosi ed umori oppressivi.
Se da chi suona black metal in Nord America è lecito attendersi digressioni verso le sempre gradite sonorità di matrice cascadiana (e ciò si verifica in maniera eloquente in Cascading Shadows), I.K. lo fa in maniera piuttosto misurata, anche se la bellissima traccia di chiusura, Twelve, si rivela eloquente rispetto ad un certo modo di trattare la materia.
Selfless e un’opera più che valida, certamente non così peculiare o dirompente per risultare imprescindibile, ma altrettanto meritevole di attenzione ed approvazione da parte degli appassionati più attenti.

Tracklist:
1.Healing
2.Cascading Shadows
3.Tsalmaveth
4.Endless Path
5.Aerial Discord
6.Beckoned Into Fog
7.Twelve

Line up:
I.K.

Body Count – Bloodlust

La maggior parte dei gruppi rapcore o nu metal si sono dissolti, mentre i Body Count sono sempre qui a spargere terrore.

Torna una delle crew più pericolose delle strade americane, i Body Count capitanati da Ice-T.

I ragazzi sono arrivati al sesto album e quello che doveva essere un progetto estemporaneo o quantomeno temporaneo è diventato un pilastro del rapcore, uno dei più riusciti esempi di incontro tra rap e metal. Tra l’ altro, prima di una riuscita rielaborazione di Raining Blood, Ice-T spiega brevemente la genesi del gruppo, ovvero il tentativo di fondare un gruppo metal a South Central Los Angeles, una cosa non esattamente facile, ma l’esperimento è pienamente riuscito essendo giunti al sesto disco. La maggior parte dei gruppi rapcore o nu metal si sono dissolti, mentre i Body Count sono sempre qui a spargere terrore. Tornati dopo tre anni dall’ottimo Manslaughter, i Body Count sformano il loro disco più oscuro, più metal e più sanguinoso di tutti. Bloodlust è la cartina tornasole della bruttissima aria che tira in America. Nella terra del libero e del coraggioso tira una bruttissima aria, e si è quasi alla resa dei conti, si è forse sull’orlo di una guerra civile tra bianchi e neri, oppure tra poveri e ricchi e c’è voglia di sangue, come ben testimonia l’ ennesimo atto militare unilaterale americano. L’America dei Body Count è violenta, cupa e senza speranza, dovete solo trovare un riparo adeguato. Questo disco contiene molto metal, che si va a fondere a volte con il flow del rap, ma più che rapcore qui c’ è un metal deformato da una cattiveria diversa. Ice-T è il padrone di casa, una magione dove il sangue scorre dentro e fuori da gole assetate. Bloodlust è forse la prova migliore di questo gruppo che centra quasi sempre il bersaglio, ma mai bene come in questo caso. Parte del merito va anche agli ospiti presenti come Deve Mustaine in Civil Eat, un ottimo Randy Blithe dei Lamb of God su Walk With Me e il Cavalera maggiore sottotono in All Love Is Lost. Un album che colpisce duro e che non lascerà dormire sonni tranquilli, ma che è una fotografia precisa della merda che abbiamo fuori dalla porta. Momento migliore del disco è No Lives Matter, perché Ice-T ha ragione, a loro non gli importa dei neri, e nemmeno dei bianchi, a chi comanda non importa nessuna vita.

TRACKLIST
1. Civil War (featuring Dave Mustaine)
2. The Ski Mask Way
3. This Is Why We Ride
4. All Love Is Lost (featuring Max Cavalera)
5. Raining In Blood / Postmortem 2017 (Slayer cover)
6. God, Please Believe Me
7. Walk With Me… (featuring Randy Blythe)
8. Here I Go Again
9. No Lives Matter
10. Bloodlust
11. Black Hoodie

LINE-UP
Ice-T – Vocals
Ernie C – Guitar, backing vocals
Juan Garcia – Guitar, backing vocals
Vincent Price – Bass, backing vocals
Ill Will – Drums
SeanE Sean – Samples, backing vocals

BODY COUNT – Facebook

Space Witch – Arcanum

Un sound che è più di quanto disturbato si possa trovare in giro se si parla di doom metal, una musica che rispecchia jam drogate e pesantissime, un labirinto sonoro dove ragione e pazzia vivono divise da una linea sottile.

