Root – Kärgeräs – Return from Oblivion

Kärgeräs – Return from Oblivion è un album coinvolgente, probabilmente il migliore tra quelli editi dai Root nel nuovo millennio, e rappresenta una maniera personale e non inflazionata di interpretare la materia metallica.

Il traguardo del decimo album per i cechi Root rappresenta qualcosa in più rispetto a un semplice dato statistico: infatti, il gruppo guidato da quasi un trentennio da un mito del metal europeo come Jiří Valter (aka Big Boss) è a tutti gli effetti una di quelle realtà emerse prima dell’esplosione del black metal in Norvegia, appartenendo quindi alla genia delle band dedite a sonorità oscure, epiche ma non così estreme ed ancora legate ad un più tradizionale heavy metal.

I Root non sono notissimi dalle nostre parti e, in generale, non possono essere certo avvicinati per fama a Venom e Bathory, tanto per fare un esempio di band contigue per ispirazione e genesi, ma la considerazione di cui gode un personaggio come Valter nella scena europea è testimoniata dalla sua partecipazione come ospite su album di Moonspell e Behemoth, oltre ad essere stato chiamato dai Winterhorde ad interpretare il ruolo di voce narrante sul loro recente capolavoro Maestro.
E se non un maestro, il nostro è sicuramente uno dei decani dell’ambiente metallico ma, a giudicare dagli esiti non sembra proprio che l’età anagrafica costituisca un peso: infatti, il timbro caldo e profondo di Big Boss non è stato certo incrinato dal passare del tempo e ciò caratterizza ovviamente questo ultimo lavoro, che fin dal titolo si pone quale ideale seguito del concept album Kärgeräs, uscito esattamente vent’anni fa e considerato uno dei punti più alti raggiunti dai Root nel corso della loro lunga storia.
Rispetto a certe asprezze del passato, il sound appare decisamente meno ruvido, mettendo in luce un approccio maggiormente epico e folk, ovviamente sempre irrobustito da una massiccia dose di heavy metal.
Diciamo pure che, più dell’immarcescibile vocalist, i segni del tempo sono più visibili nella struttura musicale, ma ciò non deve essere inteso come un aspetto negativo, anzi: proprio il suo essere piacevolmente avulso da qualsiasi tentazione modernista, ammanta il lavoro di un fascino ulteriormente esaltato dalla carismatica interpretazione vocale di Valter e dal buon lavoro strumentale dei suoi compagni d’avventura.
E se, per piegarsi alle esigenze di quello che è pur sempre un concept, i Root indulgono più del solito in passaggi acustici e rarefatti, ciò non è certo un male, anche se i momenti migliori li riservano brani ben focalizzati ed incisivi come l’opener Life Of Demon e The Book Of Death.
Kärgeräs – Return from Oblivion è un album coinvolgente, probabilmente il migliore tra quelli editi dai Root nel nuovo millennio, e rappresenta una maniera personale e non inflazionata di interpretare la materia metallica.

Tracklist:
1. Life of Demon
2. Osculum Infame
3. Moment of Fright
4. The Book of Death
5. Black Iris
6. Moment of Hope
7. The Key to the Empty Room
8. New Empire
9. Up to the Down
10. Do You Think Is it the End?

Line-up:
Big Boss – Vocals
Alesh A.D. – Guitars
Igor – Bass
Paul Dread – Drums
Hanz – Guitars

ROOT – Facebook

Kosmokrator – First Step Towards Supremacy

Un passo avanti verso quello che potrebbe essere un full length sopra la media: aspettiamo fiduciosi e nel frattempo ci godiamo un altro rituale a firma Kosmokrator.

Avevamo conosciuto la musica dei black/deathsters belgi Kosmokrator un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del demo To The Svmmit, li ritroviamo oggi con un nuovo mini cd sempre licenziato dalla Ván Records che ci illumina sui passi avanti intrapresi dal gruppo.

Il quintetto, alle prese con un sound oscuro, devastante e pregno di atmosfere malvagie, con una produzione nettamente migliore del precedente lavoro, conferma la sua natura estrema e misteriosa con questi quattro brani racchiusi in First Step Towards Supremacy.
Più diretto e meno liturgico del suo blasfemo predecessore, l’album confida su un’attitudine dannata e naturalmente estrema dei musicisti coinvolti nel progetto, l’alternanza tra parti prettamente black e altre più death oriented sono sempre la principale caratteristica del combo di sacerdoti del male e, per merito di una buona registrazione, si coglie una buona tecnica strumentale, messa in secondo piano rispetto alle nere atmosfere di sacrale musica dallo spirito occulto.
Un gruppo tutto da scoprire e dalle ottime potenzialità, i Kosmokrator si rivelano come protagonisti di un metal estremo che, anche nelle più frequenti parti di ferocia e crudeltà, mantiene una forte atmosfera rituale, in un’orgia di note e canti infernali.
Basterebbe la lunga suite estrema Myriad per farvi un sunto sull’impatto che la musica del gruppo ha sull’ascoltatore: maligna, infernale e misantropica, anche se questa volta è tutto il lavoro che risplende della fioca luce di candele nere.
Un passo avanti verso quello che potrebbe essere un full length sopra la media: aspettiamo fiduciosi e nel frattempo ci godiamo un altro rituale a firma Kosmokrator.

TRACKLIST
1.Initiate Decimation
2.Death Worship
3.Kosmokratoras III – Mother Whore
4.Myriad

LINE-UP
T. – Bass
E. – Drums
C.M. – Guitars
M. – Guitars, vocals
J.- -Vocals

Crest Of Darkness – Welcome The Dead

Welcome The Dead è un lavoro che non tradisce le aspettative, e del resto i Crest Of Darnkneess ed Ingar Amlien sono nomi che forniscono ampie garanzie in tal senso

Torniamo ad occuparci dei Crest Of Darkness, creatura infernale generata dalla mente di Ingar Amlien, che ci accompagna da ormai circa un ventennio.

