Eriphion – Hossana

Pur se punteggiata da qualche imperfezione, quest’opera prima targata Eriphion appare davvero interessante e per nulla banale, grazie ad una costruzione dei brani sempre attenta al coinvolgimento dell’ascoltatore, sia dal punto di vista lirico che musicale.

Hossana è l’ep d’esordio degli Eriphion, progetto solista del misterioso musicista greco M.

Siamo in presenza di un black metal grezzo, sincero e ricco di magnifici spunti, pur se sepolti da una produzione rivedibile (con la voce, come spesso accade, piuttosto penalizzata) e accompagnata da un lavoro percussivo a dir poco naif.
Ciò che rende questo lavoro apprezzabile alle mie orecchie è la capacità del nostro di rendere piuttosto attraente la sua offerta, imbroccando incisive linee melodiche che si reiterano piacevolmente all’interno dei singoli brani (My Fate in particolare).
La title track si snoda furiosa ma non priva di un appeal epico e melodico, Forever Me si palesa come un più solenne mid tempo, mentre The Forest si attesta su ritmiche analoghe sulle quali si staglia una melodia chitarristica dolente e cullante allo stesso tempo.
Pur se punteggiata da qualche imperfezione, quest’opera prima targata Eriphion appare davvero interessante e per nulla banale, grazie ad una costruzione dei brani sempre attenta al coinvolgimento dell’ascoltatore, sia dal punto di vista lirico che musicale.
Nel frattempo dovrebbe essere uscito il primo full length, sempre autoprodotto, all’interno del quale lodevolmente paiono non esserci brani presenti in questo ep, segno che M. ha parecchio da dire e non vuole perdere ulteriore tempo. Se anche questo lavoro verrà sottoposto alla nostra attenzione sarà l’occasione per verificare il reale spessore compositivo del musicista ellenico.

Tracklist:
1. Hossana
2. My Fate
3. Forever Me
4. The Forest

Line-up:
M. – all instruments, vocals

ERIPHION – Facebook

Unanimated – Annihilation

Annihilation arriva come un devastante fulmine nordico a ribadire la forza espressiva di questa band, e speriamo davvero che un prossimo full length sia tra le priorità di Micke Broberg e compagni.

Tra le grandi band del panorama death black scandinavo non ci si può certo dimenticare degli Unanimated, un quintetto di diabolici misantropi del metal estremo che dal 1988 lascia a noi mortali poche ma notevoli opere di metallo dannato ed oscuro.

Il vivere nell’ombra di un mercato lontano dal loro pensare li ha portati in tutti questi anni a licenziare solo tre full length, un paio di demo nei primi anni novanta e questo nuovo ep che sancisce il patto con la Century Media e un ritorno (si spera) a lungo termine.
Il capolavoro Ancient God Of Evil, uscito un paio di anni dopo il debutto In the Forest of the Dreaming Dead, aveva incendiato la scena svedese nella prima metà degli anni novanta, periodo in cui nella fredda Scandinavia si creavano opere immortali, poi il lungo silenzio durato quattordici anni, l’uscita del bellissimo In the Light of Darkness nel 2009 e la band a ritornare nell’ombra, con i suoi componenti a lasciare marchi diabolici importanti con altre realtà.
Annihilation, accompagnato da una fantastica copertina old school, presenta gli Unanimated versione 2018 con Richard Cabeza al basso, Micke Broberg alla voce, Johan Bohlin e Jonas Deroueche alle chitarre e Anders Schultz alla batteria.
I quattro brani dimostrano che, quando questi cinque musicisti si riuniscono sotto il monicker Unanimated, non c’è ne per nessuno: Adversarial Fire torna come se il tempo si fosse fermato a glorificare il male con il più puro death/black di matrice swedish, genere che il gruppo di Stoccolma sa suonare come pochi.
From A Throne Below è un brano dal flavour epico, la band si avvicina al sound dei Watain con cui divise il palco poco tempo fa, tra di cambi di tempo, parti velocissime e thrashy ed altre più cadenzate.
L’atmosfera funerea di Of Fire And Obliteration ed il suo andamento acustico porta alla title track, un monumento al genere, swedish death metal alimentato dalla nera fiamma così come vuole la tradizione.
Gli Unanimated sono tornati, Annihilation arriva come un devastante fulmine nordico a ribadire la forza espressiva di questa band, e speriamo davvero che un prossimo full length sia tra le priorità di Micke Broberg e compagni.

Tracklist
1.Adversarial Fire
2.From a Throne Below
3.Of Fire and Obliteration
4.Annihilation

Line-up
Richard Cabeza – Bass Guitar
Jojje Bohlin – Guitars
Micke Broberg – Vocals
Jonas Derouche – Guitars
Anders Schultz – Drums

UNANIMATED – Facebook

Bloodshed Walhalla – Ragnarok

Drakhen prende i Bathory e Quorthon come modello ma va ben oltre, costruendo una musica davvero epica e pregna di significato, come quando si riporta alla luce un manoscritto antico che fa parlare di nuovo colui o coloro che lo scrissero.

Torna il polistrumentista Drakhen con la sua incarnazione Bloodshed Walhalla e il suo viking folk metal dalla grande attrattiva.

La vita di Bloodshed Walhalla comincia nel 2006, con l’intento di creare un gruppo per rifare le canzoni dei Bathory nel loro periodo viking metal. Draken è molto prolifico e dopo i primi tre demo arriva il debutto su lunga distanza nel 2010 con The Legends Of A Viking, un disco molto importante per il genere viking metal alle nostre latititudini, che porta avanti il discorso musicale e soprattutto culturale iniziato da Quorthon in Svezia conquistando poi tutto il mondo. Nel 2012 Bloodshed Walhalla compare sul tributo ai Bathory Voices From Valhalla – A Tribute To Bathory dell’inglese Godreah Records, con il bellissimo brano The Sword. Nel 2014 esce l’ep Mather, cantato in lucano, che precede Thor del 2017, uno dei più bei lavori viking folk metal sia italiano che europeo. Ed eccoci arrivati a Ragnarok, che vede l’approdo del progetto di Draken su Hellbones Records, ed è di nuovo magia. Dopo aver introdotto con l’ep Mather il moog nel suo novero di strumenti, Draken porta la sua musica ad un livello ancora superiore rispetto al già ottimo Thor. Bisogna però dire che quella di Bloodshed Walhalla non è solo musica, ma un qualcosa di atavico che vive dentro di noi e che aspetta un detonatore come questo disco per uscire. Nelle quattro lunghe tracce che arrivano a totalizzare 64 minuti il vichingo di Matera ci porta spiritualmente e non solo, in mezzo ai vichinghi, con i loro usi e costumi, immergendosi in quella natura che abbiamo ucciso e che non fa più parte della nostra visione di vita, se non in termini di affari e sfruttamento. Ragnarok è la perfetta dimostrazione di cosa possa essere il viking metal che tanti disprezzano o snobbano, mentre chi lo ama è orgogliosamente consapevole che non è un genere per tutti. C’è qualcosa in questa musica, e Ragnarok ne è pienamente intriso, in questa commistione fra chitarre distorte, con la batteria che avanza impetuosa e spesso con la doppia cassa, un cantato ora aggressivo ora sognante, e le tastiere che si fondono perfettamente con il resto, che rimanda ad un’atavica magia, un archetipo rimasto sopito per troppo tempo e che vuole risvegliarsi. Ragnarok è magnifico, come è più di Thor, e continua una visione musicale pressoché unica in Italia e non solo. Drakhen prende i Bathory e Quorthon come modello ma va ben oltre, costruendo una musica davvero epica e pregna di significato, come quando si riporta alla luce un manoscritto antico che fa parlare di nuovo colui o coloro che lo scrissero. Le canzoni sono tutte di ampio respiro e francamente bellissime. Un disco che lascerà un segno in tempi dominati dal nulla.