Gli Space Witch, realtà doom psichedelica nata Stoke On Trent, in Gran Bretagna, sono attivi da circa un decennio.

Una manciata di lavori minori ed un debutto omonimo compongono la discografia del quartetto, che con questo nuovo album attacca direttamente la labile mente di chi, ignaro, si avvicina senza le dovute precauzioni alla sua musica.
Un sound che è più di quanto disturbato si possa trovare in giro se si parla di doom metal, una musica che rispecchia jam drogate e pesantissime, un labirinto sonoro dove ragione e pazzia vivono divise da una linea sottile, mentre il viaggio intrapreso dalla mente si fa subito irto di insidie già dalle prime note dell’opener Astro Genocide.
Quattro brani per quaranta minuti di musica assuefatta da allucinate parti psych rock, doom ancestrale e dosi micidiali di stoner desertico, ma non di questa terra.
Su Battle Hag ci si perde in deserti spaziali, mentre il lungo incedere della nociva Cosmonoid si ripercuote sull’integrità mentale di chi ascolta, tratteggiata da armonie orientaleggianti che si affacciano sul vuoto cosmico, in un black hole di luci e ombre, claustrofobici giochi nel nero eterno dell spazio profondo.
Hex conclude l’album, si rifà vivo il canto declamatorio di chi ci mette in guardia sul perdersi in questo viaggio mentale che richiama Ufomammut, Electric Wizard, Hawkwind e Sleep, drogati e persi nel sound degli Space Witch.
Album da maneggiare con molta cura, le controindicazioni sono  fatali, così che Arcanum è consigliato ai soli fans di questo micidiale genere.

TRACKLIST
1.Astro Genocide
2.Battle Hag
3.Cosmonoid
4.Hex

LINE-UP
Daz Rowlands – Guitar/FX
Dan Mansfield – Drums
Peter Callaghan – Electronics
Tomas Cairn – Bass

SPACE WITCH – Facebook

None – None

Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.

Interessante lavoro da parte di questa band americana dedita ad un black metal atmosferico e dalle forti sfumature depressive.

Tre brani per circa una mezz’ora di buona musica sono il fatturato di quest’album autointitolato, pubblicato dalla Hypnotic Dirge: anche se il monicker None non è certo di quelli che si ricordano in maniera imperitura ed il genere suonato è discretamente inflazionato, il lavoro regala con buona continuità quelle sonorità oscillanti tra malinconia e disperazione, pescando con un certo equilibrio tra le due anime che confluiscono nelle composizioni.
Il depressive black prende campo specialmente quando è lo screaming straziante ad occupare la scena, mentre la componente atmosferica prevale nei momenti prettamente strumentali; peraltro, la copertina è piuttosto indicativa di quanto ci si possa attendere dalla musica della misteriosa band di Portland, per cui gli scenari esibiti corrispondono al senso di freddo e desolazione che prima o poi ognuno percepisce provando a scavare in profondità dentro sé stesso.
Al di là del ridotto potenziale innovativo, un album di questo tipo lo si ascolta sempre volentieri, specialmente quando viene suonato e composto con tutti i crismi e con la dovuta intensità, e senza che ci si perda in troppi passaggi interlocutori.
None non rappresenta nulla che possa stravolgere le gerarchie del metal underground ma è sicuramente un ascolto che non deluderà chi ama questo tipo di sonorità.

Tracklist:
1 – Cold
2 – Wither
3- Suffer

Revenge – Metal Is: Addiction and Obsession

Più tradizionalmente speed rispetto all’ultimo album, Metal Is: Addiction And Obsession ci travolge con il suo tsunami di note suonate a velocità improbabili: le ritmiche funzionano, i brani si fanno apprezzare coinvolgendo e i Revenge ne escono benissimo.

