Black Royal – Lightbringer

Non esiste un momento di pace o di luce, i Black Royal sono stati creati per far male, trattandosi di una creatura estrema che prende forza dagli Entombed e dai Black Sabbath e dopo averli accoppiati li tramuta in un mostruoso e pesantissimo esempio di death/sludge.

Una bomba sonora che esploderà sulle vostre teste, devastante e pesantissima, un masso che dal punto più alto del monte dove sono state scritte le tavole della legge del metal estremo rotolerà fino alle pianure, distrutte dal passaggio dell’enorme sasso che prende forza ad ogni metro.

Lightbringer è il debutto sulla lunga distanza dei finlandesi Black Royal, gruppo di Tampere in cui mi ero imbattuto in occasione dell’ uscita dell’ep The Summoning PT 2, seconda parte appunto di un concept iniziato nel 2015.
La Finlandia che non si legge sui giornali, quella votata alla violenza, al suicidio ed all’alcolismo, veniva raccontata dai Black Royal tramite un death/stoner metal al limite dello sludge e sconquassato da accelerazioni di stampo death che chiamare devastanti è un’eufemismo.
Anche sulla lunga distanza il combo finlandese non delude e ci investe con tutta la sua immane potenza e pesantezza, Cryo-Volcanic ci travolge con cascate laviche di death metal, rallentato, morboso e drogato di stoner/sludge, Salvation ci spinge verso l’abisso, mentre Pentagram Doctrine è una traccia malatissima e disturbante, così come la title track.
Non esiste un momento di pace o di luce, i Black Royal sono stati creati per far male, trattandosi di una creatura estrema che prende forza dagli Entombed e dai Black Sabbath e dopo averli accoppiati li tramuta in un mostruoso e pesantissimo esempio di death/sludge.
Ancora Dying Star e New World Order, che lascia ad un coro femminile pinkfloydiano il compito di avvicinarvi alla fine con lo strumentale Ou[t]roboros, sono le bombe sonore fatte esplodere da questi quattro pericolosissimi musicisti, prima che l’album si chiuda e la calma torni a regnare nel vostro mondo che non vi parra più così sicuro.
Lightbringer è un mostro, un disturbato e pericoloso esempio di metal estremo da consumare con la giusta cautela, gli effetti collaterali sono devastanti e non dite che non vi avevo avvertito.

Tracklist
1. Cryo-Volcanic
2. Self-Worship
3. Salvation
4. Denial
5. Pentagram Doctrine
6. Lightbringer
7. The Chosen
8. Dying Star
9. New World Order
10. Ou[t]roboros

Line-up
Jukka – Drums, percussion
Pete – Bass, backing vocals, acoustic guitar
Riku – vocals
Toni – Guitars, backing vocals

BLACK ROYAL – Facebook

Urze de Lume – As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas

L’intento degli Urze de Lume è quello di farci viaggiare a ritroso nel tempo, riportandoci almeno virtualmente a quella coesione inscindibile tra uomo e natura che oggi più che mai viene messa in discussione: As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas è la sintesi musicale di questa alleanza che ha retto per millenni prima di un inizio di sgretolamento che pare irreversibile.

Con il passare del tempo, sempre più la mente viene attraversata da squarci di consapevolezza che inducono a riflettere e a sospendere l’affannosa corsa quotidiana verso quel nulla che, per chiunque, diviene l’approdo finale.

L’opera dei portoghesi Urze de Lume rappresenta alla perfezione tale coacervo di sensazioni, con il vantaggio che questo dark folk malinconico e soffuso si rivela paradossalmente una panacea capace di lenire tutte le negatività accumulate in precedenza.
Questo ensemble di Lisbona, fondato da Ricardo Brito, arriva al terzo lavoro su lunga distanza con questo As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas, il cui titolo evoca chiaramente la stagione autunnale alla quale era stata dedicata la prima parte di questa dilogia iniziata con l’ep Vozes na Neblina, uscito lo scorso anno.
Il folk di matrice oscura, incentrato chiaramente su strumenti acustici ma arricchito anche da interventi di strumenti tradizionali, ad archi o a fiato, riesce a ritagliarsi un suo meritato spazio in virtù della sua limpidezza, e, personalmente, per impatto e coinvolgimento mi viene da accostarlo ai Wöljager di Marcel Dreckmann, a testimonianza del fatto che la buona musica dalle radici etniche riesce a raggiungere sempre il cuore degli ascoltatori, indipendentemente dalla latitudine da cui trae linfa.
L’intento degli Urze de Lume è chiaramente quello di farci viaggiare a ritroso nel tempo, riportandoci almeno virtualmente a quella coesione inscindibile tra uomo e natura che oggi più che mai viene messa in discussione: As Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas è la sintesi musicale di questa alleanza che ha retto per millenni prima di un inizio di sgretolamento che pare irreversibile.
Brito e i suoi compagni d’avventura ci consentono l’accesso a questa bolla spazio temporale nella quale il sentimento predominante è la malinconia, insita in chi vive nel paese in cui il fado non è un semplice genere musicale bensì un qualcosa di insito nel dna della sua gente.
Non vale la pena di opporre resistenza alle carezze acustiche che gli Urze de Lume ci regalano sotto forma di brillanti gemme come la title track, Da Tua Ausência, Margens do Rio Outono o Longa a Noite: per le anime più sensibili, contemplare i colori e le sfumature dell’autunno è un nutrimento virtuale che può lenire il senso di vuoto che ognuno si porta appresso, inconsapevolmente o meno.

