Devil Drone – Erebo

Un gioiellino estremo questo Erebo, efficace ed intenso, dove tutto viene raso al suolo da una carica adrenalinica e senza compromessi.

Il ronzio del diavolo, oltre che essere di natura malvagia non può che tramutarsi in un devastante esempio di metal estremo, death metal e thrash alleati e al servizio dell’oscuro signore degli inferi.

Ne esce una bomba metallica scagliata dal Monte Amiata (Toscana) ed esplosa un paio di anni fa, ora tornata a fare danni sotto l’ala del Mazzarella Press Office che ne cura la distribuzione.
I Devil Drone sono un quartetto fondato nel 2009 ad Arcidosso ed Erebo, il primo lavoro, risale appunto al 2014: una mezzora di malvagità death/thrash direttamente dall’inferno, undici brani a formare un muro di granito estremo, tecnicamente perfetto, violento e travolgente che amalgama tradizione death metal con moderne soluzioni thrash ed il risultato è di fronte a noi.
Erebo è il regno del caos, dell’oscurità, il luogo ultraterreno dove risiede il male, e di male la musica del gruppo ne scaturisce tanta, con questo lavoro che è un susseguirsi di brani devastanti, vari e fantasiosi nelle ritmiche che passano da potenti e monolitiche parti death, a mitragliate thrash metal, mentre un growl rabbioso e cangiante ci accompagna in questo malefico caos primordiale.
Un gioiellino estremo questo Erebo, efficace ed intenso, dove non ci si perde in solos (la sei corde accompagna e potenzia le ritmiche) e tutto viene raso al suolo da una carica adrenalinica e senza compromessi.
Valorizzano il tutto due geniali citazioni tratte da un paio di film dei primi anni settanta: la prima chiude il brano The Avenger ed è estratta dal capolavoro di Stanley Kubrick, Arancia Meccanica, mentre la seconda proviene da Continuavano A Chiamarlo Trinità, dove è chiara la voce del compianto Bud Spencer e apre la conclusiva Trip.
Sta a voi scoprire le frasi in oggetto, anche perché perdersi un album del genere è peccato mortale … non si sa mai che il diavolo venga a sussurrarvi in un orecchio.

TRACKLIST
01. The Avenger
02. Stand out
03. The new ruin
04. Stampede
05. Shadow of the Beast
06. Revolution
07. Hearth Fury
08. Wreck!
09. Vampire Eyes
10. Cancer
11. Trip

LINE-UP
Giordano Felici Fioravanti – bass
Luca “Belial” Mazzolai- Vocals
Fabrizio Guerrini – Guitars
Leonardo Farmeschi – drums

DEVIL DRONE – Facebook

INFERNAL ANGELS

“Ars Goetia”, il loro ritorno sotto l’egida della My Kingdom Music !

Gli INFERNAL ANGELS, una della più oscure e intransigenti band italiane Black Death Metal, stanno per tornare con il loro quarto full-length intitolato “Ars Goetia”.

Il nuovo album, previsto in uscita  il 20 gennaio 2017, è un concentrato di Black Metal con sfumature Death e vedrà, quali ospiti,  3 grandi personaggi della scena italiana, Mancan degli ECNEPHIAS, Lorenzo Sassi dei FROSTMOON ECLIPSE and Snarl dei BLACK FAITH.

Un must for tutti i fans di Dark Funeral e Belphegor.

info:
– MY KINGDOM MUSIC – WebsiteFacebook
– INFERNAL ANGELS – Facebook

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infernal

Pain – Coming Home

Un album che sintetizza il credo musicale odierno del musicista svedese, un rock industriale dal piglio melodico, dark nelle atmosfere ma arioso nello spirito.

Peter Tägtgren si può certamente considerare insieme a Dan Swanö la mente più geniale del panorama metal scandinavo: leader dei seminali Hypocrisy, con cui ha scritto una serie di lavori irrinunciabili per gli amanti del death metal nord europeo prima, ed ora assoluto protagonista delle divagazioni elettro/industrial dei Pain, con in mezzo centinaia di album prodotti che ne hanno fatto una firma prestigiosa anche dietro alla consolle.

Tägtgren torna con i suoi Pain dopo la collaborazione con Till Lindemann, vocalist dei Rammstein, e Coming Home già dal titolo si preannuncia come un ritorno al progetto che ad oggi considera il solo mezzo per liberare la sua creatività, lontano dai dettami estremi di una band storica come gli Hypocrisy, focalizzandosi su di un genere che possiamo sicuramente considerare la strada ultima del musicista e produttore svedese.
Aiutato da Clemens Wijers per le orchestrazioni (Carach Angren), Tägtgren aggiunge un altro tassello alle fondamente della casa Pain con un lavoro godibilissimo, ultra melodico, ma ritmicamente pesante di quegli umori industriali che indubbiamente portano in terra tedesca e nel cortile della casa dei Rammstein.
Ma attenzione, dove il gruppo tedesco mantiene la sua più fortunata caratteristica, nell’andamento marziale e freddo, la musica dei Pain si nutre di umori dark wave, comuni al rock ottantiano, con l’occhiolino strizzato al pop di quegli anni, fortunato non solo per il metal ma pure per la musica mainstrem.
Ne esce come sempre un lavoro difficile da digerire per i fans storici del Tägtgren cattivo ed estremo dietro al microfono degli Hypocrisy: Coming Home risulta colmo di brani dal piglio radiofonico, una raccolta di episodi godibili in qualsiasi club sparso per le vie notturne delle città europee, meravigliosamente orchestrali, dannatamente irresistibili e commerciali come forse non i Pain prima d’ora non avevano mai prodotto.
Un album che sintetizza il credo musicale odierno del musicista svedese, un rock industriale dal piglio melodico, dark nelle atmosfere ma arioso nello spirito e A Wannabe, Pain In The Ass e Black Knight Satellite ne sono il più fulgido esempio.