Imperdibile ristampa a cura della EBM records dedicata agli amanti dello speed/thrash old school.

Dalla Colombia tornano i Revenge con uno dei loro lavori più riusciti, il devastante Metal Is: Addiction and Obsession, album uscito originariamente nel 2011.
La storica band di Medellin, può vantare una discografia infinita composta da sei album ed una marea di ep e lavori minori.
A suo tempo il sottoscritto si era occupato dell’ultimo full length del gruppo, uscito ormai tre anni fa ed intitolato Harder Than Steel, un vulcano di suoni heavy metal tra speed e thrash, una velocissima discesa senza freni nel mondo del metal più puro e tradizionale.
Harder Than Steel risultava una gran bella mazzata così come questo precedente lavoro, ancora più violento e velocissimo, fatto di otto brani più quattro bonus track che presentano il gruppo in sede live.
Si va sparati verso l’inferno con questo manifesto metallico composto da mitragliate senza tregua, a partire dall’inno Steel Metal To The Bone, passando per i vati titoli che sono delle dichiarazioni d’intenti come Metal Rules My Life (esagerata), No Speed Limit For Destruction e Fire Attack.
Potrà piacere o meno, ma il genere, oltre ad essere uno dei più puri e storici tra quelli metallici, lo si deve anche saper suonare ed i Revenge non mancano certo di tecnica, conquistando con ritmiche al limite dell’umano e solos che lasciano a terra striature infuocate come il passaggio del Ghost Rider.
Più tradizionalmente speed rispetto all’ultimo album, Metal Is: Addiction And Obsession ci travolge con il suo tsunami di note suonate a velocità improbabili: le ritmiche funzionano, i brani si fanno apprezzare coinvolgendo e la band ne esce benissimo.
Aspettiamo il nuovo lavoro di questi re dello speed metal sudamericano, le premesse sono ottime … stay (speed) metal!

TRACKLIST
1.Intro – Hell Avenger (Let’s Go to Hell and There Hail to Satan)
2.Speed Metal to the Bone
3.Plague of Death
4.Metal Rules My Life
5.No Speed Limit for Destruction
6.Addiction and Obsession
7.Satan’s Warriors
8.Fire Attack
9.Motorider
10.Fire Attack
11.Hell Avenger
12.Metal Warriors

LINE-UP
Jorge “Seth” Rojas – Bass
Esteban “Hellfire” Mejía – Vocals, Guitars
Daniel “Hell Avenger” Hernandez – Drums
Night Crawler – Guitars (lead)

REVENGE – Facebook

Frailty – Ways Of The Dead

Questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death.

Terzo full lenght per il lettoni Frailty, band che in oltre un decennio decennio di attività non ha certo brillato per prolificità, contrariamente alla qualità sonora esibita, sempre all’insegna di un death doom di prima qualità.