Tracklist:
1. Sobre Folhas de Carvalho
2. Come Árvores Estão Secas e Não Têm Folhas
3. Prenúncio de Gelo
4. Da Tua Ausência
5. Solidão
6. Fantasmi di Horas Mortas
7. Encruzilhadas
8. Sombras no Vento
9. Margens do Rio Outono
10. Entardece em Mim
11. Longa a Noite
12. Alvorada de Destroços

Line-up:
Ricardo Brito
Tiago Matos
Hugo Araújo
Gonçalo do Carmo

URZE DE LUME – Facebook

Stormwolf – Howling Wrath

L’album è consigliato agli amanti dei suoni tradizionali che, in Howling Wrath, troveranno di che godere tra atmosfere fantasy, un numero infinito di duelli tra le chitarre, la prova maiuscola di una cantante dai toni magici e ritmiche che passano con disinvoltura da sfuriate power a cavalcate su tempi medi.

Leggi tutto “Stormwolf – Howling Wrath”

Green Druid – Ashen Blood

Doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.

Eccellente debutto di questo quartetto statunitense di Denver, attivo dal 2015, con un demo autoprodotto riproposto in toto in questa opera prima.

Lode alla Earache che ha messo sotto contratto questi musicisti alla loro prima esperienza con i Green Druid: otto brani intensi, lunghi, alcuni lunghissimi fino a diciotto minuti, dove le idee non mancano, le atmosfere sono cangianti, vibranti con la loro alternanza di chiaroscuri e saliscendi emozionali.
La base è doom nella sua forma più tradizionale ma il tutto è intriso di stoner, di aromi acido lisergici, di ipnotismo, di momenti inquieti e parti più introspettive; il quadro definitivo lascia storditi, desiderosi di assaggiare sempre più queste note per assaporare meglio ogni momento.
Vengono in mente gli Sleep per la loro capacità di mantenere alta la tensione durante le interminabili jam soffocate da un sole incandescente come in Cursed Blood, la più lunga del lotto, dove un riff reiterato pone le basi per le divagazioni sia solistiche sia di atmosfera e qui l’interplay tra le due chitarre rivaleggia con le clean vocals filtrate e salmodianti, a creare immagini di una carovana in lento movimento verso acidi abissi: un brano notevolissimo da sentire assolutamente. In Agoraphobia, altri quattordici minuti, le trame acido lisergiche prendono il sopravvento fino dall’inizio e l’atmosfera, apparentemente più distesa, alternando momenti psichedelici e doom si carica lentamente di tensione con basso e chitarre a condurre la danza verso orizzonti completamente stonati.
Ogni brano ha caratteristiche proprie mantenendo inalterati gli ingredienti di base, Dead Tree sforna un riff da far tremare le montagne, Rebirth ricorda i momenti soffocanti degli ultimi Electric Wizard, stritolando le viscere e Ritual Sacrifice è sinistra e carica di suspence, mantenendo le promesse del titolo.
Per essere un’opera prima le sensazioni sono eccellenti, i musicisti hanno idee e una buona personalità, i brani sono fluidi, convinti e convincenti, attraggono e lasciano ottime vibrazioni: dal vivo potrebbero essere una assoluta rivelazione.

Tracklist
1. Pale Blood Sky
2. Agoraphobia
3. Dead Tree
4. Cursed Blood
5. Rebirth
6. Ritual Sacrifice
7. Nightfall

Line-up
Ryan Skates – Bass
Ryan Sims – Drums
Graham Zander – Guitars
Chris McLaughlin – Vocals, Guitars

GREEN DRUID – Facebook

Dautha – Brethren of the Black Soil

I Dautha danno alle stampe un esordio su lunga distanza magnifico, capace di unire l’incedere dolente ed il cupo incombere di un fato ineluttabile, proprio del funeral, con la struttura heavy delle radici doom, andando a creare un ibrido di qualità inestimabile.

I Dautha sono una band svedese che, dopo l’assaggio offerto con il demo Den förste del 2016, scende nell’agone del doom classico con un album destinato per il suo valore a porre sotto una luce ben più vivida questi ottimi musicisti scandinavi.

Brethren of the Black Soil regala quasi un’ora di doom al quale non manca nulla, infatti, per consentire ai Dautha di essere accostati ai connazionali Candlemass senza rischiare d’essere denunciati per lesa maestà
Il gruppo di Norrköping è composto da elementi di comprovata esperienza, anche in ambito doom, tra i quali il più noto è forse Lars Palmqvist, clean vocalist degli Scar Symmetry, e questo consente ai nostri di dare alle stampe un album ambizioso in quanto persegue obiettivi musicali e lirici tutt’altro che banali: se musicalmente parte da una base che prende le mosse dai semi piantati nella metà degli anni ’80 da Leif Edling e poi germogliati nei decenni successivi facendo maturare i suoi luttuosi frutti, anche a livello concettuale il lavoro si distingue per la ricerca di tematiche che affrontano le radici in avvenimenti storici del remoto passato, pur non rinunciando a mettere in primo piano le tematiche inerenti la morte (appunto dautha, in svedese antico) e tutto ciò che ne consegue.
Nel parlare di Brethren of the Black Soil non si può non partire però dalla title track, che non è solo la traccia più lunga dell’album con il suo quarto d’ora di durata, ma è una vera e propria gemma intrisa di epico lirismo come non capitava di ascoltare da tempo in quest’ambito; oltre al riferimento già citato con gli illustri connazionali, in questo caso i Dautha ci riportano anche ai Procession più ispirati, per un fatturato complessivo dal raro carico evocativo.
Se questo brano è il picco più alto dell’album, ci sono altri quaranta minuti abbondanti con i quali i Dautha regalano doom metal al suo massimo livello, con The Children’s Crusade e Bogbodies, dai tratti più funerei e vistosamente rallentati ed emotivamente impattanti, e Hodie Mihi, Cras Tibi, Maximinus Thrax e In Between Two Floods (valorizzata da un chorus splendido) maggiormente movimentate, rapportando sempre l’aggettivo al genere suonato.
I Dautha danno alle stampe un esordio su lunga distanza magnifico, capace di unire l’incedere dolente ed il cupo incombere di un fato ineluttabile, proprio del funeral, con la struttura heavy delle radici doom, andando a creare un ibrido di qualità inestimabile.