TRACKLIST
01 – Designed to Piss You Off
02 – Call Me
03 – A Wannabe
04 – Pain in the Ass
05 – Black Knight Satellite
06 – Coming Home
07 – Absinthe-Phoenix Rising
08 – Final Crusade
09 – Natural Born Idiot
10 – Starseed

LINE-UP
Peter Tägtgren – vocals, guitar, programming

David Wallin – drums
Michael Bohlin – guitar
Johan Husgavfel – bass

PAIN – Facebook

Negură Bunget – Zi

Zi è un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.

Con Zi i Negură Bunget giungono alla seconda parte della programmata trilogia transilvanica: il precedente Tau aveva evidenziato l’avvio di un progressivo distacco da quelle radici black che avevano accompagnato la band nello scorso decennio e, in buona parte, anche nel primo degli album che vedeva il solo Negru alle redini della band (Virstele Pamintului).

Tale aspetto si accentua ancor più oggi, relegando quasi ad una presenza marginale le pulsioni più estreme: il lavoro sposta la barra in maniera decisa verso il folk, materia che la band rumena ha sempre interpretato in maniera unica; tutto ciò comporta, rispetto al predecessore, una minore fruibilità, visto che la componente etnica qui non viene mai interpretata in maniera giocosa o ritmata, ma esprime un sentire che va a fondere la tradizione popolare con quella spiritualità che, per i Negură Bunget, è sempre stata una componente essenziale.
Rispetto a Tau non si può comunque fare a meno di rimarcare una minore fluidità, derivante soprattutto da un approccio che mette ancor più ai margini la forma canzone, optando per strutture cangianti che tendono ad esaltare gli aspetti più mistici ed evocativi del sound.
Resta il fatto che, per ascoltare oggi un album dei Negură Bunget, bisogna essere dotati di una buona dose di curiosità e di apertura mentale, oltre che di innata passione per sonorità ancestrali che traggono linfa dalle radici popolari: senza dubbio quello della band rumena è un percorso catartico e spirituale che non ha certo quale primo obiettivo quello di rilasciare musica accattivante e banale e, proprio per questo, Zi è un album che cresce sicuramente dopo molti ascolti, rivelandosi per quello che è, ovvero un buonissimo lavoro che si attesta comunque leggermente sotto a Tau.
Segnalando come episodi migliori i due centrali, Brazdă dă foc e Baciul Moșneag, appunto quelli in cui le due anime della band paiono convivere in maniera più equilibrata, non disdegnando neppure aperture melodiche più canoniche come il bellissimo assolo di chitarra nel finale della seconda delle due tracce, non si può fare a meno di notare come la tensione emotiva, che in Tau non veniva mai meno, qui si manifesta in maniera molto altalenante, compressa da un’attenzione per la forma che talvolta finisce per sacrificare la sostanza.
I Negură Bunget esibiscono così con maestria il loro inimitabile brand ed è innegabile che, preso singolarmente, Zi sia un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.
Un piccolo passo indietro che non inficia in alcun modo il meritato status di culto acquisito dalla band rumena, autrice di una delle espressioni artistiche più peculiari in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1. Tul-ni-că-rînd
2. Grădina stelelor
3. Brazdă dă foc
4. Baciul Moșneag
5. Stanciu Gruiul
6. Marea Cea Mare

Line-up:
Negru – Dulcimer, Tulnic, Toacă, Xylophone (2002-present)
Ovidiu Corodan – Bass
Petrică Ionuţescu – Flute, Nai, Kaval, Tulnic
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Vartan Garabedian – Percussion, Vocals
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing

NEGURA BUNGET – Facebook

Darkwalker – The Wastelands

Un buon lavoro nel suo complesso che potrebbe anche fare breccia se siete affezionati alle varie correnti statunitensi sviluppatesi nel rock degli ultimi venticinque anni.

Devono ancora arrivare i tempi di vacche magre per i suoni hard rock ispirati agli anni settanta, soprattutto quelli che al rock classico aggiungono atmosfere stoner, direttamente dall’America da sudare e sballare nei deserti infuocati della Sky Valley.

Il trio al debutto su Sleaszy Rider, label greca attiva come non mai in campo underground, dal metal classico ai suoni alternative, si chiama Darkwalker ed il suo primo lavoro è un buon esempio delle sonorità descritte, direttamente dagli States.
Ispirato nei testi all’opera letteraria La Torre Nera, una serie di romanzi di Stephen King molto famosa, che unisce fantasy, fantascienza, horror e western, The Wastelands si aggrega in posizione defilata ma nobile alle uscite del genere in questo 2016, confermando l’ottimo stato di salute che godono queste sonorità.
In verità il gruppo americano lascia che le ispirazioni settantiane siano appena marcate, e da band cresciuta a pane e rock alternativo imprime nel sound una forte impronta post grunge, ipnotizzata da una delicata vena psichedelica e martoriata da potenti dosi di groove stoner novantiano.
Intelligentemente il gruppo, pur ispirandosi ad un’opera prolissa, spende tutta la sua energia in poco più di mezzora, un bene visto che qualche difettuccio non manca nell’autonomia generale del disco.
Voce e chorus per esempio, pur ricordando i Corrosion Of Conformity era Blind, risultano leggermente monocordi, un dettaglio sicuramente, visto che The Wastelands non perde punti, dall’alto del suo potenziale ritmico che risulta il punto di forza del gruppo.
Manca leggermente quel fascino da jam acida che in molti album fa la differenza, puntando sul feeling e l’immediatezza delle opere orientate verso i suoni alternative, confermato da brani ritmati e molto attenti al classico meccanismo strofa-ritornello-strofa, niente di male visto la buona presa di tracce come il singolo Black Thirteen, The Dark Tower e Drawing Of The Three, mentre la palma di miglior brano del disco va alla sabbathiana (ed unica concessione al periodo seventies) The Battle Of Devar-Toi.
Un buon lavoro nel suo complesso che potrebbe anche fare breccia se siete affezionati alle varie correnti statunitensi sviluppatesi nel rock degli ultimi venticinque anni.

