The Helldozers – Carnival

Non sono eleganti e raffinati gli The Helldozers, anzi sono brutti, sporchi e cattivi ma a noi piacciono proprio per questo, quattro teppisti persi tra la bruma tedesca giocando a fare i cowboy, divertendosi e facendoci divertire.

Tedeschi, ma dal sound e dall’impatto che più americano di così non si potrebbe, tornano i The Helldozers con il secondo lavoro sulla lunga distanza  a base di groove southern metal.

La band originaria di Colonia è attiva dal 2010 e dopo aver dato alle stampe due mini cd ed il primo album (Hate Sweet Hate) ci sconquassa con Carnival, nuovo lavoro che conferma la belligeranza metal’n’roll con cui infiammano i palchi del centro Europa.
Una serie di cannonate che lasciano una scia di fumo, mentre le vittime sono finite a colpi di machete dal teschio sudista che, con sguardo pericolosamente ironico, fa bella mostra di sè sulla cover del cd.
Le foreste tedesche divengono il deserto statunitense, ed è un attimo tramutare la rigogliosa e umida natura delle terre germaniche in sabbia del deserto, che maligna si fa spazio in ogni poro mentre il gruppo comincia il suo macello sonoro con Burning Like A Flame, opener di questo assalto southern metal, tutto groove e whiskey.
I The Helldozers rompono gli indugi e fin dalle prime avvisaglie veniamo travolti dall’impatto del quartetto, i brani si susseguono violenti e colmi di groove,  grazie un metal-rock di matrice live, un carro armato che non si ferma e travolge tutto a colpi di Pantera, Motorhead (che tributano con la traccia We Love Motorhead), ed un pizzico di Metallica, ma quel tanto per rendere l’assalto sonoro leggermente più melodico.
Non sono eleganti e raffinati gli The Helldozers, anzi sono brutti, sporchi e cattivi ma a noi piacciono proprio per questo, quattro teppisti persi tra la bruma tedesca giocando a fare i cowboy, divertendosi e facendoci divertire.

TRACKLIST
1.Burning like a Flame
2.Not My Way
3.Carnival
4.Dead or Alive ’16
5.Hell
6.Fuck the King
7.Dark Water
8.Bullet in a Gun
9.Revolution ’16
10.Life Is a Fucking Game ’16
11.We Love Motörhead ’16
12.Don’t Be like Me

LINE-UP
Atha Vassiliadis – Guitars
Philipp Reissfelder – Guitars, Vocals, Bass
Tony Rynskiy – Vocals
Alex Müller – Drums

THE HELLDOZERS – Facebook

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Aksaya – Kepler

Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è assai notevole poiché esula dal mero significato black, per andare a ricercare qualcosa di diverso.

Fondati nel 2013 i francesi Aksaya non sono affatto un gruppo black comune, poiché hanno una forte impronta personale, che rende unico il loro suono.

Sin dalle prime battute di Kepler gli Aksaya rendono satura l’atmosfera con il loro black geneticamente modificato, che si muove tra l’ortodossia classica, l’atmospheric, un pizzico di depressive e una forte carica hardcore. I tempi sono veloci ma all’occorrenza si dilatano, per trovare soffocanti aperture melodiche, che puntellano maggiormente l’impianto di sofferenza. Gli Aksaya parlano delle nostre vite, di sofferenza e della guerra che quotidianamente combattiamo, e che a volte si trasferisce sui tristemente noti campi di battaglia. Non c’è speranza in questo affascinante tipo di black metal, ma solo una dolorosa catarsi, che comunque non è poco. La potenza del gruppo è molto ben calibrata e precisa e si abbatte in improvvise sfuriate, ma la loro peculiarità maggiore è il fare mid tempo davvero carichi, progressivi e molto strutturati. Sono presenti anche pezzi più melodici, che impreziosiscono il tutto. Il cantato in francese conferisce un timbro molto personale alla musica degli Aksaya, e ciò funziona splendidamente, poiché la metrica della lingua dell’esagono è assai votata alla potenza.
Kepler è un disco non comune e nemmeno conforme, ma che segue una poetica tutta sua, ed è notevole poiché esula dal mero significato black per andare a ricercare qualcosa di diverso. Tutto l’album è sopra il buono, mentre alcuni passaggi sono davvero entusiasmanti.