Come ho già avuto modo di dire in occasione dei lavori più recenti, il musicista norvegese per motivi anagrafici è arrivato a maneggiare la materia con un approccio diverso rispetto ai suoi più giovani connazionali, quelli che in prima persona generarono quello che oggi conosciamo come black metal.
Infatti, Amlien, mentre qualcuno si dilettava a bruciare chiese o a commettere altri atti criminosi che portarono alla ribalta il movimento anche per motivi extramusicali, costituiva una delle travi portanti dei Conception, autori di un elegante power/prog metal che li portò a riscuotere un certo successo nella prima metà degli anni novanta: il suo approdo al black, quindi, avvenne con qualche anno di ritardo rispetto alla genesi del genere e questo, assieme al suo retaggio musicale, ha reso in qualche modo differente la produzione dei Crest Of Darkness rispetto a quella più tradizionale.
Tale scostamento non va ricercato nell’approccio stilistico vero e proprio, in quanto quello del trio norvegese, anche se contaminato da una buona componente death, segue in maniera abbastanza fedele i dettami codificati a suo tempo, risultando però una spanna sopra la media delle uscite del settore grazie ad una cura dei particolari ed all’abilità tecnica che è, comunque, nel DNA di chi si cimentava in gioventù in generi molto esigenti da questo punto di vista.
Con l’ausilio di altri due abili musicisti, il chitarrista Rebo ed il batterista Bernhard, neppure loro più di primo pelo, Amlien conferma e rafforza, con Welcome The Dead, tutto quanto di buono realizzato specialmente da quando la discografia della sua band ha ripreso vigore ed impulso, dopo un lungo periodo di silenzio a cavallo degli ultimi due decenni.
L’album si rivela così intenso, cattivo, suonato e prodotto ottimamente e privo di cali di tensione: se vogliamo, ai Crest Of Darkness manca quel pizzico di urgenza compositiva che si può rinvenire in chi si avvicina al black con il piglio nichilista e blasfemo dei ventenni, ma brani come la title track, The Almighty e Scourged And Crucified costituiscono esempi inattaccabili di arte nera, come del resto buona parte delle restanti tracce, impreziosite spesso da assoli di chiara matrice heavy, sciorinati dall’ottimo Rebo.
Fanno eccezione due episodi particolari, come l’acustica My Black Bride e la conclusiva Katharsis, nella quale il recitato dell’attore norvegese Espen Reboli Bjerke conferisce ulteriore e solenne evocatività ad un sound che, in questi ultimi minuti del disco, si fa più meditabondo e rallentato.
Welcome The Dead è un lavoro che non tradisce le aspettative, e del resto i Crest Of Darnkneess ed Ingar Amlien sono nomi che forniscono ampie garanzie in tal senso, e così sarà finché il maturo musicista scandinavo avrà voglia di continuare a forgiare, con la medesima convinzione, l’arte metallica nei suoi tratti più oscuri e corrosivi.

Tracklist:
1. Welcome The Dead
2. Chosen By The Devil
3. Scourged And Crucified
4. My Black Bride
5. Borrowed Life
6. The Almighty
7. Memento Mori
8. The Noble Art
9. Katharsis

Line-up:
Ingar Amlien: vocals, bass, guitars on “My Black Bride”
Bernhard: drums
Rebo: lead and rhythm guitars

Guest: Kristian Wentzel: keyboards
Espen Reboli Bjerke: voice on “Katharsis”

CREST OF DARKNESS – Facebook

Calligram – Demimonde

In questi venti minuti scarsi i Calligram ci vanno giù duro con una rabbia degna dei tempi che viviamo.

I Calligram vengono presentati come una band inglese dedita al black metal, ma entrambe le notizie sono parzialmente inesatte: infatti, il gruppo ha la propria base a Londra ma è, di fatto, composta da musicisti provenienti da diversi paesi, tra i quali il nostro, e il genere suonato in realtà può essere inserito nel filone black ma con molta approssimazione, visto che è percepibile una robusta componente hardcore punk.

Tutto questo rende molto meno prevedibile il contenuto dell’ep d’esordio dei Calligram, intitolato Demimonde: non che si reinventi la ruota, e nemmeno si richiede di farlo, però in questi venti minuti scarsi i cinque londinesi d’importazione ci vanno giù duro con una rabbia degna dei tempi che viviamo, con chitarre e la base ritmica a creare un bel muro sonoro trovando quale ideale mezzo per esprimerla, oltre ad un sound potente, lo screaming efferato di Matteo Rizzardo che ci espone quella che non è certamente una visione della realtà circostante tutta rose e fiori.
Ne è riprova l’ultimo brano intitolato, non a caso, Bataclan, dove un incipit di matrice doom lascia spazio ad una foga distruttrice e distorta la cui essenza racchiude il malessere e lo sconcerto rispetto a quanto accaduto a Parigi giusto un anno fa.
I Calligram appaiono una realtà dalle notevoli prospettive, anche se questo loro collocarsi in una sorta di terra di mezzo tra black e hardcore può rivelarsi un’arma a doppio taglio: in tal caso c’è solo da augurarsi che gli estimatori dei rispettivi generi decidano di convergere verso il comune obiettivo di ascoltare musica disturbante, cruda e diretta, al di là di ogni possibile catalogazione.

Tracklist:
1. Red Rope
2. Bed of Nails
3. Drowned
4. Black Velvet
5. Bataclan

Line-up:
Bruno Polotto – Guitar
Tim Desbos – Guitar
Smittens – Bass Guitar
Ardo Cotones – Drums
Matteo Rizzardo – Vocals

CALLIGRAM – Facebook

 

Mesarthim – .- -… … . -. -.-. .‬

Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda

E’ triste rendersi conto d’essersi quasi del tutto dimenticati un qualcosa che si era imparato molto bene (anche se in maniera un po’ coercitiva) qualche decennio fa …