Tracklist:
1. Hodie Mihi, Cras Tibi
2. Brethren of the Black Soil
3. Maximinus Thrax
4. The Children’s Crusade
5. In Between Two Floods
6. Bogbodies

Line-up:
Ola Blomkvist – guitar/lyrics
Erik Öquist – guitar
Lars Palmqvist – vocals
Emil Åström – bass
Micael Zetterberg – drums

DAUTHA – Facebook

Volition – Visions of the Onslaught

Visions Of The Onslaught è un lavoro rivolto agli amanti del genere, i quali sono invitati ad un ascolto che potrebbe trasformarsi in una piacevole e devastante sorpresa.

Metal estremo dai rimandi old school, velenoso e crudele quel tanto che basta per passare con disinvoltura dal thrash metal al death/black.

Loro sono i Volition band statunitense proveniente da Tulsa (Oklahoma) e Visions of the Onslaught è il loro debutto sulla lunga distanza, successore di un ep licenziato un paio di anni fa.
Un thrash contaminato dal mood estremo e devastante dei generi sopracitati crea un’atmosfera di belligeranza e di massacro sonoro vecchia scuola: i Volition risultano il classico gruppo dal sound che si riassume nel detto palla lunga e pedalare con un metal che, ingranata la quinta, mantiene veloce l’andatura per tutta la durata non risparmiando qualche mid tempo incastrato nella furia iconoclasta di brani come l’opener Annihilation, la mastodontica Crypts Of Flesh e la veemente Theories Of Punishment.
Le influenze sono tutte riscontrabili nei pionieri del metal estremo degli anni ottanta tra il thrash e le prime avvisaglie death/black, quindi riconducibili ai soliti Venom, Slayer, Sodom e Kreator.
Visions Of The Onslaught è un lavoro rivolto agli amanti del genere, i quali sono invitati ad un ascolto che potrebbe trasformarsi in una piacevole e devastante sorpresa.

Tracklist
1.Morbid Devastation
2.Theories of Punishment
3.Enforce with Violence
4.Injection Vendetta
5.Annihilation
6.Vengeful Satisfaction
7.Justified Mortality
8.Crypts of Flesh
9.Volition

Line-up
Cody Creitz – Drums
Christian Potter – Guitars, Vocals
Gabe Henry – Guitars
Treston Lamb – Bass

VOLITION – Facebook

Confine – Incertezza Continua

In apparenza i Confine sembrano disimpegnati, la verità è che si divertono e fanno le cose “estremamente” per bene, senza prendersi troppo sul serio e facendoci passare un gran bel quarto d’ora.

Da casa al lavoro, da lavoro al supermercato, dal supermercato (o bar) a casa e così via. Testa china e pedalare, attento a non fare danni o a non farti male.

Anche se dentro hai il fuoco che arde, la voglia di spaccare tutto, perché tu non ci credi in Dio, nel benessere materiale, nella giustizia o nella patria. Allora devi ascoltare i Confine, non saranno la tua zona di conforto, ma sarà un disco che ti farà ribollire le vene, perché questo è ciò che deve fare. Hc punk non velocissimo, ma inesorabile e corrosivo, con un suono d–beat, il cantato in italiano e tanta, tanta sostanza. Nati nel 2013 a Cavarzere, in provincia di Venezia, i Confine sono il risultato dell’amore verso un hardcore punk molto bastardo, con inserti grind e pennellate thrash. Il disco dura un quarto d’ora, è davvero potente e diretto, con testi che parlano di vita e di odio, di rabbia verso la religione ma anche verso noi stessi che non riusciamo ad uscire dalle nostre gabbie. Il suono come detto è corrosivo ma non velocissimo, e l’impasto voce e musica lo rende additivo, ascolti il disco in loop continuo, perché c’è qualcosa di finemente diabolico. Canzoni come Franco sono la perfetta descrizione di cosa siamo, e sono anche una botte di hardcore a trecentosessanta gradi. In apparenza i Confine sembrano disimpegnati, la verità è che si divertono e fanno le cose “estremamente” per bene, senza prendersi troppo sul serio e facendoci passare un gran bel quarto d’ora. Dopo il già ottimo C.I.O.D.E. i Confine si confermano come uno dei migliori gruppi hc italiani.

Tracklist
1.La Favola Di Dio
2.Pargolo
3.Franco
4.Infamia
5.Maurizio IV
6.Pozzo Strada
7.Magone
8.La Mia Recita
9.La Tesi
10.Incertezza Continua

Line-up
Maximilian Goldberg – Voce
Andrea Bottin – Chitarra/Cori
Marco Tumiatti – Basso/Voce
Alessandro De Zanche – Batte

CONFINE – Facebook

Apocryphal – When There Is No Light

When There Is No Light è un album vivamente consigliato a chi predilige un black metal dai tratti aderenti alla tradizione ma nel contempo curato a livello di sonorità e credibile dal punto di vista lirico e concettuale.

L’esordio su lunga distanza dei veronesi Apocryphal ci riporta ad un black metal essenziale e sostanzialmente privo di sbocchi melodici of atmosferici.

La band veneta, che ha mosso i suoi primi posso con il demo titolo nel 2015, tiene fede al proprio monicker incentrando il lavoro sugli scritti cosiddetti apocrifi, ovvero quelle parti di nuovo e vecchio testamento che non trovano posto nelle versioni divulgate dalla Chiesa cattolica in quanto ufficialmente non attendibili ma, sostanzialmente, poiché riportano molti dei fatti che ci sono stati tramandati da un punto di vista diverso e soprattutto capaci di mettere in dubbio certe verità acquisite.
Se ne deduce che When There Is No Light possiede un carico fortemente antireligioso, e lo strumento utilizzato per veicolare ciò che la storia ha relegato ai margini è il ricorso al genere estremo misantropico e blasfemo per eccellenza.
Come detto il black metal degli Apocryphal  è diretto e volto a giungere all’obiettivo senza troppi fronzoli né giri di parole,: linearità però non è automaticamente sinonimo di semplicità e così il quartetto veneto mette in scena una dimostrazione magari priva di particolari picchi ma di grande compattezza in ogni sua parte; spicca su tutti gli altri un brano come Under the Black Flag of Babilonia, bella cavalcata dai ritmi intensi ma non esasperati e che beneficia anche di un efficace intro basato su sonorità etniche di matrice orientale.
When There Is No Light è un album vivamente consigliato a chi predilige un black metal dai tratti aderenti alla tradizione ma nel contempo curato a livello di sonorità e credibile dal punto di vista lirico e concettuale.