Tracklist
1. Ragnarok
2. My Mother Earth
3. Like Your Son
4. For My God

Line-up
Drakhen: vocals, all instruments

BLOODSHED WALHALLA – Facebook

Beyond Deth – The Age Of Darkness

Il gruppo statunitense è perfettamente in grado di far convivere le varie anime che aleggiano all’interno di questa raccolta di brani dallo spirito oscuro e battagliero ma con un lato melodico ben definito.

The Age Of Darkness è il debutto su lunga distanza dei Beyond Deth, band proveniente da Chicago e attiva dal 2013.

Il genere proposto è un ottimo thrash metal dalle atmosfere oscure, ben strutturato e pregno di melodie heavy.
L’album è composto da nove brani più intro, si odono echi di power metal statunitense che affiorano tra le trame dark del lavoro, maligno quanto basta per piacere ad un raggio abbastanza ampio di ascoltatori.
Infatti, i brani alternano sfuriate black/thrash a cavalcate metal che ammiccano alla tradizione: esempio lampante Burn His Eyes, traccia che come un vento di burrasca sfoga la sua furia con ritmiche black, per poi sciorinare riff di scuola thrash ed heavy come una versione black degli Iced Earth di Burnt Offerings.
Bellissimi sono gli interventi acustici che, senza smorzare l’atmosfera infernale che aleggia sull’opera, donano momenti di ampio respiro, mentre è già ora di un furioso headbanging con la devastante title track.
Iced Earth ed Arch Enemy si contendono la paternità di Memories Of War, prima che un assolo di stampo death arrivi come un tornado e che Search The Stars, preceduta dagli arpeggi acustici di Instrumental, riassuma il sound e le tutte influenze che hanno ispirato The Age Of Darkness.
Il gruppo statunitense è perfettamente in grado di far convivere le varie anime che aleggiano all’interno di questa raccolta di brani dallo spirito oscuro e battagliero ma con un lato melodico ben definito.

Tracklist
1.Enter The End
2.The Cold
3.Age Of Darkness
4.Burn His Eyes
5.Beyond Deth
6.Rip Out Your Soul
7.Memories Of War
8.Goddess Isis
9.Instrumental
10.Search The Stars

Line-up
Jon Corston – Guitars, Vocals
Matt Baranski – Drums
URL Facebook

BEYOND DETH – Facebook

Oltretomba – L’Ouverture des Fosses

Il lavoro si snoda senza prendere in minima considerazione l’idea di una forma canzone, basando il tutto su un impatto ossessivo che va ad erigere un sound a suo modo primitivo e dichiaratamente privo di ogni modernismo.

Gli Oltretomba hanno un monicker italiano, cantano in francese e sono danesi: già questo basta per farci capire che questo trio ha bandito ogni forma di normalità a favore di sonorità disturbante e disturbanti, difficilmente riconducibili ad un genere specifico.

Se proprio dobbiamo incasellare la band da qualche parte, l’ambito nel quale maggiormente sembra muoversi più che agevolmente un album come L’Ouverture des Fosses è il doom, specialmente quando è l’organo di Grand Duc a prendere il sopravvento sul resto della strumentazione.
Il lavoro, che dovrebbe essere il secondo full length uscito in formato cassetta per Caligari Records, si snoda senza prendere in minima considerazione l’idea di una forma canzone, basando il tutto su un impatto ossessivo che va ad erigere un sound a suo modo primitivo e dichiaratamente privo di ogni modernismo, a favore di una ritualità che riporta alla tradizione egizia, in evidenza nella spaventosa Ablation de la Boite Cranniene, traccia che assieme allo strumentale Requiem Pour Grand Duc e a Le Texte des Pyramides appare meno pervasa dalla nichilistica incomunicabilità esibita, invece, in Des Experiences Cruelles Thoth e nella title track.
L’Ouverture des Fosses è un’idea espressiva non priva di spunti intriganti ma che, per sua natura, è rivolta ad una ristrettissima nicchia di ascoltatori: a me comunque questi bizzarri provocatori sonori piacciono e non poco; poi, da questo a far diventare la loro musica un ascolto abituale ovviamente ce ne corre , questo è chiaro …

Tracklist:
1. Des Experiences Cruelles
2. Thoth
3. Le Texte des Pyramides
4. Requiem Pour Grand Duc
5. Ablation de la Boite Cranniene
6. L’Ouverture des Fosses

Line-up:
Machoire – Drums
Grand Duc – Organ
Lord Fungus – Vocals, Bass, Guitars

Eidulon – Combustioni

Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

La sperimentazione ha un senso solo quando non è fine a sé stessa, su questo non ci sono dubbi: solo se vengono rispettate tali condizioni anche le sonorità più ostiche hanno la possibilità di ottenere la giusta attenzione da parte di una fascia di ascoltatori,dotata comunque di un’attitudine all’ascolto non comune.

Il progetto denominato Eidulon possiede tutti questi crismi, forse perché nonostante una lungo silenzio l’ottimo Francesco Gemelli (che molti conosceranno anche per il suo prezioso operato in qualità di grafico) dimostra una padronanza totale della materia, modellandola e piagandola alle proprie esigenze, sfruttando al meglio in tal senso il contributo degli ospiti chiamati a collaborare alla riuscita di Combustioni.
L’album è un contenitore colmo di materia pericolosa ed instabile, sotto forma ora di dark ambient, ora di un industrial dalle sfumature apocalittiche; il tratto comune del lavoro è, però, un incedere talvolta solenne che viene sfregiato dalle prestazioni vocali di ospiti di primo piano come Nordvagr (MZ.412) e Luca Soi, il cui apporto si rivela senz’altro attrattivo anche per gli appassionati di doom, senza dimenticare il significativo apporto fornito da altri nomi di spessore quali Kammarheit, Caul e Naxal Protocol.
Indubbiamente , se il brano che vede all’opera uno dei protagonisti dell’epopea della Cold Meat Industry (A Shimmer In The Void), si rivela una delle massime espressioni possibili che si possano esibire in quest’ambito, non è certo da meno una traccia a dir poco impressionante come Grande Rosso, nella quale Luca Soi abbandona le tonalità evocative utilizzate nel recente capolavoro dei Void Of Silence per ergersi sinistro nel declamare un testo in lingua madre al di sopra di un tappeto sonoro altamente minaccioso.
L’organo che si insinua tra le pieghe The Hierarchy Of The Inner Planes (ancora con Nordvagr e con il fattivo contributo di Naxal Protocol) è qualcosa di destabilizzante, così come l’instabile quiete evocata dai vocalizzi di Soi in Immanence, dove spicca l’apporto di Brett Smith (Caul).
Kammarheit non può che essere chiamato in causa nella traccia più canonicamente dark ambient del lotto, Averni Flammas Transivi, mentre i due brani del tutto appannaggio di Gemelli aprono e chiudono il lavoro in maniera esemplare, con In Igne Revelabitur, dal riferimento nel titolo al quel fuoco che è una sorta di filo conduttore del disco, dedicato all’artista Alberto Burri capace di utilizzare appunto questo elemento come pennello (la magnifica copertina richiama il tutto in maniera eloquente), e con Stratificazione Settima, superbe prove di dark ambient disturbante e allo stesso tempo avvolgente.
Combustioni è un lavoro di enorme pregio, che merita l’attenzione di un gran numero di appassionati nonostante la naturale ritrosia da parte di qualcuno nel lasciarsi piagare le carni dalle sonorità aspre e profonde messe in campo da Gemelli.