Quando ho visto quella sfilza di punti e trattini che rappresentano il titolo del nuovo disco dei Mesarthim mi sono chiesto, senza rifletterci più di tanto, che diavolo significasse, finché, dopo qualche giorno, in un anfratto del mio sempre più ristretto hard disk interno è balenato un ricordo del passato coincidente con il periodo del servizio di leva in marina, quando conoscevo alla perfezione l‘alfabeto Morse, in quanto radiotelegrafista …
Già: ti-taa taa-ti-ti-ti e via discorrendo, in questo caso significa Absence, un titolo ed un mezzo per veicolarlo che si addicono al modus operandi dei Mesarthim, misterioso duo australiano del quale avevo già avuto modo di parlare in occasione del precedente full length Isolate.
Se, all’epoca, avevo espresso alcune perplessità derivante da un approccio gradevole ma non particolarmente incisivo, devo ammettere che stavolta i due “puntini” (che, seguendo la logica del Morse, equivalgono ad E) hanno fatto un deciso passo avanti.
Absence‬, infatti, offre quasi quaranta minuti di black atmosferico molto meglio definito ed efficace: le linee melodiche disegnano scenari cosmici in cui prevale un aspetto sognante che blast beat e screaming vocals non riescono più di tanto a screziare.
Le tastiere, soprattutto, tracciano un percorso lungo il quale l’ascoltatore viene trasportato facendolo sentire a proprio agio ma senza lesinargli, comunque, un senso di inquietudine derivante dalla riproposizione di schemi non dissimili dal depressive, benché molto meno oscuri ed urticanti nella loro espressione.
Il lavoro è davvero molto bello, con picchi rinvenibili un po’ in tutti brani, ma con menzione particolare per quello conclusivo (-…., ovvero 6), laddove il contrasto tra la voce e le ariose armonie si fa più intenso e ficcante.
Difficile fare meglio per chi si cimenta con il black metal atmosferico, anche se è evidente che l’impatto melodico del lavoro potrebbe risultare eccessivo per chi predilige il genere nella sua veste più cruda; anche per questo, Absence è un disco che mi sentirei di consigliare proprio a chi volesse approcciarsi per le prima volta a sonorità gravitanti nell’universo metal.

Tracklist:
1.
.—-
2.
..—
3.
…–
4.
….-
5.
…..
6.
-….

Line-up:
. – Vocals
. – Other

MESARTHIM – Facebook

Gespenst – Forfald

I Gespenst scarnificano e rimodellano in più occasioni il loro black, donandogli pulsioni doom, ambient e rendendolo sempre e comunque poco rassicurante.

Da due quarti dei temibili Wobegone Obscured prendono vita i Gespenst, di stanza ad Aarhus ma, di fatto, per metà francesi, visto che il sedicente Galskab è il Quentin Nicollet che troviamo anche nei validi Dwell, nonché nelle vesti del Q. Woe dei doomsters estremi danesi.

Il progetto è stati avviato diversi anni fa da Genfærd (alias M.Woe) ma appare molto più di un semplice sfogo collaterale: se black metal deve essere, questo non è davvero né malleabile né scontato, visto che il duo (coadivuato alla batteria da Andreas Joen) lo scarnifica e lo rimodella in più occasioni, donandogli pulsioni doom, ambient e rendendolo sempre e comunque poco rassicurante.
Il bello di tutto questo è che resta ugualmente rinvenibile una linea guida melodica che consente di non smarrirsi, neppure quando sono pesanti dissonanze ad occupare la scena (Sorgens Taage e Min sjael raadner) oppure è la studiata lentezza del doom ad emergere con prepotenza (Revelation of Maggots); è magnifica, infine, nella sua solenne ed apocalittica ferocia, la conclusiva Life Drained to the Black, solo leggermente più fruibile per soluzioni ritmiche rispetto al resto del disco.
Forfald è un lavoro dannatamente difficile da decifrare, perché quando sembra scivolare via senza lasciare alcuna traccia si insinua subdolamente sottopelle invitando ad approfondirne i contenuti, ed è quello il momento in cui si comprende appieno che, quando il black metal è suonato e composto da musicisti capaci, esperti e soprattutto credibili come lo sono i Gespenst, si trasforma in una forma artistica che può rivelarsi trascurabile solo per chi non abbia voglia di ascoltarla per partito preso.

Tracklist:
1. Sorgens Taage
2. Revelation of Maggots
3. Min sjael raadner
4. Life Drained to the Black

Line-up:
Genfærd Guitars, Synths
Galskab Vocals, Bass

GESPENST – Facebook

Neravendetta – Magnum Chaos

La band sarda si dimostra capace di inanellare una serie di brani avvincenti, dalle sfumature epiche e spesso sconfinanti nel folk, che nulla hanno da invidiare ai gruppi del nordeuropa per intensità e credibilità

Ancora dalla Sardegna, ancora black metal, ancora di ottimo livello: dati di fatto che rappresentano un efficace indicatore del fermento regnante nella scena metal underground dell’ isola.

Questa volta sotto le nostre lenti di osservazione finiscono i Neravendetta, band cagliaritana che ruota attorno al duo Francesco Carboni – Marco Piu, coadiuvati dall’efficace operato di Giuseppe Novella alla voce.
Va detto subito che, rispetto ai corregionali dei quali ho avuto occasione di parlare recentemente (Solitvdo, Simulacro, VIII) i Neravendetta tralasciano, sia a livello sonoro che lirico, le pulsioni più introspettive o sperimentali per orientarsi decisamente verso il lato viking folk del genere, prendendo come ideale modello di riferimento gli imprescindibili Moonsorrow ma, ovviamente, personalizzando il sound immettendovi elementi melodici e tradizionali tipicamente mediterranei.
Magnum Chaos è il primo full length ed arriva, finalmente, dopo un decennio di attività intermittente che, quale altra traccia tangibile offre il solo demo autointitolato del 2009: un fatturato ridotto ma che, alla luce del valore di questo lavoro, diviene un elemento del tutto secondario.
La band sarda, infatti, si dimostra capace di inanellare una serie di brani avvincenti, dalle sfumature epiche e spesso sconfinanti nel folk, che nulla hanno da invidiare ai gruppi del nordeuropa per intensità e credibilità: spiccano, in una tracklist di grande solidità, Sirius e Sailing to Chaos, i due brani dai tratti più evocativi che sono quelli, forse non a caso, connotati maggiormente dall’efficace lavoro chitarristico di Carboni e dall’immissione, comunque misurata, di strumenti tradizionali, senza dimenticare i ritmi trascinanti dell’opener A Cosmic Journey.
Insomma, non c’è davvero nulla da eccepire sull’operato dei Neravendetta, ai quali non resta che augurare il crearsi di condizioni favorevoli affinché venga data continuità a quanto di buono è stato già fatto con Magnum Chaos, cosa che sarebbe senz’altro facilitata se alle loro spalle ci fosse un’etichetta in grado di valorizzarli.