Melpomene, uscito nel 2012, era un album che in parte risentiva di una tracklist nella quale convergevano brani composti in fasi diverse della storia del gruppo, per cui a tratti affiorava una certa discontinuità che veniva comunque compensata al meglio dalla bontà complessiva di ogni singolo episodio.
Ways Of The Dead si nutre di tematiche lovecraftiane e la band di Riga inasprisce non poco il proprio approccio, ripartendo in qualche modo dal brano che apriva il precedente lavoro, Wendigo: i riferimenti naturali cessano così d’essere i maestri del death doom melodico nordeuropeo, lasciando invece che l’ispirazione veleggi oltreoceano, assimilando e rielaborando spunti prossimi ai Novembers Doom .
Tale scelta, se inizialmente spiazza, in corso d’opera si rivela convincente anche se le atmosfere dolenti e malinoniche del passato divengono un ricordo e senz’altro mancheranno a chi predilige maggiormente questo aspetto nel death doom: i nostri scaricano così’ una bella gragnuola di colpi, senza perdere del tutto di vista le proprie radici doom ma rendendole davvero granitiche e aspre in diversi passaggi.
Un impatto più fisico che emotivo, di matrice essenzialmente death, pare essere quindi il filo conduttore di un lavoro che, tutto sommato, va in senso contrario alle abitudini consolidate, che vedono le band semmai ammorbidire il proprio sound con il passare del tempo.
Anche quando il doom, nella sua forma più consueta, prende finalmente campo nel finale con la notevole Alhazred (nome ben noto ai lovecraftiani incalliti), ciò avviene comunque in maniera molto più densa ed oscura che non cristallina ed emotiva.
Un inquietante ronzare di insetti (meglio non sapere attorno a cosa, ma è facile immaginarlo) chiude un album che potrà lasciare qualche perplessità ai primi ascolti, per poi risultare sempre più incisivo man mano che si familiarizza con mazzate quali l’opener And The Desert Calls My Name, Cthulhu, Ia Shub Niggurrath e Scorpion’s Gift, anche se il finale, come detto, riporta ad un approccio più vicino allo stile del passato con la traccia di chiusura. Fa abbastanza storia a sé la a tratti orientaleggiante The House In The Lane Of Scholars, con accenni che si spingono fino ai migliori Iced Earth.
In definitiva, questo ritorno dei Frailty mostra una decisa sterzata verso un indurimento sonoro che, comunque, non snatura l’indole doom della band, ma ne sposta con più decisione le coordinate sonore verso il death, perdendo qualcosa in fascino ed acquistando altrettanto in concretezza: tra il dare e l’avere preferisco sempre tenermi Melpomene, ma Ways Of The Dead resta comunque una buonissima prova.

Tracklist:
1. And The Desert Calls My Name
2. Daemon Sultan
3. Cthulhu
4. Whit The Deep Ones I Descend
5. Tombs Of Wizards
6. Ia Shub Niggurrath
7. The Beast Of Baylon
8. Scoropion’s Gift
9. The House In The Lane Of Scholars
10. Alhazred

Line up:
Mārtiņš Lazdāns – Vocals
Edmunds Vizla – Guitars & Vocals
Jēkabs Vilkārsis – Guitars
Andris Začs – Bass
Lauris Polinskis – Drums & Percussions

FRAILTY – Facebook

Sunless Sky – Doppelgänger

Un album di power metal americano su cui svetta il talento della coppia formata dal cantante Juan Ricardo e dal chitarrista Curren Murphy.

Prendete un singer talentuoso come Juan Ricardo (Wretch, Dark Arena) ed un chitarrista come Curren Murphy dei magnifici Shatter Messiah, ed ex nientemeno che di Nevermore ed Annihilator, ed avrete un massiccio, aggressivo e melodico esempio di metal americano tripallico come il nuovo lavoro dei Sunless Sky, realtà proveniente da Cleveland all’arrembaggio con Doppelgänger, secondo album che ognuno che si professi amante del metal classico d’oltreoceano è obbligato ad amare.

Brani aggressivi, tra thrash e power in puro american style, un cantante che, già sentito sull’ultimo Wretch conferma il suo valore, e trame chitarristiche da guitar hero, supportate da una sezione ritmica potente come quella composta da Kevin Czarnecki al basso e Coltin Rady, fanno dell’album un capolavoro a livello underground.
La ricetta è semplice e già dall’opener Starfall si capisce che qui c’è da divertirsi, d’altronde la band non fa altro che prendere il thrash power metal dei Vicious Rumors, amalgamarlo con atmosfere oscure di chiara ispirazione Metal Church e la sciare che i due top player facciano il resto così che da semplice album di metal a stelle e strisce, Doppelgänger diventi un piccolo gioiello tutto potenza ed attitudine.
Ancora una volta è la Pure Steel a farsi da portavoce di quello che succede in campo metal classico aldilà dell’oceano, una scena quella statunitense che non è solo composta da vecchie glorie, ma si fa vedere con band dall’alto valore qualitativo come appunto i Sunless Sky o gli stessi Wretch, tanto per non andare oltre a quello che gravita intorno a questo gruppo di musicisti che ancora una volta regalano perle di power metal come Kingdom Of Sky, Lake Of Lost Soul, Inside The Monster e la conclusiva Black Symphony.
Album da avere senza se e senza ma , fosse solo per ascoltare ancora una volta uno dei cantanti più bravi della nuova generazione nata aldilà dell’oceano.