Tracklist:
1. The Call of War
2. Evoching Satan
3. Offer to Stars
4. Violence of Unique God
5. Under the Black Flag of Babilonia
6. Midnight Sky
7. Original Glory
8. Last Pagan Night

Line-up:
Matteo Baroni Bass
Diego Gini Drums
Fabio Poltronieri Guitars
Gianmarco Bassi Vocals

Siksided – Leave No Stone Unturned

Leave No Stone Unturned vive di grunge nevrotico e di prog metal e ne esce una raccolta di brani che alterna rabbiose atmosfere metalliche a tracce e sfumature rock oriented, sempre legate da un buon lavoro ritmico e chitarristico.

Torniamo a parlarvi di musica rock ispirata agli anni novanta, decennio importantissimo per lo sviluppo del metal/rock, da quello più estremo fino alle contaminazioni crossover generate aldilà dell’Atlantico e che fecero coppia con l’esplosione dei suoni hard rock, dal grunge all’ alternative.

Il secondo decennio del nuovo millennio si può certo considerare come la maturazione del frutto nato dall’albero piantato trent’anni fa da quei gruppi che, in un batter d’occhio, si ritrovarono sulle copertina delle riviste specializzate e con i propri in video in rotazione su MTV.
In Italia non mancano certo ottime realtà che si affacciano sul mercato underground ispirate dai grandi nomi del genere, una scena (se si può parlare di scena riguardo al metal/rock nel nostro paese) che regala proposte di valore come i Siksided, freschi di debutto sulla lunga distanza con Leave No Stone Unturned, traguardo raggiunto dopo quasi otto anni dalla nascita del gruppo con base a Trieste.
Dopo vari cambi di formazione ed un demo di cinque brani licenziato quattro anni fa, la band ci regala un’opera che dell’alternative metal attinge la forza, dal grunge l’irruente intimismo e dal progressive moderno quella nobiltà compositiva e cerebrale che avvicina il sound alle opere di Tool ed A Perfect Circle.
In effetti, come scritto nelle note di accompagnamento dell’album, Leave No Stone Unturned vive di grunge nevrotico e di prog metal e ne esce una raccolta di brani che alterna rabbiose atmosfere metalliche a tracce e sfumature rock oriented, sempre legate da un buon lavoro ritmico e chitarristico.
Disposable Livings, Charon, Batlant Quiet, Desert e la conclusiva pinkfloydiana Defaced sono i brani più esaustivi per chi vuol conoscere il gruppo nostrano, ma tutto l’album funziona così da meritarsi una promozione a pieni voti.

Tracklist
1.Disposable livings
2.Leaf
3.Fragments
4.Meant to be
5.Charon
6.New savior
7.Blatant quiet
8.Desert
9.Defaced

Line-up
Delano – Guitar
Paolo – Drums
Jeff – Guitar
Wolly – Bass
Xander – Voice

SIKSIDED – Facebook

Cryptopsy – Ungentle Exumation

La mitica cassetta che ha contribuito a fondare, nei primi anni Novanta, la scena canuck del techno-deathcore, da allora una seminale fonte di ispirazione per molti epigoni.

I canadesi Cryptopsy – da Montreal, Québec – sono oggi giustamente celebri tra gli addetti ai lavori ma sulle loro origini ci si sofferma sempre poco.

Il gruppo nacque nel 1988 e solo un lustro più tardi incise il demo tape Ungentle Exumation. Quel nastro fondò a conti fatti la scuola del death metal nel Canada francese: un techno-death brutale e orrorifico, opportunamente sporcato di hardcore (anzi: il death-core venne in pratica creato da loro, prima di diventare una moda). I brani del nastro sono una vera e propria manna, per tutti coloro che amano Suffocation, Origin, Malignancy ed i connazionali Gorguts, nonché le sfuriate grind di Cephalic Carnage e Dying Fetus e le progressioni iper-tecniche degli spagnoli Wormed. Detto altrimenti, in Ungentle Exumation troviamo una fusione incredibile e davvero pionieristica di brutal death e inflessioni prog mutuate dai Pestilence di Spheres (da poco e finalmente ristampati, insieme a tutto il catalogo degli olandesi). Postilla conclusiva per completisti: la violenza ossimorica e futuristico-ancestrale dei Cryptopsy riecheggia oggi anche nei mai troppo lodati Rage Nucléaire: due eccezionali dischi di black-war, che attinge anche a Marduk, 1349, Dark Funeral, Anaal Nathrakh e Immortal, con appunto Lord Worm dei Cryptopsy tra i ranghi. La stirpe continua.

Track list
1. Gravaged
2. Abigor
3. Back to the Worms
4. Mutant Christ

Line up
Lord Worm – Vocals
Flo Mounier – Drums
Kevin Weagle – Bass
Dave Galea – Guitars
Steve Thibault – Guitars

1993 – Autoprodotto

Killibrium – Purge

Il sound dei Killibrium è un mastodontico pezzo di cemento staccatosi da un grattacielo in pieno centro all’ora di punta: i danni sono inevitabili, così come le vittime tra chi non è abituato a tanta potenza e pesantezza.

Neanche il tempo di sistemare le valigie che si torna a volare virtualmente verso l’India, precisamente a Mumbai, dove ci aspettano i deathsters Killibrium, nuovissima band all’esordi con questo devastante ep intitolato Purge.