TRACKLIST
1. Black Thirteen
2. Gunslingers
3. The Dark Tower
4. Memories Of Another Life
5. Crimson King
6. Drawing Of The Tree
7. The Battle Of Devar-Toi
8. Black Thirteen (bonus video-clip)

LINE-UP
Derek
Hector
Dave

DARKWALKER – Facebook

Dopethrone – 1312

Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.

Un piccolo regalo dei Dopethrone, tre tracce in free download in attesa del loro nuovo disco.

I Dopethrone prendono al volo le possibilità che offre la rete nel condividere musica con gli utenti, ed ecco un ep in download libero per saziare la voglia del gruppo canadese. Tre canzoni con la consueta carica di marcezza e distorsione che contraddistingue questo gruppo, uno dei migliori in campo stoner e sludge. I Dopethrone hanno un passo veramente importante, un incedere distorto e possente, che lascia solo fumo e macerie. Questo ep non offre nulla di nuovo, ma con il trio non si cerca la novità, ma la sostanza e qui di sostanza ce n’è molta. Le storie sono quelle del disagio che vive ad ogni latitudine, anche nell’apparentemente pulito Canada. Qui giacciono oscure forze che sono bene evidenziate dai Dopethrone. Questo ep è forse ancora più decadente e sludge di Horchelaga, il loro ultimo full length del 2015, dedicato all’omonimo quartiere di Montreal, dove tutto è in vendita. Un gruppo che si conferma sempre ad alti livelli, con uno stile ben riconoscibile, a differenza di molti altri gruppi dello stesso genere, che sta diventando molto ripetitivo, ma finché ci sono i Dopethrone non c’è pericolo. È anche gratis dai, voi dovete solo comprare la droga.

TRACKLIST
1. SHOT DOWN
2. DRIFTER
3. SKAG REEK

DOPETHRONE – Facebook

Baphomet’s Blood – In Satan We Trust

Grande band ed album che ci riconcilia con il genere, per i metallari dai gusti old school da non perdere assolutamente.

Una vera bomba l’ultimo lavoro degli speed thrashers nostrani Baphomet’s Blood, da più di dieci anni in attività con la loro proposta old school e fortemente anticristiana, una delle migliori band per attitudine ed impatto nel genere, alfieri di quel modo di suonare metal ben saldo nei cuori dei metallari di origine controllata.

Il gruppo arriva quest’anno al quarto album sulla lunga distanza, sette anni dopo Metal Damnation, anche questa volta licenziato esclusivamente in vinile, confermando il totale rigetto per il supporto ottico e la devozione per qualsiasi forma old school.
In Satan We Trust risulta un girone infernale di speed/thrash, suonato alla velocità della luce, con iniezioni di furibondo hard’n’roll, irriverente, sfrontato e dannatamente coinvolgente, un pesante ed enorme dito medio innalzato contro la società ed il cristianesimo.
Partono con un ghigno i Baphomet’s Blood e ci fanno aspettare qualche minuto prima che l’inferno sulla terra esploda, l’opener Commando of the Inverted Cross è composta da una prima parte che funge da intro a tutto il lavoro, voce femminea posseduta da qualche demone dall’alta gradazione alcoolica che sfocia in un mood epico orchestrale prima che gli strumenti entrino in gioco per iniziare il vero e proprio massacro sonoro.
Testi che definire blasfemi è un eufemismo sono decantati su un armageddon metallico dove Venom e Motorhead sono i principali istigatori delle nefandezze perpetrate dal gruppo marchigiano, che gioca sporco musicalmente parlando.
Infatti quello che ad un primo impatto risulta un sound estremo di forte impronta speed, viene levigato dall’impronta rock’n’roll motorheadiana, con Necrovomiterror che ricorda il compianto Lemmy e una struttura del sound che tiene la forma canzone per le briglie, senza sconfinare mai nel caos senza capo ne coda.
Mica roba da poco per un disco che mantenendo forte la sua anima old school si avvale di una produzione cristallina il giusto per non perdere neanche una malefica nota di tracce dall’alto tasso evil come Hellbreaker, Triple Six e Whiskey Rocker.
L’album si chiude con la cover di Eleg, brano degli ungheresi Farao, gruppo sconosciuto ai più, che conferma l’attitudine fortemente underground e per nulla scontata del gruppo marchigiano.
Grande band ed album che ci riconcilia con il genere, per i metallari dai gusti old school da non perdere assolutamente.