TRACKLIST
1. Starfall
2. Doppelgänger
3. Kingdom Of Sky
4. Stone Gods
5. Lake Of Lost Souls
6. Netherworld
7. Adrenaline Junkie
8. Inside The Monster
9. Heroin
10. Black Symphony

LINE-UP
Juan Ricardo-Vocals
Curran Murphy-Guitars
Kevin Czarnecki-Bass
Coltin Rady-Drums

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Invidia – As The Sun Sleeps

Un lavoro curato nei minimi dettagli, duro ma dall’appeal elevato e che, senza abbassare la guardia, convince in ogni passaggio.

Come giudicare un album creato, strutturato e scritto per sfondare, con una nuova band al debutto, che tra le sue fila annovera musicisti che vannoa formare il classico super gruppo?

Intanto la firma per SPV sembra che abbia soddisfatto non poco gli Invidia che. con una formazione che andrò a presentare, ed un sound che risulta una serie di dritti e ganci metalcore da infarto. si candida come band autrice dell’album sorpresa dell’anno, almeno per chi del genere è abituale fruitore.
Matt Snell (Five Fnger Death Punch) al basso, Darren Badorine alle pelli, Travis Johnson (In This Moment) al microfono e poi le due chitarre dei devastanti Skinlab ( se non li conoscete siete da radiazione immediata da lettori della nostra ‘zine), ala estrema di questa combriccola di talenti, Brian Jackson e Marcos Medina.
Dimenticatevi gli Skinlab e concentratevi sul metalcore dal taglio melodico tanto di moda di questi tempi, aggiungete una parte molto importante di elettronica, una voce che insegna come si canta il genere senza diventare dei patetici interpreti melodici da Festivalbar, una componente dark industrial che regala i momenti migliori (Rotten) ed avrete un lavoro dalle potenzialità enormi, melodico quanto basta per piacere ai giovani fans del genere, ma aggressivo il giusto per raccogliere pareri lusinghieri anche dai nu metallers con il death davanti al core come prima scelta nel metal estremo moderno.
Aggiungiamo che As The Sun Sleeps è stato prodotto e scritto in collaborazione con Logan Mader (Once Human, Machine Head), ed avrete un’idea dell’ aspettativa creata dall’ingresso sulla scena di band e album.
Un lavoro curato nei minimi dettagli, duro ma dall’appeal elevato (Smell The Kill, il singolo Feed The Fire, Step Up) e che senza abbassare la guardia convince in ogni passaggio, da quello più vicino al metal a quello che fa il verso al dark industrial.
A tratti ci avviciniamo al Marylin Manson più estremo, mentre gli ultimi anni non sono passati invano e i musicisti, con tutta l’esperienza accumulata, hanno saputo dove prendere ispirazioni e spunti, mentre il loro talento ha fatto il resto.
Se vi piace il genere, As The Sun Sleeps lo troverete irresistibile … punto.

TRACKLIST
1.Now Or Never
2. Making My Amends
3. Feed The Fire
4. Rotten
5. Marching Dead
6. Smell The Kill
7. Till Death
8. Step Up
9. Truth In The Sky
10. The Other Side
11. As The Sun Sleeps

LINE-UP
Matt Snell – Bass
Travis Johnson – Vocals
Brian Jackson – Guitars
Darren Badorine – Drums
Marcos Medina – Guitars

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Deez Nuts – Binge & Purgatory

Le canzoni in questo disco sono tutte valide e sono un ulteriore passo in avanti per questo gruppo che produce un altro disco notevole, da ascoltare a fondo e più volte, poiché è più profondo e meno immediato dei precedenti.

Altra puntata della saga hardcore metal australiana, sempre con un flow rap.