Il quartetto asiatico conferma quanto di buono ci sia nella scena estrema di quel paese, con sei brani nei quali il death metal old school incontra il brutal e lo invita ad una strage promettendo fuoco e fiamme, tecniche e ritmiche, dal groove micidiale.
Il sound dei nostri è un mastodontico pezzo di cemento staccatosi da un grattacielo in pieno centro all’ora di punta: i danni sono inevitabili, così come le vittime tra chi non è abituato a tanta potenza e pesantezza.
L’opener Forewarned ci presenta un gruppo capace di mantenere un impatto tellurico, pur abbondando di parti ultratecniche: i quattro musicisti innalzano un altare di abissale musica estrema onorando le band storiche del genere, dai Cannibal Corpse ai Suffocation, in un delirio di cambi di tempo, ripartenze che hanno la potenza e la furia di un’onda sprigionata dalla forza di uno tsunami.
Mental Illusion è una tempesta di note che si abbatte sull’ascoltatore, il growl di Nitin Rajan è pregno di una personalità che si evince dall’uso deciso ed espressivo, gli strumenti sono armi letali tra le mani di Mihir Bhende alla batteria, Keshav Kumar alla chitarra e Suvajit Chakraborty al basso e tutto funziona alla perfezione, anche se il poco tempo a disposizione del gruppo ci porta ad aspettare sviluppi futuri prima di dare un giudizio definitivo.
Rimane da sottolineare il grande impatto, e l’uso delle ritmiche che strizza l’occhiolino alla scena odierna.

Tracklist
1. Forewarned Is Forearmed
2. Denominator
3. Mental Illusions
4. Vigilante
5. Purge
6. Last Man Standing

Line-up
Keshav Kumar – Guitars
Mihir Bhende – Drums
Suvajit Chakraborty – Bass
Nitin Rajan – Vocals

KILLIBRIUM – Facebook

Divine Realm – Nordcity

Nordcity può essere certamente considerato come un buon antipasto in attesa del prossimo full length: la musica dei Divine Realm insegue le vette in cui la tecnica strumentale gioca un ruolo importante sulla valutazione, lasciando un passo indietro la parte emozionale, a mio avviso anima e sangue di un’opera musicale.

Metal progressivo e strumentale quello proposto dai Divine Realm, quartetto canadese che licenzia il suo nuovo lavoro autoprodotto dal titolo Nordcity.

La band esordì nel 2013 con l’ep Mor[T]ality , seguito da un paio di full length, Abyssal Light e Tectum Argenti, rispettivamente del 2014 e del 2016, tornando sul mercato con questa ventina di minuti nel quale il talento tecnico fa bella mostra di sé, valorizzando questo piccolo assaggio delle potenzialità del gruppo, per chi ancora non lo conoscesse.
Non manca qualche difettuccio, è bene sottolinearlo, a tratti la band si specchia nel tecnicismo per perdere leggermente in fluidità, ma sono dettagli di un sound che pesca dai maestri del prog (Dream Theater) quanto dai lavori strumentali dei vari guitar heroes.
Nordcity può essere certamente considerato come un buon antipasto in attesa del prossimo full length: la musica dei Divine Realm insegue le vette in cui la tecnica strumentale gioca un ruolo importante sulla valutazione, lasciando un passo indietro la parte emozionale, a mio avviso anima e sangue di un’opera musicale.
Autumn e Revival sono i momenti migliori dell’album, consigliato agli amanti dello shred e del metallo progressivo.

Tracklist
1. As the Crow Flies
2. Autumn
3. Whitewater
4. Revival
5. Hanging Valleys

Line-up
Leo Diensthuber – Lead/Rhythm Guitars
Marc Roy – Lead/Rhythm Guitars
Tyler Brayton – Bass Guitar
Josh Ingram – Drums

DIVINEREALM – Facebook

Astrolabio – I paralumi della ragione

La dimostrazione che il vero prog può esistere ancora, anche e soprattutto nel nostro paese, dove la tradizione al riguardo di certo non manca.

Veronesi, gli Astrolabio esistono dal 2009 (sono sorti dalle ceneri degli Elettrosmog, autori nel 2007 del buonissimo Omologando).

Il quartetto propone un validissimo rock progressivo italiano, cantato quindi in lingua madre (e non a caso questo I paralumi della ragione esce per la Andromeda Relix di Gianni Della Cioppa, che tanto ha scritto e ha fatto per il rock tricolore di qualità, specialmente underground). L’orientamento della band scaligera è da subito molto analogico e settantiano, caldo e valvolare. Liricamente, si va da squarci più intimi a testi più impegnati, anche qui in linea, del resto, con i nostri anni ’70. La libertà espressiva si candida, in questi solchi, ad essere la vera e propria cifra stilistica del gruppo veneto, che rifugge dai vincoli legati al genere e spazia non poco, anche a livello strumentale, oltre che di songwriting. Poca elettronica comunque, e moltissimo rock classico, scritto e arrangiato appunto in chiave prog. Tra Osanna e Locanda delle Fate (e gli Astrolabio hanno suonato dal vivo, fra l’altro, con entrambi): questi gli orizzonti del lavoro, che senz’altro incontrerà i favori di quanti giustamente amano queste sempreverdi ed eterne sonorità, belle e senza tempo. Un invito, quasi, a meditare, sull’oggi e sullo ieri. Rock e poesia in nome del prog, detto altrimenti. Un esperimento davvero riuscito.

Tracklist
1- Dormiveglia 1
2- Nuovo Evo
3- Una Cosa
4- Pubblico Impiego
5- Arte(Fatto)
6- Otto Oche Ottuse
7- La Casa di Davide
8- Sui Muri
9- Dormiveglia 2

Line-up
Michele Antonelli – Guitars / Vocals / Flute
Alessandro Pontone – Drums
Paolo Iemmi – Bass / Vocals
Massimo Babbi – Keyboads

https://it-it.facebook.com/AstrolabioRDI/

King Goat – Debt Of Aeons

I King Goat fanno musica portandoci molto lontano, e questa loro seconda prova è consigliabile ascoltarla con le cuffie, di modo che si possa gustare in maniera totale questo doom altro, che è sentimento più che un genere.