Tracklist:
1. A Cosmic Journey
2. The Traveller
3. Sirius
4. Aldebaran
5. Polaris
6. Vega
7. Sailing to Chaos

Line-up:
Marco Piu – Bass
Francesco Carboni – Guitars, Keyboards, Drums
Giuseppe Novella – Vocals

NERAVENDETTA – Facebook

Wolves Den – Deus Vult

Il lavoro è l’ennesimo ottimo esempio di black teutonico, con qualche venatura epica proveniente dal retaggio dei musicisti, ed una serie di brani dal grande impatto

Da diverso tempo sostengo che il black metal esprime il meglio possibile oggi in terra tedesca, laddove la maggior parte delle band pare riuscire con grande naturalezza ad imprimere al proprio sound un che di solenne che, spesso, viene accompagnato anche da un pregevole gusto melodico.

A suffragare questa tesi giunge il primo album dei Wolves Den, gruppo formato da due ex-Equlibrium , il vocalist e bassista Helge Stang ed il batterista Manuel Di Camillo, e dal chitarrista Mexx Steiner; quindi non parliamo certo di neofiti o di musicisti inesperti ed il risultato si sente eccome: il lavoro è l’ennesimo ottimo esempio di black teutonico, con qualche venatura epica proveniente dal retaggio dei musicisti, ed una serie di brani dal grande impatto per tre quarti d’ora di musica ineccepibilmente composta e suonata.
Linee ben capaci di imprimersi nella memoria vengono accompagnate dai vocalizzi estremi di un versatile Stang, mentre Steiner si dimostra chitarrista capace di esprimersi con una certa creatività, senza dimenticare un drumming dinamico come quello di Di Camilo: il quadro complessivo depone così a favore di un opera del tutto riuscita e che minimizza la naturale carenza di originalità proprio grazie ad un gradito connubio tra destrezza esecutiva ed una scrittura coinvolgente.
Le liriche in lingua madre impiantate su una struttura che può rimandare, a grandi linee, alla scuola svedese meno arcigna (Dark Funeral e Naglfar) donano quella punta di fascino in più ad un lavoro che trova la sua sublimazione in due brani magnifici come Schwarzes Firmament e Mortis, mentre, stranamente, è proprio la title track a mostrarsi l’episodio meno convincente, apparendo piuttosto fuori contesto per ritmi ed atmosfere.
Considerando che questo primo full length dei Wolves Den risale ormai ad un anno e mezzo fa, i nostri dovrebbero essere auspicabilmente già al lavoro per dagli un seguito che, alla luce di questa prova positiva, attendiamo con una certa curiosità.

Tracklist:
1. Via lustorum
2. Gedeih und Verderb
3. Schwarzes Firmament
4. Deus Vult
5. Grau wird Nebel
6. Dysterborn
7. Sieche
8. VobisCum
9. Mortis

Line-up:
Manuel Di Camillo – Drums
Mexx Steiner – Guitars
Helge Stang – Bass, Vocals

WOLVES DEN – Facebook

Sorguinazia – Sorguinazia

Tutto è al servizio di una furia demoniaca, perché il black metal ti possiede, non lo suoni, ne vieni suonato.

Black metal primordiale velocissimo e senza controllo, sgorga dalle casse come sangue dalle vene. Ortodosso nella sua visione del black metal, questo misterioso duo confeziona uno dei migliori demo dell’anno in ambito nero, con una furia ed una marcezza senza pari.

Non esiste tregua, non c’è scampo alla caccia satanica, verrete presi e squartati appesi a quattro cavalli. Accelerazioni, concentrazioni magmatiche di black metal, grida belluine, e parti cantate in maniera classica, il tutto con una qualità molto alta. Anche la registrazione, pur essendo virata al black metal classico è fatta molto bene,facendo risaltare ancora di più il lavorio incessante del duo.
I Sorguinazia riescono a creare un’atmosfera particolare, sempre tetra e tesa, ed il loro black metal non cala mai di intensità e di forza. Non si sa praticamente nulla del duo, ma sicuramente sono persone che hanno una particolare dimestichezza col black metal. Ciò è confermato anche dal sapiente uso di parti maggiormente mid tempo, ma alla fine tutto è al servizio di una furia demoniaca, perché il black metal ti possiede, non lo suoni, ne vieni suonato.
Demo uscito ora in cassetta, poi a marzo 2017 uscirà in vinile, anticipando quello che sarà il futuro full length del gruppo sempre su Vault Of Dried Records.
Una delle uscite dell’anno per il black metal.

TRACKLIST
1.VI
2.I
3.II

Urfaust – Empty Space Meditation

Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Il duo olandese Urfaust è attivo da oltre un decennio e, nel corso di questo arco temporale, ha prodotto un numero elevato di uscite dal minutaggio ridotto (ep e split album) e tre full length, tra i quali l’ultimo è questo Empty Space Meditation.

L’etichetta di atmospheric black ambient che accompagna la musica IX e VRDRBR è piuttosto appropriata ma, tutto sommato, anche riduttiva, visto che il sound è decisamente composito e volto alla creazione di passaggi ariosi ed evocativi, a volte screziati da violente accelerazioni alle quali fanno da contraltare pulsioni droniche che, comunque, non appesantiscono affatto il lavoro nel suo complesso.
Empty Space Meditation è composto da sei brani intitolati Meditatum, numerati da I a VI, e ci fornisce l’idea di un album che, comunque, va ascoltato come un unico flusso sonoro nel quale convergono sensazioni svariate e spesso contrastanti, laddove spiritualità e nichilismo vanno di pari passo senza elidersi a vicenda.
Da tutto questo ne viene fuori una quarantina di minuti di enorme spessore, nei quali l’emotività deriva dal un incedere atmosferico e sovente rallentato ai confini del doom, con l’accento posto su un’interpretazione vocale da parte di IX magari non sempre ortodossa, ma dalle indubbie doti comunicative.
A brano simbolo eleggo il sulfureo srotolarsi di Meditatun IV, con il suo procedere quasi tetragono, accompagnato dai vocalizzi di IX che si fanno via via più sgraziati e disperati: questi sono gli Urfaust nella loro espressione meno immediata ed accomodante, in grado di puntellare ulteriormente un disco eccellente con V, brano che sembra a tratti una rielaborazione in veste metallica di Bauhaus e Christian Death dei tempi d’oro, e con la conclusiva, magnifica, VI, nella quale è il sitar che dona un’aura davvero particolare ad atmosfere già di loro sufficientemente introspettive.
Detto d IX, che si occupa praticamente di tutto il lavoro strumentale e vocale, va rimarcato il fondamentale operato di VRDRBR alla batteria, un aspetto spesso sottovalutato nei lavoro di matrice prevalentemente solista, venendo affidato ad una più fredda drum machine.
L’elemento umano qui si sente e fa la differenza, conferendo varietà e ritmiche non banali ad un sound che veleggia ispirato e dotato di un’oggettiva peculiarità.
Empty Space Meditation è un lavoro davvero convincente: profondo ma non per questo troppo ostico da recepire, da parte di un nome magari poco noto ma in grado di ritagliarsi uno spazio importante tra gli estimatori di sonorità metalliche meno scontate.