TRACKLIST
1 – Commando of the Inverted Cross
2 – In Satan We Trust
3 – Hellbreaker
4 – Underground Demons
5 – Triple Six
6 – Infernal Overdrive
7 – Whiskey Rocker
8 – Eleg (Farao cover)

LINE-UP
Necrovomiterror – voce/chitarra
Angel Trosomaranus – chitarra
S.V. Goat Necromancer – basso
S.R. Bestial Hammer – batteria

BAPHOMET’S BLOOD – Facebook

ANTICLOCKWISE

Il secondo album “Raise your Head” in uscita il 16 dicembre via Revalve Records

Gli Anticlockwise rivelano il titolo del loro secondo album, “Raise Your Head”, in uscita via Revalve Records il 16 Dicembre 2016 e registrato ai Domination studio di Simone Mularoni che sarà in veste di ospite speciale eseguendo il solo del brano “Into the R.A.M”.
L’album è una sorta di concept di 9 brani Prog/thrash il cui filo conduttore riguarda il rapporto tra l’uomo e il mondo virtuale della rete, e come i social network e l’uso ormai obbligatorio di tutti i dispositivi collegati, non ci fanno alzare mai alzare la testa dagli smartphone e lo stress che genera quando “il collegamento” manca .
“la necessità di un asettico pollice in su, il “Like” è il nostro nuovo farmaco.”
Simone Mularoni (DGM) è ospite nel brano”Into the R.A.M.” con un solo

l’anteprima dell’intero dell’album su: www.revalverecords.com

Seguite la band su Facebook

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Pay For Pleasure – Pay For Pleasure

Un viaggio nel mondo estremo, così viene presentato l’album: dalla fotografia, al disegno, fino alla musica e ai disturbi psichici, descrivendo un mondo parallelo pregno di atmosfere disturbanti.

I Pay For Pleasure sono un progetto del musicista Anuar Arebi , in questo caso polistrumentista, aiutato su questa sua prima opera da tre vocalist che si alternano sui vari brani (Michele Montaguti, Matteo Marteli e Stefania Martin).

Un viaggio nel mondo estremo, non solo musicale, così viene presentato l’album, un immersione passo dopo passo, brano dopo brano nell’estremismo visto nell’arte in generale: dalla fotografia, al disegno, fino alla musica e ai disturbi psichici, descrivendo un mondo parallelo pregno di atmosfere il più disturbante possibile.
Arebi per descrivere il concept, gioca con una buona fetta di generi che compongono il mondo del metal estremo ed l’ascolto se ne giova risultando vario, oscuro, devastante ma variopinto in arcobaleni dalle sfumature nere come la pece.
Non ci fa mancare nulla il polistrumentista nostrano, passando dal death metal old school, a sonorità più moderne, da brani dove comanda il thrash metal, ad altri dove esce un’anima evil e gotica, tra urla di dolore infinito, torture mentali e terrore profondo.
Il bello è che le tracce mantengono comunque una potenza ed un impatto devastante, un massacro dove la sei corde spara solos al fulmicotone ed i vocalist imprimono di pazza rabbia e sofferenza terribile le atmosfere disturbanti di Pay For Pleasure.
Tra i brani, molti davvero interessanti, The Hanged Man è un piccolo gioiellino estremo, cantata da Matteo Marteli con una forza interpretativa notevole.
Da segnalare la cover di Battery dei Metallica posta prima della conclusiva atmosfera gotica di 25, brano che conclude, accompagnato dalla voce eterea di Stefania Martin, questo affascinante lavoro.

TRACKLIST
1.Matter to Energy
2.The Judgment
3.Burning Times of This Anxiety
4.Daze Suffocation
5.Everlasting Pain
6.Blasted Heart
7.The Hanged Man
8.Carnage Rhapsody
9.State of Insanity (Disturbed Bed Rest)
10.Battery
11.25

LINE-UP
Anuar Arebi – Guitars, Bass, Keyboards, Drums, Programming, Vocals (additional)

Stefania Martin – Vocals
Michele Montaguti – Vocals, Lyrics
Matteo Marteli – Vocals

PAY FOR PLEASURE – Facebook

Rest – Rest

Le premesse sono buone, anche perché è netta la sensazione che i Rest siano intenzionati a proporre anche in futuro molto di più rispetto a un ordinario black hardcore sparato alla massima velocità.

I Rest sono un nuovo interessante progetto immaginato da Alessandro Coos (Ashes of Nowhere) e realizzato con l’ausilio di Mattia Revelant (batteria), Efis Canu (voce) e Marco Zuccolo (basso).

Questo ep autointitolato, pur nella sua brevità, mostra una band capace di trasmettere una potente urgenza espressiva tramite un black hardcore per lo più feroce e diretto, con la sola eccezione della traccia conclusiva V, molto più elaborata e rallentata, che apre un nuovo stimolante filone compositivo da sfruttare magari più avanti.
Per il resto è una furia iconoclasta a pervadere ogni brano, con un approccio diretto ed efficace nella sua organicità, e la timbrica di Canu (vocalist degli Inira) ad accentuarne l’impronta hardcore, anche se già in IV i ritmi si fanno relativamente più controllati, prima di sfociare nella già citata anomalia costituita dalla traccia conclusiva.
Le premesse sono buone, anche perché è netta la sensazione che i Rest siano intenzionati a proporre anche in futuro molto di più rispetto a un ordinario black hardcore sparato alla massima velocità.

Tracklist:
1.I
2.II
3.III
4.IV
5.V

Line-up:
Alessandro Coos – guitar
Mattia Revelant – drums
Efis Canu – vocals
Marco Zuccolo – bass

REST – Facebook


Them – Sweet Hollow

Se accuserete l’album di avere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare

Prendete un manipolo di musicisti provenienti da varie scene metalliche, tutti con la passione per la musica del re diamante, formate un supergruppo e dategli il nome di un famoso classico della discografia del singer danese (Them), chiudeteli in uno studio per un po’ di mesi e quando le porte si apriranno, usciranno con un lavoro bellissimo incentrato sulle sonorità tipiche del King Diamond style, ma con l’aggiunta del loro assoluto talento.