Pochi gruppi hanno la capacità di fare musica pesante e al contempo così melodica e fluida come i King Goat, da Brighton, Isole Britanniche.

Il loro secondo disco Debt Of Aeons è un esempio molto deciso e forte di come si possa fare musica partendo dal doom metal più classico, in stile Candlemass, per arrivare a parti addirittura più progressive con aperture molto ariose e potenti. I King Goat sono un gruppo assolutamente unico in quanto a peculiarità, in un genere che è sempre stato suonato ed ascoltato da veri adepti. Il gruppo inglese riesce sempre a trovare la giusta soluzione sonora, favorendo la melodia in ogni suo aspetto, da quello musicale a quello fisico, nel senso che la loro musica interagisce con le nostre cellule, facendole muovere. Il punto di partenza di tutto è il doom classico, che in Inghilterra trova un substrato molto fertile, sia nelle tradizioni popolari che nel gusto gotico, e anche nella tradizione musicale. Il doom qui si sublima e diventa molte cose, e come in un processo alchemico cangia forma molte volte, muta per trasformare la propria essenza e diventare un significato differente. Il filo conduttore del disco, che si può anche ritrovare nella splendida copertina di Travis Smith già autore di copertine degli Opeth, Katatonia e Iced Earth fra gli altri, è il pessimismo cosmico, insito sia nella natura umana che nell’osservazione di questo veloce declino che stiamo vivendo. Non rimarrà molto delle nostre vite e delle nostre sicurezze, dato che ci crediamo la civiltà superiore ma siamo solo una pessima parentesi di una storia fortunatamente più grande di noi. La grande musica dei King Goat è qui per ricordarcelo, e non si limita a questo dandoci un affresco molto preciso di eoni che ci hanno preceduto e di quelli che seguiranno a noi. Nei momenti più atmosferici del disco possiamo ascoltare il battito dello spazio, di ciò in cui siamo immersi, ma che nella nostra protervia giudichiamo inutile. I King Goat fanno musica portandoci molto lontano, e questa loro seconda prova è consigliabile ascoltarla con le cuffie, di modo che si possa gustare in maniera totale questo doom altro, che è sentimento più che un genere. Oltre ad una grande capacità compositiva i King Goat hanno il pregio di avere una visione poetica davvero diversa ed importante, che impatta nella loro musica che è già una cosa inedita e molto piacevole. Una seconda prova ancora meglio della precedente, che entra di diritto nel meglio della scuola inglese di musica pesante degli ultimi anni.

Tracklist
1.Rapture
2. Eremite’s Rest
3. Debt Of Aeons
4. Psychasthenia
5. Doldrum Sentinels
6. –
7. On Dusty Avenues

Line-up
Vocals: Trim
Lead Guitar: Petros
Rhythm Guitar: Joe
Bass: Reza
Drums: Jon

KING GOAT – Facebook

Therion – Blood Of The Dragon

Provando a sfruttare la scia derivante dall’uscita del mastodontico Beloved Antichrist, due etichette dell’est europeo, la russa Stygian Crypt Productions e la bielorussa Possession Productions, immettono sul mercato Blood Of The Dragon, un’uscita in doppio cd che presenta, nel primo dischetto, una serie di cover incise dai Therion in studio o tratte da diversi concerti e, nel secondo, brani coverizzati da band appartenenti a diversi filoni musicali.

Detto che un’operazione di questo tipo avrebbe avuto molto più senso avviarla in un momento di stasi dell’attivita della band di Christofer Johnsson, e non un mese dopo dopo la pubblicazione di un album contenente ben tre ore di musica inedita (ma io non sono un esperto di marketing e sicuramente ci saranno validi motivi che mi sfuggono), l’opera riveste i suoi maggiori motivi di interesse, a mio avviso, proprio per scoprire come tutti i gruppi chiamati a tributare l’ensemble svedese siano riusciti a rendere alcuni dei brani più significativi della sua discografia.
Intanto cominciamo con il dire che i meno significativi sono proprio quelli interpretati da chi, normalmente, suona symphonic metal, per cui la versione proposta finisce per essere molto simile all’originale e quindi inevitabilmente destinata a soccombere nel confronto (è il caso dei vari Ghost Warfare, Imperial Age, Dark Letter), mentre si rivelano interessanti le rivisitazioni compiuta da band dal retaggio estremo come Elimi, con una furiosa versione black di The Blood Of Kingu, Revolted Masses, alle prese con Baal Reginon, Theosophy con Pandemonic Outbreak, Theudho con Schwarzalbenheim e Frozen Oceans con The Wings Of The Hydra.
I Mare Infinitum, da buoni doomsters, rallentano ad arte The Wand Of Arabism, mentre i Numenor rielaborano abilmente The Riders Of Theli imprimendole una discreta accelerazione; tutto il resto è comunque gradevole, rivelandosi anche un utile strumento per testare le capacità di band per lo più sconosciute o comunque dalla ridotta popolarità, almeno dalle nostre parti.
Relativamente al primo cd, che nell’economia dell’operazione appare sostanzialmente superfluo, sono da rimarcare le interessanti versioni di Fight Fire With Fire dei Metallica e di Black Funeral dei Mercyful Fate, impreziosita dall’ospitata di Messiah Marcolin in questa versione dal vivo.
Resto sempre e comunque perplesso sulle potenzialità commerciali dell’operazione (anche per la tempistica), ma spero vivamente di sbagliarmi, augurando il meglio alle volenterose label promotrici del tributo.