Tracklist:
1. Meditatum I
2. Meditatum II
3. Meditatum III
4. Meditatum IV
5. Meditatum V
6. Meditatum VI

Line-up:
VRDRBR – Drums
IX – Guitars, Vocals

URFAUST – Facebook

Karg – Weltenasche

Il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Karg è la creatura solista di V. Wahntraum, conosciuto anche come J.J. all’interno degli ottimi Harakiri For The Sky: un progetto travagliato nel suo decennale snodarsi, così come la personalità del musicista che lo conduce e che, tra varie vicissitudini,anche personali, pare aver trovato oggi una sua nuova dimensione con l’uscita di questo bellissimo Weltenasche.

Dopo i primi dischi , contraddistinti da un black metal dalle ampie sfumature ambient prima, e depressive poi, il musicista austriaco è approdato ad una forma che solo apparentemente si può considerare più canonica ma che, semmai, è solo maggiormente efficace e capace di colpire nel segno senza dover percorrere vie traverse.
E’ difficile, infatti, imbattersi nel genere in un lavoro così lungo eppure privo di momenti di stanca o di riempitivi: anche quando il nostro rallenta o varia la velocità di crociera, abbandonandosi a momenti acustici o più rarefatti, tutto appare perfettamente inserito in un disegno compositivo focalizzato su un costante scambio emotivo tra musicista ed ascoltatore.
D’altronde è percepibile dall’intensità di brani che, ad eccezione dell’acustica Spuren im Schnee, sono marchiati da un crescendo di pathos, mix tra rabbia, disperazione e rassegnazione, quanto in Weltenasche non ci sia nulla di costruito essendo ogni nota il naturale sbocco della creatività di un’anima tormentata.
Talvolta pare addirittura di ascoltare una versione dall’impatto più esasperato dei primi lavori degli Alcest, laddove melodie sognanti si sposano fluidamente con le sfuriate in blast beat (Solange das Herz schlägt…), in altri momenti è un afflato poetico a prendere la scena (MMXVI/Weltenasche) ma è soprattutto una reazione liberatoria ad un disagio interiore che prepara il terreno a brani splendidi come Crevasse, Alles wird in Flammen stehen e …und blicke doch mit Wut zurück.
Non è certo il genere musicale a fare il musicista, ma semmai il contrario, ed il black metal avrà sempre un senso e, soprattutto, vita ancora molto lunga, finché verrà interpretato da chi possiede la sensibilità compositiva di V. Wahntraum.

Tracklist:
1. Crevasse
2. Alles wird in Flammen stehen
3. Le Couloir des Ombres
4. Tor zu tausend Wüsten
5. Spuren im Schnee
6. Solange das Herz schlägt…
7. …und blicke doch mit Wut zurück
8. (MMXVI/Weltenasche)

Line-up:
V. Wahntraum Guitars, Vocals

KARG – Facebook

VIII – Decathexis

Black avanguardista, death tecnico e progressivo, ambient, tutto scorre e cambia vorticosamente in Decathexis, un lavoro con il quale gli VIII provano in maniera decisa a staccarsi dalle convenzioni

Poco più di due anni fa mi ero trovato ad elogiare il primo full length dei sardi VIII, autori in quel frangente, con il loro Drakon, di un black metal dalle ampie sfumature doom e ricco di passaggi evocativi e melodici.

Le cose sono cambiate non poco nel lasso di tempo intercorso tra quell’uscita ed il qui presente Decathexis, non tanto dal punto di vista qualitativo che, come vedremo, non ha subito alcun contraccolpo, bensì da quello riferito all’approccio stilistico: gli VIII sono oggi una realtà dedita ad un black avanguardista che può essere avvicinabile ai parti più recenti della scuola francese, reso però con una personalità ed un tocco di follia che ne accentua la peculiarità.
Ed è proprio da un concept basato su stati di alterazione mentale (Decathexis significa, a grandi linee, ad una forma patologica di progressivo disinteresse e distacco nei confronti della realtà circostante) che DrakoneM, sempre aiutato dal fido drummer Mark, prende le mosse per sviluppare un lavoro impressionante per come la materia viene plasmata a piacimento senza che, alla fine, il risultato finale ne risenta particolarmente a livello di fluidità.
Non era semplice, infatti, concentrare in un solo album una simile quantità di influssi, corrispondenti ad altrettanti cambi di scenario ed atmosfera, mantenendo saldo il controllo delle composizioni senza farsi sopraffare dalla propria vis sperimentale.
Fin dall’incipit di Symptom, infatti, si intuisce che Decathexis offrirà una cinquantina minuti all’insegna di un’imprevedibilità, abbinata ad un’estremizzazione del suono che va oltre i semplici canoni del black o del death: gli VIII suonano quello che si può definire a buon titolo avantgarde metal, senza che tale definizione appaia pomposa o inadeguata
Così le incursioni del sax, strumento che da chi ascolta metal estremo viene normalmente visto come il fumo negli occhi, sono solo uno dei simboli del disagio che gli VIII traducono in musica: i tre brani, la cui delimitazione appare più una necessità che non una conseguenza logica, per cui potrebbero essere anche dieci od uno soltanto, non lasciano punti di riferimento certi ed è quasi impossibile prevedere quale direzione prenderà il sound.
Black avanguardista, death tecnico e progressivo, ambient, tutto scorre e cambia vorticosamente in Decathexis, un lavoro con il quale gli VIII provano in maniera decisa a staccarsi dalle convenzioni, rischiando del loro con l’abbandono di strade più confortevoli ma ottenendo un risultato davvero soddisfacente, che lascia quale unico interrogativo la reazione di chi ha seguito le prove del passato al cospetto di una sterzata così decisa e violenta inferma al proprio modus operandi.
Poco male, visto che auspicabilmente DrakoneM e Mark dovrebbero ottenere nuovi e numerosi consensi per un album che va assaporato, comunque, mantenendo un’ampia apertura mentale.