Tracklist:
1.In Igne Revelabitur
2.A Shimmer In The Void (feat. Nordvargr)
3.Grande Rosso (feat. Luca Soi)
4.Averni Flammas Transivi (feat. Kammarheit)
5.The Hierarchy Of The Inner Planes (feat. Naxal Protocol & Nordvargr)
6.Immanence (feat. Caul & Luca Soi)
7.Stratificazione Settima

EIDULON – Facebook

Veratrum – Visioni

Il mini album “Visioni” dei Bergamaschi Veratrum, ci dimostra per l’ennesima volta – senza per forza fare del puerile campanilismo – quanto il nostro paese non abbia nulla da invidiare nel campo del black metal, in termini di capacità strumentali e di creatività musicale, a nazioni simbolo quali Norvegia, Svezia e Grecia.

Gli italiani Veratrum (death/blacksters con già all’attivo un demo, due album e due ep, compreso l’oggetto di questa recensione) devono il loro nome ad una particolare pianta (il Veratro, dal latino ‘vere’ – veramente e ‘atrum’ – nero) molto tossica, che annovera, tra le sue principali caratteristiche, quella di possedere il rizoma, una sorta di radice che si sviluppa (in genere orizzontalmente e quindi non in profondità) sotto terra.

Il rizoma permette la nascita di nuove gemme, anche se, in superficie, la pianta al termine del suo flusso vitale, muore.
Jung metaforizzò il rizoma:
“La vita mi ha sempre fatto pensare a una pianta che vive del suo rizoma: la sua vera vita è invisibile, nascosta nel rizoma. Ciò che appare alla superficie della terra dura solo un’estate e poi appassisce, apparizione effimera.” (Da sogni, ricordi e riflessioni).
Parafrasando, la vera natura dell’esistenza è inaccessibile (nel sottosuolo, eterna ed insondabile), mentre ciò che vediamo e viviamo giornalmente, risulta effimero e forse troppo spesso illusorio.
È questa, a mio modo di vedere, la chiave di lettura, di questo ep autoprodotto (uscito al momento unicamente in formato digitale): ricondurre il tutto ad un semplice album black death risulterebbe ingiustamente riduttivo per il quartetto di Bergamo.
Qui il sapore visionario (Visioni, appunto) ed onirico della vera essenza della vita universale, viene espresso in maniera ermeticamente sublime. Il messaggio che assimiliamo durante l’ascolto (il cantato in lingua madre, ci permette di assaporarne le mille sfumature) è di un qualcosa di non detto, di non visto, di metaforicamente sotterraneo, ma che ogni essere umano sa che esiste, e semplicemente lo disconosce, volutamente, forse per ignoranza, forse per atavico terrore.
“La verità non è sempre ciò che appare”- ci dice Tim Burton; occorre andare oltre, oltre il vero.
E allora ci immergiamo nel magistrale black death sinfonico del brano Oltre il Vero, dove i nostri ci accompagnano attraverso profezie di mondi sconosciuti, insegnandoci a vedere ad occhi chiusi. Musicalmente, un armonico mix di mid tempo death, intervallato da pesantissimi cadenzati tempi thrash, fa da cornice ad un black sinfonico, imponente, maestoso, mentre lo scream e il growl duettano alla perfezione, dettandone i ritmi sino alla fine, quasi facciano parte della base ritmica, e non delle parti vocali. Un bell’assolo, arricchito da un coro strepitoso e da synth tanto imponenti da sembrare suonati a quattro mani, ci conducono alla fine del brano: “Oltre il vero, Oltre il cosmo”. Dopo la breve Per Antares, più che un brano, un vero e proprio rituale cosmico dedicato alla Gigante Rossa della Costellazione dello Scorpione – Antares, ci godiamo L’Alchimista, brano essente di un Universo, al di là degli Universi conosciuti, che irrompe con un blast beat quasi perfetto, veloce, d’effetto, ed un scream malignamente oscuro; qui si va oltre il semplice tremolo, denotando una buona padronanza delle chitarre da parte di Haiwas e Rimmon. Non tarda a subentrare l’influsso death, che rallenta sì il brano, ma che ne orchestra divinamente la struttura. Ed è proprio l’alternanza di black e death, armoniosamente miscelati dai synth e da antiche salmodie, ad arricchire un brano mai monotono, da assaporare, ad occhi chiusi, godendone le visioni, che esso ci provoca. “Vedrò lo Scorpione, il suo occhio rosso…” cantano i nostri, ed il viaggio verso verità inimmaginabili, al di là del mondo conosciuto, è quasi terminato. Visioni ed onirico, riferimenti ad Antichi Dei ancestrali, di un testo che pare scritto da (o in omaggio di) H.P.Lovecraft, rappresentano il corpo del brano La Stella Imperitura, la cui anima musicale, maestosamente sinfonica, si solidifica, diventando un tutt’uno con il corpo. Clean, growl e scream danzano, al ritmo di un meraviglioso black, a tratti terribilmente veloce, ed oramai pregno di basi death metal che rendono il sound dei Veratrum, uno splendido connubio di due stili musicali, simili tra loro, ma che, solo se sapientemente armonizzati, come in Visioni, sanno dispensare linfa vitale e musicale. “Qui siamo pronti per salire…” prima strofa del brano che ci prepara al lungo viaggio, fermi sulla soglia, di Limen Operis, ultima chicca strumentale, leggiadro e soave accompagnamento, verso verità sconosciute.
Resta la speranza di veder uscire Visioni anche su cd, il digitale non mi appaga… scusate se sono un tradizionalista, vecchio o meglio antico, almeno quanto Cthulhu.