Tracklist:
CD I:
01 – Fight Fire With Fire
02 – The King
03 – Southbound
04 – Witching Hour
05 – Green Manalishi
06 – Revelations
07 – Black Funeral (feat. Messiah Marcolin)
08 – Iron Fist
09 – Ivanubis Hollanda – Perennial Sophia
10 – Ivanubis Hollanda – Raven Of Dispersion

CD II:
01 – GHOST WARFARE – An Arrow From The Sun
02 – ANTYRA – Asgard
03 – REVOLTED MASSES – Baal Reginon
04 – REMAINS – Genocidal Raids
05 – DAY 40 – Invocation Of Naamah
06 – DARK LETTER – Kali Yuga. Part I
07 – WHIRLWIND STORM – Liusalvheim
08 – THEOSOPHY – Pandemonic Outbreak
09 – THEUDHO – Schwarzalbenheim
10 – THE EXPERIMENT no.Q – Seven Secrets Of The Sphynx
11 – IMPERIAL AGE – To Mega Therion
12 – ELIMI – The Blood Of Kingu
13 – NUMENOR – The Riders Of Theli
14 – MARE INFINITUM – The Wand Of Arabis
15 – FROZEN OCEAN – The Wings Of The Hydra
16 – MAJESTY OF REVIVAL – Wisdom And The Cage

Oceans Of Slumber – The Banished Heart

The Banished Heart è compost da centinaia di sfumature che si fanno spazio tra una struttura metallica rocciosa ed estremamente dolorosa, spiegata attraverso interventi devastanti di un growl rabbioso e ribelle, alter ego della splendida voce femminile, talmente originale ed interpretativa da ferire profondamente, come un coltello che lacera lo spirito e l’anima.

The Banished Heart entra di diritto in quel lungo elenco di opere metal da dedicare a chi ha sempre denigrato il genere, tacciato di risultare un baccanale fine a se stesso senza arte ne parte o addirittura istigatore di atti condannati dai soliti benpensanti.

Anche perchè l’ultimo lavoro dei texani Oceans Of Slumber è per prima cosa un album estremo, vario nelle sue atmosfere che ovviamente rimangono drammaticamente oscure e pregne di quella melanconia gotica che lo portano a tratti verso il black metal, per poi virare nel più profondo abisso della nostra anima a colpi di death metal progressivo.
Centinaia di sfumature si fanno spazio tra una struttura metallica rocciosa ed estremamente dolorosa, spiegata attraverso interventi devastanti di un growl rabbioso e ribelle, alter ego della splendida voce femminile, talmente originale ed interpretativa da ferire profondamente, come un coltello che lacera lo spirito e l’anima.
La band statunitense appaga da ormai una manciata d’anni la voglia di lasciarsi emozionare degli amanti del genere, prima con il debutto Aetherial e poi con il piccolo capolavoro intitolato Winter, precedente album uscito nel 2016 e che aveva portato la band sulla bocca di fans e addetti ai lavori.
The Banished Heart è il suo degno successore, bellissimo scrigno di drammatiche, tragiche ed intimiste emozioni raccontate con la forza del metal estremo, delle sfumature notturne del gothic, della furiosa rabbia del black metal e della nostalgica melanconia del doom in un straordinario turbine di musica progressiva, ora elettrica e potentissima, ora delicata come le note di un piano che scava nell’anima ed accompagna l’elegante interpretazione di Cammie Gilbert, un angelo dalle ali spezzate, che canta direttamente al cuore di ognuno di noi.
Basterebbe la title track di questa mastodontica opera per crogiolarsi di emozioni per una vita intera, ma più di un’ora di musica di tale spessore non è troppa per dedicarle il nostro tempo, impiegato al meglio fin dall’opener The Decay Of Disregard, brano che riassume in otto minuti quello che l’album ci riserva  tutta la sua durata.
At Dawn, A Path To Broken Stars, il crescendo atmosferico di No Colour, No Light sono lame che si conficcano nella carne e non escono finchè non lacerano definitivamente cuore e anima, mentre Wayfaring Stranger, solcata da un anima ambient/folk, conclude questo bellissimo ed emozionante lavoro.
Gli Oceans Of Slumber ci hanno fatto partecipi di un opera d’arte e come tale The Banished Heart va ascoltato e custodito.

Tracklist
01.The Decay Of Disregard
02.Fleeting Vigilance
03.At Dawn
04.The Banished Heart
05.The Watcher
06.Etiolation
07.A Path To Broken Stars
08.Howl Of The Rougarou
09.Her In The Distance
10.No Color, No Light
11.Wayfaring Stranger

Line-up
Cammie Gilbert – Vocals
Anthony Contreras – Guitar
Sean Gary – Guitar
Keegan Kelly – Bass
Dobber Beverly – Drums

OCEANS OF SLUMBER – Facebook

Deliverance – The Subversive Kind

La Roxx Records questa volta non ci delizia con chicche perse negli annali dell’underground metallico, ma rimanendo in ambito cristiano ed old school ci presenta l’ultimo album dei Deliverance, band storica del sottobosco di Los Angeles.

La Roxx Records questa volta non ci delizia con chicche perse negli annali dell’underground metallico, ma rimanendo in ambito cristiano ed old school ci presenta l’ultimo album dei Deliverance, band storica del sottobosco di Los Angeles.

Attivi infatti dalla metà degli anni ottanta, i californiani arrivano quest’anno all’undicesimo lavoro sulla lunga distanza di una discografia importante numericamente parlando, che si completa con un buon numero di opere minori, tutte devote ad un thrash metal potenziato da energiche iniezioni speed (specialmente nei primi album), qualche reminiscenza industrial per una proposta estrema vecchia scuola.
Le tematiche cristiane non intaccano l’impatto del sound del chitarrista e cantante Jimmy P. Brown II e compagni, ruvidi e rocciosi anche in The Subversive Kind.
A livello di grinta la band non ha nulla da invidiare ai colleghi più giovani, la mezzora a disposizione è sfruttata al meglio, innalzando un muro sonoro violento e senza compromessi.
Slayer e Sanctuary si danno battaglia nel sound del gruppo, ovviamente con un’esperienza ed una personalità che lo porta a suonare thrash metal senza compromessi, ma pur sempre targato Deliverance.
L’album ha nel suo cuore i migliori momenti dettati da due brani fenomenali come The Black Hand, dal refrain che ricorda i primi Nevermore del compianto Warrel Dane, e la devastante Epilogue.
Lo storico singer dà ancora filo da torcere a molti dei suoi giovani colleghi, la band in toto gira a mille e The Subversive Kind risulta un buon lavoro indirizzati sostanzialmente a tutti gli appassionati di thrash.