Kevin Talley ( ex di una miriade di gruppi tra cui Six Feet Under, Suffocation, Chimaira e Dying Fetus), Richie Seibel ( Ivanhoe, Lanfear,), Troy Norr (Coldsteel), Markus Ullrich (A Cosmic Trail, Lanfear, Septagon), Mike LePond ( Symphony X ed altre mille band) e Markus Johansson, insieme uniti per glorificare la musica metal horror di King Diamond, dopo il promo ep uscito anch’esso quest’anno, tornano con un album nuovo di zecca, ed il risultato farà spellare le mani agli amanti di pietre miliari del metal come appunto Them, Abigail e compagnia orrorifica.
Sweet Hollow è ovviamente un concept (e non poteva essere altrimenti) incentrato sul viaggio di un uomo tra sfortunati eventi e circostanze misteriose, raccontato con tutti i crismi dello storico singer dei Mercyful Fate, con tanto di cantato in falsetto ed interpretazione imoeccabile di Troy Norr, cantante dei Coldsteel e mente dietro a questo progetto.
Ad impreziosire il sound che, chiariamolo, è devoto in tutto e per tutto allo stile di Diamond, ci sono le prove dei musicisti, veri maestri del proprio strumento, alle prese con uno stile che ha fatto storia.
Sweet Hollow non si accontenta però di copiare lo spartito del re diamante, ma nei vari brani sono ben presenti le caratteristiche insite nel background dei nostri, così che possiamo trovare ottime aperture melodiche di intricato prog metal, sfuriate ritmiche dal sapore estremo, teatrali atmosfere evil, incorniciate con solos di puro heavy metal americano che, insieme al suo omologo  europeo,  accompagnano il protagonista nel suo tragico ed avventuroso viaggio.
Detto di una prova spettacolare del singer (che fondò il gruppo nel 2008 proprio per coverizzare le opere dei king Diamond), Sweet Hollow piacerà non poco ai fans, l’ottimo songwriting dà modo all’album di brillare, impreziosito da una raccolta di brani che a tratti entusiamano e tra cui spiccano le varie Forever Burns, Ghost In The Graveyard e Dead Of Night.
Se accuserete l’album di possedere un sound derivativo avrete scoperto l’acqua calda, lasciate perdere le solite menate da scienziati metallici e godetevi questi cinquanta minuti scarsi di heavy metal horrorifico e spettacolare… punto.

TRACKLIST
1. Rebirth
2. Forever Burns
3. Down The Road To Misery
4. Ghost In The Graveyard
5. The Quiet Room
6. Dead Of Night
7. FestEvil
8. The Crimson Corpse
9. Blood From Blood
10. The Harrowing Path To Hollow

LINE-UP
Kevin Talley – Drums
Richie Seibel – Keyboards
Troy Norr – Vocals
Markus Ullrich – Guitars
Mike LePond – Bass
Markus Johansson – Guitars

THEM – Facebook

Hryre – From Mortality To Infinity

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

I ragazzi inglesi avevano esordito nel 2014 con un buon ep, ma qui esprimono tutta loro potenza, e la loro visione del black metal. Nel loro sound convergono elementi del black metal classico, come una buona dose di death metal, che costruisce l’ossatura del loro suono. Il disco è molto compatto e potente, con alcuni momenti davvero anni novanta che faranno al gioia di molti. Il loro obiettivo è esplicito, ovvero diventare la migliore band inglese di black metal e direi che sono sulla buona strada. Tutto il disco è studiato bene e risulta originale e peculiare. Il black metal può essere un pedissequo copiare o straordinaria innovazione, ma forse la cosa più difficile è trovare la propria via, cosa che invece gli Hryre sanno fare molto bene e ce lo mostrano in questo disco, in cui ogni nota è curata benissimo, con la ricerca del migliore suono possibile, e ne viene fuori un’opera potente, equilibrata e mai noiosa, con composizioni ben la di sopra della media. Il disco è di una rara intensità, ma ha anche momenti epici davvero notevoli, con tocchi di folk ed il tutto funziona molto bene. La migliore band black metal inglese e non solo.

TRACKLIST
1.Inauguration
2.Devastation of Empires
3.Plagues on Ancient Graves
4.Alive Beneath the Surface
5.Cast into Shade Part One (Farewell)
6.Cast into Shade Part Two (Black Sun)
7.Lamenting the Coming Dread
8.Regressed State of Malice
9.Return to the Earth

LINE-UP
Rick Millington – Vocals, Guitar & Bass
Nathan Patchett – Guitar & Bass
Gareth Hodgson – Drums
Michael Blenkarn – Keyboards (Featured Special Guest)

HRYRE – Facebook

Red Riot – Fight

Anche se di corta durata Fight dice già parecchio sull’impatto e sulla qualità della musica dei Red Riot

It’ s hard to live through blood and lies, but after all we fight, fight, fight!