Tracklist
1.Oltre il Vero
2.Per Antares
3.L’Alchimista
4.La Stella Imperitura
5.Limen Operis

Line-up
Haiwas – Vocals, Guitars, Orchestrations
Rimmon – Guitars, Vocals
Marchosias – Bass
Sabnok – Drums

VERATRUM – Facebook

Moonreich – Fugue

Fugue dei francesi Moonreich è un’opera black, non nel senso moderno del termine; ossia, come spesso purtroppo accade, un minestrone musicale di chitarre, basso, batteria, screams, impregnato di canti gregoriani ed infarcito di organi, tastiere e synth, ma la si individua proprio nella struttura e nel corpo di ogni singolo brano, grazie ad uno studio attento dell’immortale musica del ‘700.

Come è vero che la Finlandia è la terra dei mille laghi, l’Ile de France, da dove provengono i Moonreich, la si può definire la terra dei mille fiumi (d’altro canto Ile-Isola prende proprio il nome dalla moltitudine di fiumi e rii che circondano questa regione della Francia; nome che altrimenti non troverebbe altra spiegazione, non avendo sbocchi sul mare).

E’ proprio questa magnifica regione, che ci ha donato negli anni gemme black di squisita fattura e alcune di queste ottime band annoverano tra i loro componenti proprio i membri dei Moonreich: L., il nostro corpulento singer, già frontman dei melodic blacksters Ishtar, Weddir, chitarra e voce, ma anche gigante (pure lui…) leader degli sperimentali Aevlord ed ex The Negation (consiglio). Oppure Siegfried, bassista, il più attivo fra tutti (Taliesin, Valland, ma anche ex Nyseius, ex Azziard, per citarne alcuni) e, infine, Sinai, bravo chitarrista già dei blacksters Griffon. Insomma una terra prolifica, che oggi ci dona questo Fugue (fuga, con duplice ambiguo significato di composizione musicale e di stato di amnesia e di disturbo psicologico).
Ma indubbiamente ciò che i nostri ci hanno voluto esprimere in questo loro ultimo sforzo è la loro passione per una costruzione musicale più complessa, elaborata su contrappunti musicali (tipici delle fughe di Bach) che intrecciano, amalgamano alla perfezione, due differenti melodie, che in un avvolgimento spiroidale, si inseguono, si rincorrono, senza quasi mai raggiungersi, ma soprattutto senza mai sovrapporsi. Ed in questo sublime abbraccio, si immedesimano divinamente gli imprescindibili blast beat, tremolo e scream, quasi come a sottolineare che l’estremo, il nostro caro black metal, non ne costituisce altro che la terza melodia, quando nel ‘700 era ancora materia oscura, e di certo non prevista nel Die Kunst Der Fuge, l’Arte della Fuga di J.S.Bach.
E pertanto l’album non poteva che cominciare con due vere e proprie “fughe” (Every Time She Passes Away
e Every Time the Earth Slips Away), fulgidi esempi di coraggiosa ricerca sonora ma soprattutto di grande capacità ed inventiva musicale dei nostri.
Basterebbero queste due gemme, per terminare la recensione qui e per donare un voto molto alto, ma siccome siamo avidi di nuovi ascolti, ci immergiamo nel terzo pezzo, With Open Throat for Way Too Long, che come un tuono ci sconquassa i timpani, ci capovolge lo stomaco. Una rasoiata inaspettata, di una violenza inaudita; pochi fronzoli, velocità estreme, una ritmica incalzante, pochissimi mid e molti up tempo. Forse la track che subisce le maggiori influenze death (mostrate ampiamente anche dal growl dei backing vocals). Un vero pugno nello stomaco, ove la Fuga qui viene forse interpretata nel suo secondo significato di disturbo psicologico, nel disintegrante incedere, che può essere apprezzato solo dai malati di mente (come chi vi scrive). Heart Symbolism (singolo da cui viene tratto il loro video ufficiale) è un omaggio alla natura, nel senso più entomologico del termine. Qui gli insetti sembrano danzare ai ritmi vertiginosi di un black devastante; nascono, vivono, cacciano, si nutrono, muoiono, sullo sfondo di grigi sottoboschi, in un caleidoscopio di immagini proiettate quasi alla rinfusa, che alla velocità della luce, mantengono il tempo, dettato dalla furia ritmica dei nostri. “Spread your wings” canta ad un certo punto L. e magicamente si staglia l’immagine di una farfalla.
La marziale Rarefaction (a tratti molto Marduk) ci mette tutti sull’attenti, dove il “riposo” viene comandato dai mid tempo, che alienano il nostro breve momento di pausa con assoli distorti, sino alla ripartenza che da marcia militare si trasforma in una corsa perdifiato; nella seconda parte del pezzo, si riparte con un momento molto death di relativa calma, nel quale la ritmica e l’incredibile voce di L. ci cullano sino ad accompagnarci ad un rarefatto monotono torpore. Il risveglio ci scaraventa nella desolata siccità di Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore, con un melodico arpeggio elettrico che dona a questo lamento musicale un fascino quasi etereo, da gustare ad occhi chiusi, lasciandoci trasportare in terre devastate da carestie, miserie, travolti da totale indigenza, privi di ogni forma di sostentamento, se non la nostra amata musica.
Conclude l’album un brano di black metal classico, di ottima fattura, The Things Behind the Moon, quasi a ricordarci che i nostri amano sì le fughe … ma senza disdegnare qualche volta di tornare a casa.
Black roads, take me Home, To the place I belong …

Tracklist
1.Fugue, Pt. 1: Every Time She Passes Away
2.Fugue, Pt. 2: Every Time the Earth Slips Away
3.With Open Throat for Way Too Long
4.Heart Symbolism
5.Rarefaction
6.Carry That Drought Cause I Have No Arms Anymore
7.The Things Behind the Moon

Line-up
L. – Vocals
Weddir – Guitars, Vocals
Siegfried – Bass
Sinaï – Guitars

MOONREICH – Facebook

Ungfell – Mythen, Mären, Pestilenz

Una cover dalle suggestioni bruegeliane ci porta nel personale black metal di Menetekel, artista molto ispirato con la sua arte ricca di influssi medievali.

Affiliati all’Helvetic Underground Commitee (dedito letteralmente alla propagazione di grotteschi, spregevoli e putridi tomenti audio dalla Svizzera), i zurighesi Ungfell, attivi dal 2014 ci propongono il loro secondo full length e ci inebriano con la loro personale visione del black metal viscerale e selvaggio, intriso nel profondo con tematiche appartenenti al Medioevo il cui immaginario, a loro dire, incarna e dipinge con efficacia i peggiori lati dell’umanità intesi come ignoranza e cieche convinzioni.