Tracklist:
1. Symptom
2. Diagnosis
3. Prognosis

Line-up:
DrakoneM – Guitars, Bass, Synth, Vocals (additional)
Mark – Drums

VIII – Facebook

Netherbird – The Grander Voyage

La mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata dalla capacità di comporre brani avvincenti, orecchiabili ma non banali, trasportando con un certo agio l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza fargli avvertire alcun sintomo di stanchezza.

Gli svedesi Netherbird sono una band attiva ormai da una dozzina di anni, con una produzione già piuttosto corposa alle spalle senza che, purtroppo, il loro nome sia mai spiccato in maniera particolare nell’affollata scena estrema scandinava.

Potrebbe giungere a cambiare le cose questo loro quarto full length intitolato The Grander Voyage, con il quale vengono riportate in auge sonorità che trovarono un certo spazio all’inizio del millennio.
Per rinvenire dei possibili punti di riferimento per i Netherbird è opportuno spostarsi nella vicina Finlandia dove, nello scorso decennio, band come Catamenia e Norther diedero alle stampe lavori di un certo spessore al’insegna del death black melodico.
Va detto, a onor del vero, che la genesi del gruppo svedese è di poco posteriore rispetto ai nomi citati e, quindi, parlare di influenze vere e proprie non è corretto, mentre appare più lecito segnalarne le affinità al fine di inquadrarne al meglio il sound.
Il sottogenere in questione, per sua natura, deve coinvolgere ed emozionare, avvalendosi di cavalcate in crescendo nelle quali gran parte del lavoro viene affidato dal punto di vista melodico al tremolo delle chitarre, mentre le tastiere svolgono un ruolo importante ma limitato all’accompagnamento, senza debordare come avviene nella variante sinfonica.
Tutto ciò si palesa in maniera perfetta nel lavoro dei Netherbird, i quali sciorinano una quarantina di minuti impeccabili, nei quali la mancanza di spunti innovativi è ampiamente compensata dalla capacità di comporre brani avvincenti, orecchiabili ma non banali, trasportando con un certo agio l’ascoltatore dall’inizio alla fine senza fargli avvertire alcun sintomo di stanchezza.
Detto che, per gusto personale, ho sempre prediletto questo tipo di sonorità rispetto al più canonico death melodico, trovo che The Grander Voyage sia un magnifico album, impreziosito da alcuni gioielli come la cangiante The Silvan Shrine, dalle superbe linee melodiche, e Windwards, che si snoda in maniera splendida tra pulsioni folk e maideniane.
Non so se ciò possa bastare ai Netherbird per migliorare in maniera sensibile il loro attuale status: dal mio punto di vista lo meriterebbero, ma ho il timore che un bellissimo album come The Grander Voyage sia, a modo suo, leggermente fuori tempo massimo, anche la buona musica di norma dovrebbe esulare da queste considerazioni.

Tracklist:
1. Pale Flames on the Horizon
2. Hinterlands
3. Dance of the Eternals
4. Windwards
5. Pillars of the Sky
6. The Silvan Shrine
7. Emerald Crossroads

Line-up:
Bizmark (PNA) – Guitars, Keyboards, Vocals (backing), Bass
Nephente – Vocals
Nord – Guitars, Vocals (backing)
Tobias Jacobsson – Vocals (backing)
Micke André – Vocals (backing)

NETHERBIRD – Facebook

Kingdom – Sepulchral Psalms from the Abyss of Torment

Siamo lontani dai gruppi estremi che vanno per la maggiore, il sound dei Kingdom è underground nel vero senso della parola, onesto e blasfemo nella sua natura, devoto alla parte più malvagia ed estrema del genere.

Dalle fredde lande polacche tornano, tramite la Godz Ov War Productions, i Kingdom con il loro terzo lavoro sulla lunga distanza, un abominio sonoro, tutto odio ed anticristianità dal titolo Sepulchral Psalms from the Abyss of Torment.

Ed è in un abisso di tormenti che ci scaraventano i tre polacchi, con il loro death metal old school, potenziato da furiose accelerazioni thrash ed efferata attitudine black.
Produzione scarna, suono marcatamente classico, impatto da tregenda, l’album risulta così senza compromessi, un lavoro che non concede tregua in un delirio estremo senza soluzione di continuità.
Siamo lontani dai gruppi estremi che vanno per la maggiore, il sound dei Kingdom è underground nel vero senso della parola, onesto e blasfemo nella sua natura, devoto alla parte più malvagia ed estrema del genere.
I riferimenti allo stile nato nel loro paese non sono poi così scontati, vero che l’aggressione sonora ad un primo ascolto porta inevitabilmente ai gruppi storici della scena est europea, ma i Kingdom mantengono un approccio marcatamente old school, rimando confinati nel buio abisso dove le anime tormentate non trovano pace, ma solo la dannazione eterna.
La furia sprigionata da brani come Monolith of Death o Black Rain upon the Mountain of Doom, l’atmosfera maligna e doomy della raggelante Abyss Of Torment, danno al disco quel tocco diabolico e cattivo insito nel gruppo, e fanno di Sepulchral Psalms from the Abyss of Torment un’opera oscura, marcia, soffocante e, di conseguenza, rivolta agli appassionati più fedeli al genere.

TRACKLIST
1. Sepulchlar Psalms
2. Monolith of Death
3. Forsaken Tribe
4. Kaplica Ducha Zgniłego
5. Abyss of Torment
6. Black Rain upon the Mountain of Doom
7. Whispering the Incantation of Eternal Fire
8. Cromlech (Darkthrone cover)

LINE-UP
SLW – Drums
LWN – Vocals, Guitar
STH – Bass

KINGDOM – Facebook

Negură Bunget – Zi

Zi è un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.