Una dichiarazione di guerra, un urlo sguaiato all’insegna dello street sleazy metal, un ritorno alla carica e all’energia del metal irriverenete degli anni ottanta, ma con l’aggiunta di una neanche troppo velata carica thrash.
Il primo ep dei Red Riot mi piace affiancarlo al debutto dei mai troppo osannati L.A Guns di Tracy Guns, album che più di ogni altro posò le fondamenta per tutto il movimento street metal, lontano dai lustrini patinati di altre realtà con piglio radiofonico e tormentato da una carica punk che sinceramente non troverete neppure negli album di maggior successo, neppure in quelli dove facevano bella mostra di sé pistole e rose.
La differenza sostanziale è che, oltre allo scorrere del tempo, la band campana, al posto delle adrenaliniche influenze punk, potenzia il proprio sound con esplosioni di thrash metal, così da far risultare i tre brani in scaletta delle esplosive e pericolosissime fialette di nitroglicerina sballottate per le strade del tempo.
Attivo da un paio d’anni, con qualche aggiustamento da annoverare nella line up, il gruppo a luglio di quest’anno ha avuto l’onore di partecipare al primo festival organizzato dalla Volcano Promotion, il Volcano Rock Fest dove hanno diviso il palco, tra gli altri, con i Teodasia, i metal progsters DGM e i fenomenali hard rockers Hangarvain, non male per un gruppo con tre soli brani registrati.
Si diceva che la proposta del gruppo si discosta dallo sleazy metal da classifica, per un approccio molto più aggressivo, sin dall’opener Fight, passando per Squealers e Who We Are, l’irriverenza tipica del genere è potenziata da ritmiche potenti e veloci, solos di estrazione heavy e vocals che richiamano non poco l’attitudine thrash, così come i chorus scanditi come inni da battaglia metallica on stage.
Menzionare i Motorhead per il ruvido rock’n’roll punkizzato e ribelle di Squealer è doveroso, così come le smanie alternative che accompagnano lo street groove di Who We Are, tenuto a bada dal gruppo con solos che si rifanno alla scuola thrash statunitense, in un ottimo e roboante brano che chiude questo ep.
Anche se di breve  durata, Fight dice già parecchio sull’impatto e la qualità della musica dei Red Riot, una band da tenere d’occhio in un futuro che promette fuochi d’artificio.

TRACKLIST
01. Fight
02. Squealers
03. Who We Are

LINE-UP
Alpha Red- Voce
Max Power- Chitarra
JJ Riot- Chitarra
Lex Riot- Basso
Be/eR- Batteria

RED RIOT – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=MabsrUnRh38

Stagewar – Killing Fast

L’attitudine non manca, i suoni sono piuttosto grezzi, non caotici e la tecnica sufficiente per sostenere questo time warp metallico dal sapore molto… Heavy ’n’ Roll!

Secondo full-length per la band tedesca, attiva dal 2003, all’insegna di un thrash metal infarcito di influenze che vanno dal primo Suicidal Tendencies, passando per i D.R.I. di “Crossover” e i primi Anthrax e Megadeth.

Cosa hanno da dire gli Stagewar nel 2016? Personalmente mi sfugge il valore “artistico” e il significato di band che ripercorrono il cammino già esplorato infinite volte dai capostipiti del genere proposto.
Killing Fast inanella una serie di brani perlopiù speed che hanno una durata media di 2 minuti e mezzo e nei quali sia le ritmiche che le parti soliste hanno un andamento qualitativo molto altalenante. Ad esempio il trittico Killing Fast, Trapped In Life e No Place To Go attacca degnamente con un thrashcore ficcante, dal suono grezzo e molto americano. Poi arrivano Isolated e Multiple Murder Death Killer e, se il déjà-vu non vi arreca particolare disturbo, potrete godere con il loro incedere molto più classicamente heavy. Leggermente fuori dagli schemi precedenti risulta The Song I Wrote For You, song imbastardita da un’attitudine che oso definire sleazy (!), specie nelle parti di chitarra solista. Le schegge metalcore di My Place My Rules e No Fucks Given divertono, poi il midtempo di Inside Your Head vi trasporterà in zona mosh. Chiude l’omonima Killing Fast con i suoi ben 4 minuti introdotti da un riff cupo alla The Thing That Should Not Be ma che accelera bruscamente con un riff prevedibilissimo. Chiedo: meglio una ricerca d’identità o le cover band? Non voglio essere troppo severo con questi volenterosi ragazzi, quindi è doveroso rimarcare che l’attitudine non manca assolutamente, i suoni sono piuttosto grezzi e non caotici e la tecnica sufficiente per sostenere questo time warp metallico dal sapore molto… Heavy ’n’ Roll!

TRACKLIST
1. Living Hell
2. Trapped in Life
3. No Place to Go
4. Isolated
5. Multiple Murder Death Killer
6. The Song I Wrote for You
7. My Place My Rules
8. No Fucks Given
9. Still Alive
10. Waste of Time
11. Inside Your Head
12. Crash Course
13. Killing Fast

LINE-UP
Dominik Dezius – Guitars, vocals
Kimon Roggenbuck – Guitars
Thomas Fischer – Bass
Josef Schweng – Drums

STAGEWAR – Facebook

Winterheart – Nothingness

Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.

Terzo album per gli ungheresi Winterheart, band che si cimenta con un black metal atmosferico ma dai tratti sovente molto vicini al depressive.

In effetti, il senso di disperazione che viene evocato con buona continuità dal gruppo di Budapest è accentuato da vocals che, in più di un caso, mostrano un chiaro stampo DSBM, talvolta spinte fino all’eccesso come in Kill Me.
Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.
Ciò consente di godere appieno delle diverse sfumature, in primis un buon lavoro chitarristico che non si limita al consueto tremolo offrendo, invece, più di uno spunto notevole di matrice solista od acustica.
Tra i brani spicca Cancer, grazie ad un andamento vario e vicino per attitudine ai lavori più datati dei Nocte Obducta, e la successiva Forgive Me, dall’incedere doloroso segnato da una slendida linea melodica, ma non sono da sottovalutare neppure le altre tracce, come Aldozat, cantata in madre lingua. 
Insomma, Nothingness è davvero un lavoro di pregio che svolge appieno il suo compito, ovvero quello di trascinare l’ascoltatore nel gorgo di nichilistico sconforto di cui i suoni dei Winterheart sono intrisi.