La one man band nelle mani, da sempre, di Menetekel, musicista assai ispirato, è qui accompagnata dal drummer Valant e altri guest e ci propone una serie di composizioni che profumano di antichi e misteriosi sapori, condotti dalla lancinante e sgraziata voce in scream del leader, che ha la grande capacità di creare atmosfere davvero inquietanti, sia quando crea brani strumentali affascinanti ricchi di suggestioni folk (Oberlandmystik), sia quando si lancia in cavalcate vigorose e fiammeggianti cariche di follia, con un guitar sound intricato, capace di variare all’interno di ogni singolo brano in parti veloci e dissolute e in parti cariche di raffinatezza e dolcezza. La carta vincente di Menetekel è la grande capacità compositiva, l’ispirazione molto accesa dove i brani acquistano consistenza ad ogni ascolto; la prima volta si è colpiti dallo scream straziato e sgraziato mentre successivamente si è letteralmente rapiti dalla grande arte compositiva, che naturalmente crea paesaggi variegati dove il black e il folk si intrecciano e fluiscono naturalmente. I brevi strumentali hanno sonorità peculiari e sono molto personali disegnando momenti emozionali di infinita dolcezza e disperazione (De Fluech vom Toggeli). Gli Ungfell, di cui dovrebbe essere ristampato il primo album, sono realmente una grande band con una forte convinzione e la loro capacità di creare atmosfere antiche e personali dimostra una volta di più come la scena elvetica abbia mantenuto nel tempo grande qualità; brani come Der Ritter von Lasarraz, con una chitarra ispiratissima, rappresentano la quintessenza di un suono black che non si ritrova tanto facilmente sulla scena. Disco splendido !

Tracklist
1. Raubnest ufm Uetliberg
2. De Türst und s Wüetisheer
3. Oberlandmystik
4. Bluetmatt
5. Die Heidenburg
6. De Fluech vom Toggeli
7. Die Hexenbrut zu Nirgendheim
8. Guggisberglied
9.
10. Raserei des Unholds

Line-up
Menetekel – Vocals, Guitars, Bass, Accordion

UNGFELL – Facebook

Mesarthim – The Density Parameter

L’album è intriso di un immaginario cosmico che i Mesarthim interpretano con grande competenza e buon gusto, affidandosi ad ampie aperture melodiche che rifuggono abilmente il rischio di apparire stucchevoli.

The Density Parameter è il terzo full length per questo progetto atmospheric black australiano, nel quale ci siamo già imbattuti in occasione dei due precedenti lavori su lunga distanza (ai quali si accompagna un nutrito numero di Ep).

La componente black, in effetti, come è naturale che sia per uno stile nel quale è la melodia a prendere il sopravvento, si è via via stemperata rispetto agli esordi sino ad risultare davvero minima in quest’ultimo frangente, andando di fatto a coincidere con le diradate parti vocale in screaming.
L’album è come sempre intriso di un immaginario cosmico che i nostri interpretano con grande competenza e buon gusto, affidandosi ad ampie aperture melodiche che rifuggono abilmente il rischio di apparire stucchevoli; peraltro, sono proprio i passaggio nei quali meglio vengono delineate le atmosfere sognanti quelli in cui l’operato dei Mesarthim tocca il suo apice e trova anche la propria ragione d’essere.
Ω, Transparency e Fragmenting, ovvero i tre brani più lunghi del lotto, sono appunto gli episodi nei quali l’idea musicale del duo australiano viene espressa in manie più compiuta: nei primi due casi grazie a linee melodiche suadenti e ben memorizzabili, nel terzo con un andamento leggermente più vario, alla luce anche di un bell’inserto di elettronica nella parte centrale, prima di un finale piuttosto ricco di variazioni sul tema.
Ovviamente questo versante del black metal, spinto al massimo dal punto di vita atmosferico, difficilmente troverà i favori di chi predilige le sembianze true del genere, rivelandosi invece più adatto a chi ha già una certa familiarità con le sonorità sdoganate in passato dai vari Burzum e Mortiis.

Tracklist:
1. Ω
2. Collapse
3. Transparency
4. 74%
5. Recombination
6. Fragmenting

Line up:
. – Other
. – Vocals

MESARTHIM – Facebook

Oubliette – The Passage

Secondo album dopo 4 anni di silenzi, eccezion fatta per due singoli, usciti unicamente in digitale per questo combo americano fautore di un ottimo melodic black metal: The Passage vi coinvolgerà e vi appassionerà dalla prima all’ultima nota.

Non tragga in inganno il nome francese Oubliette (termine che identifica un tipo di prigione medioevale, caratterizzata da un’unica apertura a botola, posta sul soffitto); qui siamo di fronte ad un combo americano, più precisamente del Tennessee, capitanato dalla coppia (nel senso stretto del termine) Emily (vocals) e Mike (lead guitar) Low.

In The Passage, album uscito a giugno per l’americana The Artisan Era (già famosa per essere l’etichetta di ottime band quali A Loathing Requiem, Inferi e soprattutto i grandissimi prog deathmetallers Augury) signore e signora Low ci propongono un ottimo black metal melodico, ricco di atmosfera e di avvolgenti umidi climi autunnali.
Imponente e maestosa l’opening track, A Pale Innocence, breve momento strumentale costruito su una base ritmica solida e un robusto drumming che, silenziato quasi improvvisamente da un bellissimo arpeggio di chitarre, ci introduce a The Curse. E allora facciamo subito la conoscenza di Miss Low. Uno scream potente, quasi maschile, si amalgama alla perfezione, sia con i tremoli serrati e velocissimi del bravissimo marito Mike e degli altri (due!) chitarristi – Harris e Wampler – sia con i frequentissimi mid-tempo, qui ancor più valorizzati da brevi ,ma sensazionali, atmosferici periodi musicali.
Pioggia e campane a morto sono l’intro di Solitude. Qui la tecnica dei nostri è eccelsa. I riff quasi maideniani dell’inizio (sarà un puro caso, ma anche qui abbiamo tre chitarristi…), ci rimandano per un istante alla gloriosa ottantiana NWOBHM inglese. Un pezzo splendido nella sua struttura melodica, ma mai troppo ruffiano, con un corpo classicamente black e – volendo ripeterci- un cantato scream, quello di Emily Low (nulla da invidiare alla nostra bravissima Raffaella Rivarolo, alias Cadaveria, solo forse un pizzico più profondamente epico) azzeccatissimo e sempre in armonia con gli altri strumenti, rendendo l’ascolto piacevolmente snello, di un brano fluido come un fiume (di sangue) che scorre.
Momento sublime con Elegy, eccelso brano gotico, armonizzato da leggiadri arpeggi e soavi voci femminili, che non ha nulla da invidiare a band del calibro di Nightwish nei loro momenti più melodici, e che farebbe arrossire di invidia mostri sacri del gothic doom  death dei primi anni ’90 (dagli Amorphis di The Karelian Isthmus, ai Paradise Lost di Gothic, passando da Always dei The Gathering), per poi terminare con un classico veloce periodo black, tanto per mostrarci che i nostri non cadranno mai nella rete del “troppo fuori tema”. Infine, di questo meraviglioso pezzo, prendiamo buona nota degli ottimi leads di Mr. Low.
Dopo una crepuscolare e malinconica Emptiness, dalla breve durata (49”), ecco The Raven’s Lullaby, sublimi sette minuti di autunnale nostalgica bruma musicale. Anche qui gli arpeggi rendono il brano uggioso come una piovosa mattina di novembre, ma l’imponenza musicale di tutto l’impianto sonoro nel suo insieme, non ci fa mai assopire completamente. Ci mantiene in un costante dormiveglia, quasi a volerci cullare, ma non ad indurre completamente sopore, per poterne assaporare ogni singola maiestatica nota.
Grande equilibrio tra melodie black, gothic doom e schegge di psichedelia in Barren. Un pezzo quasi floydiano, almeno nei suoi primi due minuti e mezzo. Attingendo da acide sonorità rock dei Seventies, muta la nostra brama per l’estremo, in una più ovattata necessità di suoni tenui, surreali, soporiferi che, in un turbinio di stordenti luci e profumi anni ’70, ci annebbiano la coscienza, sino al brusco risveglio del minuto 2:36, che quasi come un versetto dell’Apocalisse, ci ripiomba nel loro ottenebrante malinconico –ma nel contempo magicamente suadente – black metal.
Con grande tristezza arriviamo al termine dell’album, non prima di aver assaporato in toto un vero black in pieno stile scandinavo – The Passage – che pare uscito direttamente dalla produzione di un certo Roberto Mammarella della (mitica) Avantgarde Music. Un pezzo alla Carpathian Forest di Strange Old Brew per intenderci, vero maestoso epic black metal a cui non manca nulla, se non un’altra canzone a seguire. Ma l’album è oramai terminato, lo show finito, e a noi non resta che attendere nuove gemme … dalla terra della country music.