Tracklist
1.Bring ‘Em Down
2.Concept of the Other
3.Center of It All
4.The Black Hand
5.Epilogue
6.Listen Closely
7.The Subversive Kind
8.The Fold

Line-up
Jimmy P. Brown II – Vocals, Guitars
Glenn Rogers – Guitars
Jim Chaffin – Drums
Victor Macias – Bass

DELIVERANCE – Facebook

ILSA – Corpse Fortress

Esordio su Relapse per ILSA, malevola creatura che racchiude un animo doom, sludge, crust e punk.

Gli ingredienti sono sempre i medesimi, doom impregnato di sludge e cosparso di scorie crust e punk,ma gli statunitensi ILSA li sanno maneggiare con perversa maestria.

La band nata nell’underground statunitense, giunge al quinto album e all’esordio sulla lunga distanza per Relapse (da ricordare nel 2016 anche uno split con i Coffins, altri maestri del genere, sempre sulla stessa etichetta) e lo fa miscelando, come al solito, ossessione per storie orrorifiche con partiture melmose, diaboliche, colme di soffocante feedback. Nove brani, quarantotto minuti laceranti, disturbanti fino dall’opener Hikikomori aperto da un classico riff doom, sommerso da un potente feedback e da una voce in growl straziata che crea un’atmosfera da incubo; le chitarre, oltre a generare riff si lasciano andare a parti soliste sinistre che mantengono alta la tensione, con la sezione ritmica sempre molto presente che prende il sopravvento i brani come Nasty, Brutish e Ruckenfigur, davvero due cingolati impazziti che travolgono tutto senza lasciare prigionieri. Il sound rimane sempre molto minaccioso, carico, non concede requie e trova le sue radici in act come Hooded Menace, Eyehategod, dove però la miscela appare meglio centrata; la band sa creare brani convincenti, soprattutto nella final track Drums of Dark Gods (magnifico titolo) dove il basso e la batteria trasportano l’ascoltatore verso profondi e innominabili abissi e la voce gorgoglia invocando … from the jaws of Leviathan the drums of Dark Gods. Un buon ascolto in definitiva, che purtroppo si perderà nella marea di uscite underground e verrà ricordato solo dai die-hard fans.

Tracklist
1. Hikikomori
2. Nasty, Brutish
3. Cosmos Antinomos
4. Prosector
5. Old Maid
6. Long Lost Friend
7. Rückenfigur
8. Polly Vaughn
9. Drums of Dark Gods

Line-up
Sharad – Bass
Joshy – Drums
Brendan – Guitars
Orion – Vocals
Tim – Guitars

ILSA – Facebook

The Crystal Flowers – Crystallized

I fiori di cristallo ornano ancora oggi, come negli anni a cavallo tra i 60′ e 70′, il collo degli amanti della cultura rock di quel periodo, delicati ed eleganti ad un primo sguardo, ma resistenti agli impulsi elettrici dell’hard rock e del blues.

I fiori di cristallo ornano ancora oggi, come negli anni a cavallo tra i 60′ e 70′, il collo degli amanti della cultura rock di quel periodo, delicati ed eleganti ad un primo sguardo, ma resistenti agli impulsi elettrici dell’hard rock e del blues.

La loro arma migliore è il ritmo, un costante fiume di note che sono il di quel rock divenuto in quegli anni il genere più importante sia a livello musicale che sociale.
E i The Crystal Flowers il rock duro infarcito di atmosfere rhythm and blues lo sanno suonare come meglio non si potrebbe, regalandoci poco più di mezzora di grande musica che ferma il tempo e comincia a far scorrere il calendario al contrario, tornando ai tempi delle grandi kermesse musicali in parchi newyorkesi, su qualche isoletta britannica o semplicemente in piccole città rurali come la storica Bethel.
Crystallized non è affatto una mera operazione nostalgica, bensì un sincero e coinvolgente tributo ai nomi che più hanno segnato la storia della nostra musica preferita, con l’opener Ain’t Alright che ci dà il benvenuto tra il profumo inebriante dei petali cristallizzati di fiori color rosso sangue.
Sanguigni, appunto, come il blues, il quale accoppiandosi con il rock diventa una micidiale macchina ritmica, supportata da riff e sfumature maleducate quando entrano in noi senza permesso e ci fanno muovere il piede a tempo con le note sprigionate dagli strumenti, come in Unturned, Calling o la magnifica Broken Glass.
Oggi molte delle atmosfere di Crystallized vengono catalogate come southern, genere cool di questi tempi, ma è fondamentale sottolineare che quello che troviamo nell’album è solo rock’n’roll, suonato da questi esperti musicisti con la dovuta sagacia e senza alcun timore di apparire poco originali.
Troverete così un po’ di Rolling Stones, e poi Led Zeppelin, Cream, Lynyrd Skynyrd, Bob Dylan e i The Beatles: tutto sarà riflesso in un mazzo di fiori di cristallo e sarà bellissimo avere il privilegio di osservalo e, soprattutto, di ascoltarlo.

Tracklist
1.Ain’t alright
2.Unturned
3.Calling
4.Me Changed
5.Wastin’ Vision
6.Goin’
7.Greed
8.Broken Glass
9.Next To Nothing Next To All
10.Within Our Days

Line-up
Fauxcul – Voice and Guitars
Steve – Guitars
Grit – Bass
Moran – Drums

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