Con Zi i Negură Bunget giungono alla seconda parte della programmata trilogia transilvanica: il precedente Tau aveva evidenziato l’avvio di un progressivo distacco da quelle radici black che avevano accompagnato la band nello scorso decennio e, in buona parte, anche nel primo degli album che vedeva il solo Negru alle redini della band (Virstele Pamintului).

Tale aspetto si accentua ancor più oggi, relegando quasi ad una presenza marginale le pulsioni più estreme: il lavoro sposta la barra in maniera decisa verso il folk, materia che la band rumena ha sempre interpretato in maniera unica; tutto ciò comporta, rispetto al predecessore, una minore fruibilità, visto che la componente etnica qui non viene mai interpretata in maniera giocosa o ritmata, ma esprime un sentire che va a fondere la tradizione popolare con quella spiritualità che, per i Negură Bunget, è sempre stata una componente essenziale.
Rispetto a Tau non si può comunque fare a meno di rimarcare una minore fluidità, derivante soprattutto da un approccio che mette ancor più ai margini la forma canzone, optando per strutture cangianti che tendono ad esaltare gli aspetti più mistici ed evocativi del sound.
Resta il fatto che, per ascoltare oggi un album dei Negură Bunget, bisogna essere dotati di una buona dose di curiosità e di apertura mentale, oltre che di innata passione per sonorità ancestrali che traggono linfa dalle radici popolari: senza dubbio quello della band rumena è un percorso catartico e spirituale che non ha certo quale primo obiettivo quello di rilasciare musica accattivante e banale e, proprio per questo, Zi è un album che cresce sicuramente dopo molti ascolti, rivelandosi per quello che è, ovvero un buonissimo lavoro che si attesta comunque leggermente sotto a Tau.
Segnalando come episodi migliori i due centrali, Brazdă dă foc e Baciul Moșneag, appunto quelli in cui le due anime della band paiono convivere in maniera più equilibrata, non disdegnando neppure aperture melodiche più canoniche come il bellissimo assolo di chitarra nel finale della seconda delle due tracce, non si può fare a meno di notare come la tensione emotiva, che in Tau non veniva mai meno, qui si manifesta in maniera molto altalenante, compressa da un’attenzione per la forma che talvolta finisce per sacrificare la sostanza.
I Negură Bunget esibiscono così con maestria il loro inimitabile brand ed è innegabile che, preso singolarmente, Zi sia un lavoro francamente inattaccabile, sminuito però dal confronto con le uscite passate, non riuscendo ad indurre nell’ascoltatore lo stesso grado di coinvolgimento.
Un piccolo passo indietro che non inficia in alcun modo il meritato status di culto acquisito dalla band rumena, autrice di una delle espressioni artistiche più peculiari in ambito metal, e non solo.

Tracklist:
1. Tul-ni-că-rînd
2. Grădina stelelor
3. Brazdă dă foc
4. Baciul Moșneag
5. Stanciu Gruiul
6. Marea Cea Mare

Line-up:
Negru – Dulcimer, Tulnic, Toacă, Xylophone (2002-present)
Ovidiu Corodan – Bass
Petrică Ionuţescu – Flute, Nai, Kaval, Tulnic
Adi “OQ” Neagoe – Guitars, Vocals, Keyboards
Vartan Garabedian – Percussion, Vocals
Tibor Kati – Vocals, Guitars, Keyboards, Programing

NEGURA BUNGET – Facebook

Rest – Rest

Le premesse sono buone, anche perché è netta la sensazione che i Rest siano intenzionati a proporre anche in futuro molto di più rispetto a un ordinario black hardcore sparato alla massima velocità.

I Rest sono un nuovo interessante progetto immaginato da Alessandro Coos (Ashes of Nowhere) e realizzato con l’ausilio di Mattia Revelant (batteria), Efis Canu (voce) e Marco Zuccolo (basso).

Questo ep autointitolato, pur nella sua brevità, mostra una band capace di trasmettere una potente urgenza espressiva tramite un black hardcore per lo più feroce e diretto, con la sola eccezione della traccia conclusiva V, molto più elaborata e rallentata, che apre un nuovo stimolante filone compositivo da sfruttare magari più avanti.
Per il resto è una furia iconoclasta a pervadere ogni brano, con un approccio diretto ed efficace nella sua organicità, e la timbrica di Canu (vocalist degli Inira) ad accentuarne l’impronta hardcore, anche se già in IV i ritmi si fanno relativamente più controllati, prima di sfociare nella già citata anomalia costituita dalla traccia conclusiva.
Le premesse sono buone, anche perché è netta la sensazione che i Rest siano intenzionati a proporre anche in futuro molto di più rispetto a un ordinario black hardcore sparato alla massima velocità.

Tracklist:
1.I
2.II
3.III
4.IV
5.V

Line-up:
Alessandro Coos – guitar
Mattia Revelant – drums
Efis Canu – vocals
Marco Zuccolo – bass

REST – Facebook


Hryre – From Mortality To Infinity

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

Gli Hryre sono la migliore band di black death inglese, provengono dal West Yorkshire e sono davvero bravi.

I ragazzi inglesi avevano esordito nel 2014 con un buon ep, ma qui esprimono tutta loro potenza, e la loro visione del black metal. Nel loro sound convergono elementi del black metal classico, come una buona dose di death metal, che costruisce l’ossatura del loro suono. Il disco è molto compatto e potente, con alcuni momenti davvero anni novanta che faranno al gioia di molti. Il loro obiettivo è esplicito, ovvero diventare la migliore band inglese di black metal e direi che sono sulla buona strada. Tutto il disco è studiato bene e risulta originale e peculiare. Il black metal può essere un pedissequo copiare o straordinaria innovazione, ma forse la cosa più difficile è trovare la propria via, cosa che invece gli Hryre sanno fare molto bene e ce lo mostrano in questo disco, in cui ogni nota è curata benissimo, con la ricerca del migliore suono possibile, e ne viene fuori un’opera potente, equilibrata e mai noiosa, con composizioni ben la di sopra della media. Il disco è di una rara intensità, ma ha anche momenti epici davvero notevoli, con tocchi di folk ed il tutto funziona molto bene. La migliore band black metal inglese e non solo.