I Deez Nuts rappresentano uno sviluppo di un certo hardcore, quello maggiormente legato al lato festaiolo e tamarro della scena. Ma se credete che non ci sia introspezione vi sbagliate, ci sono più descrizioni accurate di cosa sia la vita che in tanti altri posti in apparenza più adeguati. La formula musicale è quasi sempre la stessa, hardcore sporco e veloce, continuando la tendenza che si era già manifestata nei dischi precedenti, e qui crescono i mid tempo, dando al disco meno impeto ma più struttura. Chi ama i Deez Nuts sa che in qualche modo non rimarrà mai deluso e Binge & Purgatory ne è la conferma. Andando avanti con gli anni l’ oscurità sta crescendo nelle canzoni dei Deez Nuts e l’ attitudine casinara rimane ma divide il palcoscenico con un’ inquietudine sempre maggiore, con ragione. Il divertimento è grande parte di questo tipo di musica ma fortunatamente i Deez Nuts non sono rassicuranti e non prospettano un luminoso futuro, ma anzi offrono un nel viaggio tra asfalto, pugni ed alcool, senza avere però il machismo di certi gruppi hardcore. Le canzoni in questo disco sono tutte valide e sono un ulteriore passo in avanti per questo gruppo che produce un altro lavoro notevole, da ascoltare a fondo e più volte, poiché è più profondo e meno immediato dei precedenti. I tempi fanno schifo ma la lotta continua.

TRACKLIST
01. Binge
02. Purgatory
03. Antidote
04. Commas & Zeros
05. Break Out
06. Discord
07. Lessons Learned
08. Carried By Six
09. Cakewalk
10. For What It’s Worth
11. Hedonistic Wasteland
12. Remedy
13. Do Not As I Do

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Dethonator – Dethonator

Dethonator è un lavoro che troverà qualche orecchio ben disposto ma anche tanto ostracismo da parte dei fans del metal classico ed estremo, difficili da convincere per una band che deve ancora decidere da quale parte stare.

La Killer Metal ci fa partecipi della proposta di questa band proveniente da Londra, attiva per qualche anno sotto il monicker Kaleb e dal 2009, dopo il cambio di nome in Dethonator , autrice di due full length ed un ep.

Questo album omonimo uscì come debutto del quartetto nel 2010 e viene rimasterizzato ed in parte nuovamente registrato a sei anni dalla sua pubblicazione.
Il sound del gruppo londinese è un heavy metal che accoglie nel proprio spartito elementi all’apparenza lontani tra loro, come qualche spunto estremo di taglio death (a tratti spunta un controcanto in growl), ritmiche thrash metal e clean vocals melodiche e molto moderne, troppo per una proposta che, di fatto, mantiene una sua forte connotazione classica.
Così succede che, tra solos maideniani, atmosfere old school di matrice NWOBHM e veloci ripartenze estreme, i cori alternative metal made in U.S.A. spezzano il cordone ombelicale che tiene legato il sound del gruppo al metal duro e puro.
Non che dispiacciano, ma se non si ha l’orecchio abituato a più di un genere si finisce con arricciare il naso al cospetto di chorus patinati in contrasto con l’energia che i Dethonator non risparmiano, per un impatto ritmico che rimane aggressivo e di matrice thrash per tutto il lavoro.
I Am Thunder God, uscito come singolo, e Shadows sono i brani più diretti e riusciti di un album che troverà qualche orecchio ben disposto ma anche tanto ostracismo da parte dei fans del metal classico ed estremo, difficili da convincere per una band che deve ancora decidere da che parte stare.

TRACKLIST
1. Wreckers
2. Harbringer
3. I Am Thunder God
4. Many Have Fallen
5. Shadows
6. Dethonator
7. Morbid Skies
8. Massive Demonic Killing Spree
9. In the Place of the Skull

LINE-UP
Tris Lineker – Vocals, Guitars
Henry Brooks – Guitars
Adz Lineker – Bass, Vocals
Johnny Mo – Drums

DETHONATOR