Tracklist
1.A Pale Innocence
2.The Curse
3.Solitude
4.Elegy
5.Emptiness
6.The Raven’s Lullaby
7.Barren
8.The Passage

Line-up
Mike Low – Guitars
Emily Low – Vocals
Todd Harris – Guitars
Greg Vance – Drums
Andrew Wampler – Guitars
James Turk – Bass

OUBLIETTE – Facebook

The Passage by Oubliette

Lurk – Fringe

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure

Quella denominata Lurk è l’ennesima mostruosa creatura che avanza strisciante, questa volta non in fangose paludi americane bensì tra le nevi ed i ghiacci dei mille laghi finlandesi.

Fringe è un’opera di devastante potenza, nel corso della quale il quartetto esibisce un doom che, alla preponderante componente sludge, aggiunge anche elementi black e death, andando a formare un quadro davvero intrigante per tutti gli appassionati di sonorità oscure.
Abbiamo così un sound che, nella sua monolicità di fondo, a tratti può richiamare i primissimi Cathedral, come nell’opener Ostrakismos, oppure srotolarsi nel mid tempo black di Reclaim; lo sludge viene offerto nella sua forma più esasperata nella notevole Elan, mentre un più movimentato death doom prende forma in Furrow.
Proteus Syndrome chiude al meglio il lavoro, racchiudendo in sé buona parte delle caratteristiche sopra accennate, a suggello di un operato che lascia ben poco spazio alla melodia ma che offre più di uno spunto capace di agganciare l’ascoltatore, al netto dello snodarsi di un sound sulfureo e pachidermico.
I Lurk sono l’ennesima band che viene portata all’attenzione grazie al meritorio lavoro della Transcending Obscurity, label indiana specializzata nello scavare in profondità nell’undergroung fino al reperimento di grezzi diamanti sonori come questo Fringe.

Tracklist:
1. Ostrakismos
2. Tale Blade
3. Reclaim
4. Elan
5. Offshoot
6. Furrow
7. Nether
8. Proteus Syndrome

Line-Up:
Kimmo Koskinen – Vocals
Kalle Nurmi – Drums
Arttu Pulkkinen – Guitar
Eetu Nurmi – Bass

Guest vocals by Aleksi Laakso on Elan
Alto saxophone by Aino Heikkonen on Ostrakismos

LURK – Facebook

Grimorium Verum – Revenant

Non ci troviamo al cospetto di qualcuno che occupa i piani alti del symphonic black ma neppure di musicisti relegati nei bassifondi , anzi: Andy Felon e Roma Diamond meritano un plauso per un’offerta che non deluderà alla fine chi predilige queste sonorità.

Il recente ritorno dei Dimmu Borgir, campioni indiscussi del symphonic black metal, potrebbe e dovrebbe far accendere nuovamente i riflettori su un sottogenere che ha sempre continuato ad offrire ottime band rimaste, però, nell’ombra a causa dello scemare dell’interesse dei fans per questo sonorità, causa appunto la lunga contumacia dei nomi di punta.

I russi Grimorium Verum non possono essere certo considerati dei neofiti, visto che i loro primi passi risalgono alla fine dello scorso millennio, anche se il primo full length è datato 2008, seguito poi da quelli successivi pubblicati con precisa cadenza triennale.
Revenant è così l’ultimo in ordine di tempo e ci dimostra una band di buono spessore, capace di maneggiare con disinvoltura e buon gusto melodico una materia insidiosa per il forte rischio di debordare che è insita nelle sue caratteristiche.
Forse dieci brani ed un’ora di durata sono un qualcosa di troppo per uno stile musicale così pieno e quindi a forte rischio di saturare l’ascoltatore: ciò non toglie che il buon gusto melodico dei nostri consenta loro di mettere in scena ottime tracce come l’opener The Born Son of the Devil, The Light of Dark Father e The Great Serpentine Saint, esemplari nella loro sintesi tra sonorità estreme, l’impeto atmosferico delle tastiere e le repentine incursioni melodiche della chitarra solista.
Insomma, al netto della prevedibile mancanza di spunti innovativi, l’operato dei Grimorium Verum è decisamente apprezzabile perché Revenant scorre via piuttosto bene senza neppure annoiare nonostante qualche soluzione tenda alla lunga a ripetersi.
Non ci troviamo al cospetto di qualcuno che occupa i piani alti del symphonic black ma neppure di musicisti relegati nei bassifondi , anzi: Andy Felon e Roma Diamond meritano un plauso per un’offerta che non deluderà alla fine chi predilige queste sonorità.

Tracklist:
1. The Born Son of the Devil
2. The Kingdom of the Pain
3. The March of the Northern Kings
4. Blind Faith in Nothing
5. The Light of Dark Father
6. Revenant
7. The Circus of the Dark Illusion
8. Sacred Temple of Blood
9. The Great Serpentine Saint
10. The Resurrected on the Devil’s Hands

Line up:
Andy Felon – Guitars, Bass, Programming
Roma Diamond – Vocals

GRIMORIUM VERUM – Facebook

Pensées Nocturnes – Grotesque

Nuovi stili musicali, nuove avanguardie, influenzano positivamente o inquinano irrimediabilmente il black metal? Un quesito per tutti coloro che approcciano album come Grotesque, della one-man band francese Pensées Nocturnes. A voi l’estrema decisione.

Quello che non manca sicuramente alla one-man band francese dei Pensées Nocturnes è il coraggio.