Tracklist:
1. Intro
2. Áldozat
3. Kill Me
4. Drifting Away
5. Cancer
6. Forgive Me
7. Meghalok
8. Emlékek

Line-up:
Gábor Szalai – Vocals, Bass
Zsolt Géczy – Guitars
Péter Nagy – Drums
Ádám Tóth – Vocals, Guitars

WINTERHEART – Facebook

The King Must Die – Murder All Doubt

Il quintetto capitanato dal super tatuato vocalist Doggi ha scritto un gran bel lavoro, duro, aggressivo ed ultra heavy, pane per i fans del thrash che non disdegnano ascolti classici e moderni.

La scuola statunitense, specialmente quella della Bay Area, negli ultimi trent’anni ha forgiato un esercito di gruppi che hanno portato in termini di qualità e successo grosse soddisfazioni a tutto l’ambiente metallico.

Nei generi estremi come il death metal e il thrash, poi, possiamo sicuramente considerare la scena californiana come la patria di queste sonorità, in seguito amalgamate con altre sonorità creando ibridi più o meno riusciti.
Dopo gli anni d’oro con l’esplosione del thrash e di seguito quello del death metal, anche la costa californiana ha patito a livello di popolarità il successo dei suoni alternativi, ma ancora oggi continuano a nascere realtà che si muovono su territori old school, alcune come nel caso dei The King Must Die riuscendo a far convivere scuola classica ed attitudine moderna con ottimi risultati.
Sulla scia di gruppi come per esempio i Machine Head, band come il quartetto in questione riescono nell’intento di creare un sound che, pur scolpito nel passato, risulta moderno ed in linea con le sonorità più attuali, e l’esito è una mazzata di metallica dalle ritmiche e dai mid tempo scolpiti negli anni novanta, dai solos classici e melodici uniti a , botte adrenaliniche pregne di groove micidiale e, appunto, tanta attitudine moderna.
Il quintetto capitanato dal super tatuato vocalist Doggie, al secondo lavoro autoprodotto dopo l’esordio uscito due anni fa (Sleep Can’t Hide the Fear), ha scritto un gran bel lavoro, duro, aggressivo ed ultra heavy, pane per i fans del thrash che non disdegnano ascolti classici e moderni.
Il sound esplode in un tsunami di metallo potentissimo, tra sfuriate ritmiche old school e cadenzate marce moderne e dall’abbondante uso di groove: il vocalist si scaglia sul microfono regalando una prova tutta grinta e violenza e le chitarre ci abbattono con riffoni ultrà heavy, ora con solos melodici e ben incastonati nel sound tempestoso di questo Murder All Doubt.
Insomma, le varie In Blood, The Only Way We Bleed e Reflection Spills per esempio, oltre a risultare dei brani trascinati, sono la perfetta via di mezzo tra Testament, Machine Head e Suicidal Tendencies.
Al sottoscritto sono piaciuti e tanto, se vi ho incuriosito non vi resta che cercare Murder All Doubt e regalarvi una sferzata di adrenalina metallica perfettamente calata nel nuovo millennio.

TRACKLIST
1. Well Being
2. In Blood
3. Murder All Doubt
4. A New Hell You Embark
5. Choose Them Wisely
6. Reflection Spills
7. Broken
8. The Only Way We Bleed
9. For This We Live
10. These Later Years

LINE-UP
Scott Paterson – Bass
Corky Crossler – Drums
Kent Varty – Guitars
Mike Sloat – Guitars
Doggie – Vocals

THE KING MUST DIE – Facebook

Insil3nzio – Insil3nzio

La marcia in più che si rinviene in questo lavoro, rispetto a molti altri tentativi analoghi, la fa proprio lo spessore stilistico derivante da una maturità che impedisce di scivolare nei luoghi comuni, sia a livello lirico che compositivo.

Si dirà: ma non è il tuo genere, uno impelagato di norma nel doom più oscuro e funereo come può occuparsi di una band che propone un crossover di stili che, spesso, si spingono fin nei territori del famigerato rap ?