TRACKLIST
1.Inauguration
2.Devastation of Empires
3.Plagues on Ancient Graves
4.Alive Beneath the Surface
5.Cast into Shade Part One (Farewell)
6.Cast into Shade Part Two (Black Sun)
7.Lamenting the Coming Dread
8.Regressed State of Malice
9.Return to the Earth

LINE-UP
Rick Millington – Vocals, Guitar & Bass
Nathan Patchett – Guitar & Bass
Gareth Hodgson – Drums
Michael Blenkarn – Keyboards (Featured Special Guest)

HRYRE – Facebook

Winterheart – Nothingness

Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.

Terzo album per gli ungheresi Winterheart, band che si cimenta con un black metal atmosferico ma dai tratti sovente molto vicini al depressive.

In effetti, il senso di disperazione che viene evocato con buona continuità dal gruppo di Budapest è accentuato da vocals che, in più di un caso, mostrano un chiaro stampo DSBM, talvolta spinte fino all’eccesso come in Kill Me.
Rispetto a certi stilemi del genere viene meno un certo minimalismo, per cui troviamo un sound relativamente dinamico e valorizzato da una produzione all’altezza rispetto agli standard richiesti.
Ciò consente di godere appieno delle diverse sfumature, in primis un buon lavoro chitarristico che non si limita al consueto tremolo offrendo, invece, più di uno spunto notevole di matrice solista od acustica.
Tra i brani spicca Cancer, grazie ad un andamento vario e vicino per attitudine ai lavori più datati dei Nocte Obducta, e la successiva Forgive Me, dall’incedere doloroso segnato da una slendida linea melodica, ma non sono da sottovalutare neppure le altre tracce, come Aldozat, cantata in madre lingua. 
Insomma, Nothingness è davvero un lavoro di pregio che svolge appieno il suo compito, ovvero quello di trascinare l’ascoltatore nel gorgo di nichilistico sconforto di cui i suoni dei Winterheart sono intrisi.

Tracklist:
1. Intro
2. Áldozat
3. Kill Me
4. Drifting Away
5. Cancer
6. Forgive Me
7. Meghalok
8. Emlékek

Line-up:
Gábor Szalai – Vocals, Bass
Zsolt Géczy – Guitars
Péter Nagy – Drums
Ádám Tóth – Vocals, Guitars

WINTERHEART – Facebook

Créatures – Le Noir Village

L’operato dei Creatures va assaporato come una vera e propria rappresentazione teatrale, per coglierne più efficacemente l’essenza.

Dopo alcuni anni di gestazione prende corpo il progetto solista di Sparda, i Créatures: il musicista francese, per questa sua prima uscita ufficiale, mette in scena un lavoro ambizioso ed articolato.

Le Noir Village è un concept album che narra di nefasti avvenimenti verificatisi nel corso del XII secolo in uno sperduto paesino, teatro delle efferate gesta di entità mostruose e di piccole grandi tragedie che vanno a sconvolgere la comunità.
La colonna sonora di un simile lavoro non può che essere un metal dalle connotazioni orrorifiche, che attinge a livello attitudinale a nomi quali King Diamond e Death SS, ma reso in maniera piuttosto personale grazie ad una componente black che rende ancor più dinamico il sound.
I rischi di rilasciare un’opera pomposa e frammentaria erano molti, ma Sparda sfugge abilmente a questa trappola grazie ad un buon songwriting, sempre volto alla costante ricerca della forma canzone nonostante la connotazione quasi teatrale del lavoro, conferita dalla presenza di diversi ospiti ai quali, proprio come in una rappresentazione, sono state affidate le parti vocali corrispondenti ai diversi personaggi che, di volta in volta, si ergono a protagonisti del racconto.
Le Noir Village scorre via, quindi, convincente in tutte le sue parti, avvalendosi anche di testi decisamente belli, spesso toccanti e comunque mai banali, con il solo difetto della stesura in lingua madre, il che rende sicuramente più semplice a Sparda tessere in maniera efficace la trama ma complicandone la comprensione immediata a quegli ascoltatori privi di dimestichezza con il francese.
Poco male, comunque, un pò’ perché non è difficile trovare il modo di tradurli in maniera più o meno coerente, e soprattutto perché la buona interpretazione di ciascun cantante alle prese con i diversi carattere riesce a trasmettere compiutamente la gamma di sensazioni che il musicista transalpino ben esprime con il suo lavoro.
Se vogliamo cercare davvero il pelo nell’uovo, non si può fare ameno di notare quanto i prime tre brani siano decisamente miglior dei restanti, che restano comunque di buon livello, senza però raggiungere la drammaticità di L’Horreur des Lunes Pleines e Martyre d’un Tanneur.
Le Noir Village è un disco affascinante ma non semplicissimo da digerire, alla luce delle sue atmosfere che cambiano sovente assecondando l’entrata in scena dei vari personaggi, ed è proprio come una rappresentazione teatrale che, alla fine, l’operato dei Creatures va assaporato per coglierne più efficacemente l’essenza.

Tracklist:
1- L’Horreur des Lunes Pleines
2- Cadavre abandonné
3- Martyre d’un Tanneur
4- À l’orée du Mal, le Pacte interdit
5- Il était un Monstre assoiffé de Cœur
6- Sous le Visage avenant de la Mort

Line-up:
Sparda – concept, composition, writing, recording guitars, bass, piano, organ, ocarina, dung chen, singing bowls, gong, interpretations of Lothar, celestial choirs

Guests:
Ehrryk (Gotholocaust) – battery
Sha’Ilùm (Ê) – Zarb, daf, dap, udu, darbuka
Cam.L – cello
LeksyK – violin
Hyvermor (Hanternoz) – Grimoald interpretation, writing support, medieval expertise
Lazareth (Ordo Blasphemus) – interpretation of the angel, trumpets
Josie Frost (Black Knight Symfonia) – interpretation of Eleanor
Arnev (Aezh Morvarc’h) – interpretation of Roderic
Oz (Electric Age) – interpretation of the Vampire
Geraud de Verenhe (Borgia) – interpretation of the Priest
Lokaeda (Hanternoz) – interpretation of Alaric
Haement – interpretation of Demon, guitar solo on « À l’orée du Mal, le Pacte interdit »
Aliunde (Grylle) – interpretation of Theodora

CREATURES – Facebook