Al giorno d’oggi, le mille sfumature che ha assunto il black metal, hanno reso il genere sicuramente più accessibile; molti – probabilmente – che in passato aborrivano questa lato estremo del metal, hanno iniziato ad avvicinarsi al genere, anche grazie alla moltitudine di album di sottogeneri, che oggi invadono gli scaffali dei negozi di dischi (o meglio i siti internet, vista la repentina e triste scomparsa del classico negozietto sotto casa).
In Grotesque, album uscito nel 2010 e riedito in vinile quest’anno da Les Acteurs de l’Ombre Productions, oggetto di questa recensione, il genere proposto da Vaerohn si potrebbe definire avantgarde post black metal con sfumature barocco/neoclassiche(!), cantato in francese.
Ma andiamo per gradi. Il primo pezzo Vulgum Pecus, dopo un desolante inizio da marcia funebre, procede senza che, in alcun modo, qualcuno possa identificarne una band black metal. Pezzi orchestrali maestosi, pomposi, legni, ottoni ed archi che sostituiscono i più “tradizionali” strumenti del genere, quali chitarre zanzarose e bassi distorti, in assenza totale di drumming ritmico (blast beat) e parti vocali (scream). La parte terminale accoglie persino un sottofondo di applausi stile Scala di Milano, quasi a voler sottolineare che ciò che andremo ad ascoltare non sarà un semplice album, bensì un vero e proprio concerto sinfonico.
Se non fosse per la durata del pezzo (più di tre minuti) avrei pensato ad un (bellissimo) intro. A questo punto, cresce l’attesa e la curiosità, per il secondo pezzo, Paria, che, dopo alcuni secondi di cacofonica introduzione di batteria e basso, mostra il suo vero intento: struggere l’ascoltatore, deprimerlo sino a condurlo al suicido, annichilendolo al punto da renderlo completamente abulico ed indolente. Un lamento angosciante, costruito su accelerazioni scoordinate e momenti soporiferi, scanditi da batteria e piatti, e da sprazzi di gorgheggi vocali più accostabili ad un tenore, intervallati da urla strazianti (tra lo scream e il growl). Senza soluzione di continuità tra gli strumenti (quasi sempre si ha l’impressione che le basi ritmiche facciano a pugni e che tutto sia improvvisato), il genere proposto da Vaerohn, vacilla tra uno stile che vuole essere estremo, ma che non lo è almeno nel senso letterale del termine, ed un’opera sinfonica, un funeral depressive doom di matrice classica, sostenuto da una base quasi jazzata (ma nel senso disarmonico del termine). Come nella successiva Rahu che, addirittura, sotto ad un vero cantato scream (finalmente) quasi trascende, nelle sue seppur brevi accelerazioni, uno speed metal, inaspettato, e forse mai ascoltato prima. Malinconici arpeggi, accompagnati da violoncelli, fagotti, clavicembali – e chi più ne ha più ne metta – da orchestra barocca, sempre quasi sembrando in disaccordo tra loro, con una voce in bilico tra un lamentoso clean e uno straziante scream/growl , sono ciò che ci si può aspettare, acquistando questo album. Eros è un pezzo più shoegaze inglese che metal vero e proprio, che non fa altro che acutizzare la ferita oramai aperta, per chi si aspettava un album black, o estasiare chi invece era alla ricerca di nuove sperimentazioni sonore. Anche in questa traccia, dopo il classico riff monocorde tipico del genere, diciamo in drone style, si percepisce l’amore smisurato del francese per la musica classica (la parte terminale è un trionfo di trombe e tromboni). Monosis, è il momento più funebre dell’album. Una voce sempre tra il clean, nella sua espressione più lirica, e uno scream strozzato e straziante, che mostra quanto il nostro, più che cantare, voglia esternarci la sua disperazione per la vita terrena. Suoni più da Bladerunner danno un tocco sci-fi al pezzo, subito seguiti da una parentesi folkeggiante – quasi gypsy – da festa di Santa Sara (patrona di tutti i Gitani), che sfocia poi irrimediabilmente nel caos sonoro di ritmiche sparate alla velocità della luce, in completa disarmonia tra loro.
Se qualcuno avesse ancora dubbi sul fatto che Mr.Vaerohn volesse sconvolgerci in qualche modo, ecco che arrivano Hel e la successiva Thokk (depressive cacophonic classic black metal?) emblematici esempi di ciò che abbiamo ascoltato sinora; in Hel qualche inserto di xilofono da film dell’orrore ci ottenebra la mente, ci vaporizza quel poco di luce interiore che ancora ci era rimasta, mentre l’organo da chiesa di Thokk, fa piazza pulita di quel che ci resta di ancora umano.
L’ultima track (un teatralmente tragico pezzo di pianoforte) è Suivante (Seguente), che chiude un drammatico capitolo musicale, quasi sicuramente capolavoro per chi ama la sperimentazione sonora e queste nuove forme artistiche, un deludente (ed inquinante) nuovo approccio al black, per i tradizionalisti.
Il voto 6, deriva dalla media tra 7, per il coraggio e la ricerca di nuovi suoni, e 5 per l’aver voluto inserire la parola black in questo contesto.
Ultima nota di colore, tanto per prenderci ancor più alla sprovvista: face painting d’ordinanza per il nostro, ma più che Abbath pare un misto tra Pennywise e il Joker … Bambini, paura!

Tracklist
1.Vulgum Pecus
2.Paria
3.Râhu
4.Eros
5.Monosis
6.Hel
7.Thokk
8.Suivant

Line-up
Vaerohn – Vocals, all instruments, songwriting, lyrics

PENSEES NOCTURNES – Facebook

Kormak – Faerenus

I Kormak sono una delle band italiane più interessanti uscite negli ultimi anni: epici, potenti, dolci o devastanti, a seconda della necessità.

Album di debutto per i baresi Kormak, che fanno un ottimo folk death metal, con intarsi gothic e la splendida voce della cantante Zaira De Candia, che è davvero un valore aggiunto.

I Kormak nascono nel 2015 e con calma e tanto lavoro sono arrivati ad un debutto che è un ottimo biglietto da visita Una delle loro caratteristiche più importanti è quella di saper cambiare registro musicale in un tempo brevissimo, passando da un leggiadro suon odi flauto ad un massacro con doppie casse e tanto sangue sparso, il tutto fatto sempre con una forte personalità. Il suono sa mutare, ma soprattutto sa sempre trovare il suo corso naturale dove poi sgorgare in maniera impetuosa e forte. Zaira è una moderna furia che si abbatte sull’ascoltatore, ma tutto il gruppo è molto ben affiatato. La cifra stilistica deve molto all’epicità, infatti il nome viene dalla saga islandese Kormaks risalente al tredicesimo secolo. Folk e viking metal, ma non solo, perché in alcune canzoni si rinviene un passo death notevole e assai incisivo. I Kormak sono un gruppo che ha grandi potenzialità che vengono esibite in questo disco, ma la sensazione è che abbiano ancora molto da mostrare. La produzione è buona e valorizza la potenza di questo gruppo riuscendo a non disperderla. In definitiva, i Kormak sono una delle band italiane più interessanti uscite negli ultimi anni: epici, potenti, dolci o devastanti, a seconda della necessità. Faerenus era il luogo della pazzia, nel quale le paure diventavano materiali e i Kormak solo la guida ideale per condurci in questo mondo sotterraneo.