Faccio mio il motto di un bel disturbatore musicale dei nostri tempi, il mascherato Red Sky: “la musica è una” e, aggiungo io, la suddivisione per generi è più una necessità di incasellare ed ordinare le cose che è comprensibile nella logica di un un supermercato, un po’ meno se si parla di arte musicale
Così è molto bello scapocciare su brani che non disdegnano riff metallici perfettamente intersecati con pulsioni elettroniche sulle quali, poi, si stagliano le due voci, una rappata dalla timbrica non dissimile a Caparezza ed una più tradizionale. Una formula, questa, che non è in assoluto una novità, ma che di rado viene proposta così ben focalizzata e, sostanzialmente, priva di forzature nella (non facile) convivenza tra le sue varie anime.
Gli autori di tutto ciò sono i fermani Insil3nzio, una band composta da musicisti esperti che stanno cercando di imporsi in maniera graduale, senza fare passi più lunghi della gamba e cercando di ottenere la giusta visibilità tramite la partecipazione a vari contest, il che ha già consentito loro non solo di fregiarsi di diversi premi (sempre e comunque ambiti) ma soprattutto di condividere il palco con band di grande nome come Lacuna Coil e Deep Purple, sfruttando così al meglio l’occasione di mettersi in mostra di fronte a platee vaste.
Una bella differenza, anche a livello strategico, rispetto a gruppi di giovincelli che, presi dall’entusiasmo, sfornano musica magari in maniera compulsiva disperdendo le proprie idee ed ottenendo un’attenzione inversamente proporzionale rispetto alla quantità di materiale immesso sul mercato.
Questo ep autoprodotto comprende cinque brani emblematici del potenziale del gruppo marchigiano, con un picco rappresentato dal singolo Minotauro, brano per il quale è stato girato anche un video al quale partecipa l’attore Giorgio Montanini: qui troviamo ben rappresentate tutte le anime degli Insil3nzio che, partendo da una forma di rap anomala, inseriscono nervosi passaggi che vanno dal nu metal, al noise fino all’elettronica, il tutto senza mai perdere di vista l’idea di forma canzone.
Una formula che viene mantenuta sempre con una certa brillantezza anche nelle restanti tracce, con menzione d’obbligo per la composita e dirompente Ruggine, brano che possiede il miglior testo, peraltro in un contesto complessivo corrosivo e mai banale.
La marcia in più che si rinviene in questo lavoro, rispetto a molti altri tentativi analoghi, la fa proprio lo spessore stilistico derivante da una maturità che impedisce di scivolare nei luoghi comuni, sia a livello lirico che compositivo.
Per gli Insil3nzio, quindi, potrebbe essere molto vicino il momento di compiere il passo dell’album su lunga distanza, per provare a fare il colpo grosso a livello commerciale, visto che il loro sound sembrerebbe capace di accontentare ed attrarre fasce di ascoltatori trasversali ai diversi generi; insomma, non è poca la curiosità nei confronti delle mosse future di questo interessante combo marchigiano.

Tracklist:
1.Ruggine
2.Lou Reed
3.Minotauro
4.Fiore Violanet
5.Imbanditi

Line-up:
Marco Bagalini – batteria
Samuele Spalletti – basso / synth
Luca Detto – chitarra
Mirko Montecchia – voce
Andrea Braconi – voce

INSIL3NZIO – Facebook

Epica – The Holographic Principle

Una perfezione raggiunta passo dopo passo, album dopo album in un crescendo artistico che ha portato il gruppo a questo capolavoro.

Ecco il classico album che, ammettiamolo, mette in difficoltà chiunque si approcci all’ascolto con mire di giudizio da scrivere su di una pagina cartacea o quella virtuale di una webzine.

Non mancheranno le (a mio modo di vedere) scontate track by track e pure qualche giudizio non troppo positivo, rimane, sempre per il sottoscritto ovviamente, il sentore di essere al cospetto del disco symphonic metal definitivo, quello che in altre ere musicali, meno soggette all’usa e getta ormai abituale anche nel metal, si sarebbe posato sul gradino più alto del genere come esempio fulgido e spettacolare e ci sarebbe rimasto per sempre.
The Holographic Principle è un monumentale lavoro di settanta minuti, con il quale gli Epica sono andati oltre le più rosee aspettative: d’altronde, che la band della splendida sirena Simone Simons e dell’ex After Forever Marc Jansen avesse qualcosa in più lo si era capito già dai primi lavori, mantenendo un’ottima qualità in tutti gli album precedenti e alzando l’asticella ad ogni prova, fino ad arrivare al punto più alto, non solo della loro musica ma, probabilmente di tutto un genere.
Prodotto come al solito da Joost van den Broek assieme a Mark Jansen e mixato da Jacob Hansen, la nuova opera del gruppo olandese suscita emozioni, travolgendo con una valanga di note magniloquenti: le sinfonie registrate live dall’orchestra conferiscono un suono caldo, corposo e potente senza mettere in secondo piano le chitarre, anzi, le sei corde sono molto più presenti che sui lavori precedenti, grintose metalliche e affiancate da una sezione ritmica terremotante, così da esplodere all’unisono con la sontuosa parte orchestrale, la splendida voce della singer e chorus che entrano direttamente nell’anima.
I testi, che alternano argomenti terreni con la visione fisica e filosofica di Jansen, possono rappresentare un dettaglio per chi dà importanza solo all’aspetto musicale, ma nel contesto dell’album tutto appare perfettamente in equilibrio, una perfezione raggiunta passo dopo passo, album dopo album in un crescendo artistico che ha portato il gruppo a questo capolavoro.
La tradizione olandese che nel genere ha i suoi natali nei primi anni novanta, quando la scena dei Paesi Bassi sfornò le prime avvisaglie di quello che sarebbe diventato uno dei generi più amati dai fans, ha influito non poco sulla crescita degli Epica e non è un caso se ora incoroniamo proprio un gruppo di quelle parti come campione del metal sinfonico.
Se volete dei titoli di riferimento, questa volta lascio che sia The Holographic Principle a mostrarvi i suoi tesori, sappiate che siamo nella perfezione assoluta.
Disco dell’anno e tanti saluti dall’olimpo dove risiedono i grandi.

TRACKLIST
1. Eidola
2. Edge Of The Blade
3. A Phantasmic Parade
4. Universal Death Squad
5. Divide And Conquer
6. Beyond The Matrix
7. Once Upon A Nightmare
8. The Cosmic Algorithm
9. Ascension – Dream State Armageddon
10. Dancing In A Hurricane
11. Tear Down Your Walls
12. The Holographic Principle – A Profund Understanding Of Reality

LINE-UP
Mark Jansen – Guitars, Vocals
Coen Janssen – Keyboards
Simone Simons – Vocals
Ariën van Weesenbeek – Drums, Vocals
Isaac Delahaye -Guitars, Vocals
Rob van der Loo -Bass

EPICA – Facebook

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