Tracklist
1 – Amon
2 – March of Demise
3 – Sacra Nox
4 – The Goddess’ Song
5 – The Hermit
6 – Faerenus
7 – Patient N° X
8 – July 5th
9 – Eterea El

Line-up
Zaira de Candia – Vocals/Whistle Flutes
Alessandro Dionisio – Guitar
Alessio Intini – Guitar
Francesco Loconte – Bass
Dario Stella – Drums

KORMAK – Facebook

Autumnwind – Endless Fear

Endless Fear è un lavoro interessante, che mette in evidenza le buone potenzialità di un progetto ancora in divenire.

Suonare metal nei paesi mediorientali non è mai una passeggiata di salute, visto che in molti di essi l’egemonia culturale strettamente connessa alla religione comporta persino rischi a livello penale per chi ci prova; non credo che questo sia di norma lo stato delle cose in Siria, dove però purtroppo le difficoltà non devono essere certo da meno, a causa della guerra civile che attanaglia da anni una terra che è stata una delle più antiche culle della civiltà.

GaaRa “Abdulrahman Abu Lail”, con il suo progetto denominato Autumnwind, propone in Endless Fear un black metal atmosferico che tutto sommato lascia uno spazio molto limitato alle pulsioni estreme, rinvenibile in rare accelerazioni, affidando il tutto al lavoro delle tastiere, con le quali vengono tessute buone melodie.
Il riferimento più logico per il sound proposto dal musicista asiatico sono i Lustre, per cui c’è da attendersi fondamentalmente un sound piuttosto lieve, dalla marcata impronta melodica e con diversi elementi ambient.
GaaRa cerca di comunicare, con Endless Fear,  le sensazioni derivanti dagli attacchi di panico dei quali è stato vittima in tempi relativamente recenti: non solo per tale motivo, in questa mezz’ora di musica l’impressione è quella d’avere a che fare con un artista di indubbia sensibilità e con le doti necessarie per potersi ritagliare uno spazio in questa nicchia stilistica.
A mio avviso però, per riuscirci, dovrebbe forse focalizzarsi con maggiore decisione sul lato più evocativo del proprio sound, che emerge con prepotenza in bellissime tracce come The Hallucination e nella title track, mentre quando è l’anima più ruvidamente black a prendere il sopravvento (Forever Insomnia) gli esiti non sembrano altrettanto soddisfacenti.
Endless Fear è comunque un lavoro interessante, che mette in evidenza le buone potenzialità di un progetto ancora in divenire.

Tracklist:
1.The Panic Attack
2.The Hallucination
3.Lost And Alone
4.Forever Insomnia
5.Endless Fear

Line up:
GaaRa “Abdulrahman Abu Lail”

AUTUMNWIND – Facebook

Gwydion – Thirteen

Il suono di Thirteen è molto maturo, con un buon bilanciamento di potenza e melodia per creare un impatto il più epico possibile, con un ampio uso di cori.

Da Lisbona tornano i veterani viking folk metal Gwydion, attivi dal 1995, qui al loro quarto album.

Il suono di Thirteen è molto maturo, con un buon bilanciamento di potenza e melodia per creare un impatto il più epico possibile, con un ampio uso di cori. Il gruppo portoghese è convinto dei propri mezzi, lo mostra nel disco, e con questa sicurezza forgia un suono che si distingue nel mare magnum del viking folk rock. Il nome viene dalla mitologia gallese, e non basterebbe questo spazio per parlarne, per cui ricercate per conto vostro, perché il viking folk metal è anche questo, ovvero dare spunti per belle ricerche storiche e la storia di Gwydion è molto interessante. Tornando alla musica del gruppo portoghese, il disco narra di battaglie e lotte senza quartiere, con la musica perfettamente calata in questo contesto. Essendo una band non proprio giovanissima, i Gwydion puntano moltissimo sulla resa che il disco avrà dal vivo, ed infatti il tutto è costruito per essere poi trasposto sul palco. Il suono è calibrato, la voce è un growl non pesante, e i cori molto puliti e ben composti le fanno da contraltare, con gli strumenti che si cimentano in vari stop and go che non spezzettano affatto il suono, ma anzi lo rinforzano per arrivare al climax del ritornello. Questo disco è ciò che vuole essere, ovvero un battaglia sonora, un assalto all’arma bianca, che riprenda l’estetica e l’etica vichinga. I Gwydion sono tra i veterani del suono viking folk metal europeo e ne sono uno dei migliori interpreti per quanto riguarda la parte melodica che si unisce alla parte più veloce, interpretandolo in maniera pienamente epica. Un disco che potrebbe essere un buon inizio per chi ancora non conosce questo suono, ma che piacerà ovviamente anche agli ascoltatori più esperti.

Tracklist
01.Heathen
02.793
03.Balverk Warfare
04.Strength Remains
05.King’s Last Breath
06.Revenge
07.Under siege
08.Shield Maiden’s Cry
09.Thirteen Days
10.Oh Land Of ours – Al Andaluz
11.Voyage
12.Allah’s Tagides

Line-up
Pedro Dias – Vocals
Daniel César – Keyboards
Miguel Kaveirinha – Lead Guitar
João Paulo – Rhythm Guitar
Bruno Henriques – Bass
Pedro Correia – Drums

GWYDION – Facebook

Aornos – The Great Scorn

Quello di Algras non corrisponde ad un mero collage di spunti altrui ma si rivela, invece, una maniera efficace e competente di riunire tali istanze per restituirle in una forma piuttosto personale e tutt’altro che ammiccante.

La one man band Aornos, nonostante la sua attività intensa sua racchiusa negli ultimi tre anni, non è certamente il progetto di un neofita del black metal.

Algras, infatti, è protagonista nella scena ungherese con i Frost fin dall’inizio del secolo e quindi le sue influenze primarie non possono che giungere da lontano.
A tale riguardo, prima ancora di ascoltate i contenuti di The Great Scorn, per farsene un’idea preventiva sarebbe sufficiente scorrere la tracklist dell’album uscito lo scorso anno , con il quale il musicista magiaro rendeva omaggio a diversi giganti del genere (Emperor, Satyricon, Bathory, Arctusrus e Thorns) oltre ad una non certo sorprendente digressione nel death con i Morbid Angel.
Quello di Algras non corrisponde ovviamente ad un mero collage di spunti altrui ma si rivela, invece, una maniera efficace e competente di riunire tali istanze per restituirle in una forma piuttosto personale e tutt’altro che ammiccante.
Ovviamente The Great Scorn non è un album destinato a stravolgere le gerarchie del genere, ma appare semmai la testimonianza di quanto di interessante ci sia da dire al riguardo in più parti del mondo.
Una serie di ottimi brani, tra i quali spiccano la trascinante The Kingdom of Nemesis, la teatrale title track e ed il quarto d’ora complessivo delle conclusive Funeral March for the Death of the Earth e Adamante Notare, ripagano ancora una volta la costante ricerca di nomi e volti ancora relativamente sconosciuti.

Tracklist:
1. Ad Futuram Memoriam
2. From a Higher Reality
3. The Kingdom of Nemesis
4. Trace to Beckoning Fade
5. Come and See
6. The Great Scorn
7. De Profundis
8. Funeral March for the Death of the Earth
9. Adamante Notare

Line up:
Algras – All instruments, Vocals

AORNOS – Facebook