TRACKLIST
1.Kepler
2.Laїka
3.Fractale
4.Anomalie, Prélude À La Découverte
5.Tau Ceti E
6.Syn 1.0
7.K-701.04
8.Non Morietur

AKSAYA – Facebook

Hell’s Crows – Hell’s Crows

Un album spettacolare di power heavy prog metal perfettamente in bilico tra la tradizione europea e quella americana.

Nel nostro paese si continua a fare grande musica metal, molte volte purtroppo poco considerata da fans e addetti ai lavori ma supportata dalle webzine di riferimento che, con volontà e passione, provano ogni giorno a cambiare questo trend tutto italiano.

Si perché una band come gli oscuri, potenti e melodici Hell’s Crows, in Germania (tanto per fare un esempio di terre metalliche) sarebbero sicuramente sulla bocca e nelle orecchie degli amanti dei suoni heavy power, di quelli ricamati come negli ultimi anni di parti progressive che non solo sottolineano la bravura dei musicisti ma donano un tocco nobile al sound dei gruppi.
Niente di nuovo, per carità, ma entusiasmante sì, specialmente quando si parla di schiacciare il pedale a tavoletta, partire sgommando con cavalcate heavy, colme di drammatica oscurità, mentre i corvi pasteggiano sui cadaveri dei più deboli di cuore.
Gli Hell’s Crows avevano già dato prova delle loro capacità nei primi due lavori , il demo licenziato nel 2008 e l’ep Screaming Death uscito due anni dopo, dunque sette anni sono passati prima che gli uccelli infernali tornassero a banchettare sulla terra, questa volta aiutati dalla Valery Records e da un album spettacolare: power heavy prog metal, perfettamente in bilico tra la tradizione europea e quella americana, un passato da band hard rock ed un futuro tra Symphony X, Iron Maiden e Judas Priest, mentre Back To The Future continua a girarmi nella testa, le atmosfere di drammatico metallo americano si alternano alle cavalcate maideniane e alle taglienti chitarre priestiane che animano brani come Fall Of The Divine e Nightmares.
Hanno vita facile gli Hell’s Crows, vista la qualità del songwriting, le intuitive parti progressive che tanto sanno di Symphony X, obbligata parentesi per entrare nei cuori dei defenders del nuovo millennio, ed un vocalist dal talento melodico sopra la media, senza perdere un grammo di quell’attitudine old school che mette d’accordo pure gli ascoltatori più avanti con gli anni (Across The Sea).
All’inno Hell’s Crows è lasciato il compito di concludere l’album e darci l’arrivederci sui palchi di un’estate calda, troppo calda, specialmente se gli uccelli di nero piumato si poseranno sul davanzale della vostra casa.

TRACKLIST
1.Prelude To Decadence
2.Fall Of The Divine
3.Back To The Future
4.Mechanical Quantum
5.Fist Of Steel
6.Sons Of The Wind
7.Nightmares
8.Executioner
9.Across The Sea
10.In The Eyes Of Raider
11.Hell’s Crows

LINE-UP
Randy Rush – Vocal, Guitar
Yuri Fetisov – Lead Guitar
Alan Johns – Bass
Johnny Pezzola – Drums

HELL’S CROWS – Facebook

Van Halst – World Of Make Believe

Un album americano doc in cui la componente alternative ha il sopravvento su quella gotica, con buone idee che diventano geniali quando il diavolo ha la meglio sui vampiri ed il blues irrompe con tutto il suo dannato appeal nel sound del gruppo.

I Van Halst sono un gruppo canadese presentato come gothic metal band, ma che di gotico hanno davvero poco, se non il monicker, il look che fa tanto Underworld (il film sui vampiri con la bellissima Kate Beckinsale) e qualche accenno agli Evanescence nei brani intimisti e melanconici, mentre per il resto si viaggia discretamente sullo spartito di un alternative metal dal buon tiro.

La voce aggressiva della cantante Kami Van Halst fa il resto, avvicinando il gruppo a band di hard rock moderno stile Halestorm, quindi partite con il piede giusto con l’ascolto dell’album e World of Make Believe saprà regalarvi buone soddisfazioni.
Tensione a mille, ritmiche dure richiamanti il modern metal, linee vocali che seguono il trend growl/voce pulita e, come già espresso, un tocco di oscura malinconia nelle ballad, variano quel tanto che basta per arrivare alla fine senza fatica,: l’ascolto infatti viene valorizzato da una buona produzione e da suoni puliti, con la prova della vocalist che nel mezzo del mare di interpreti sdolcinate e operistiche risulta una buona variante al genere.
Il resto lo fanno le canzoni, alcune molto belle (Ryan’s Song, la title track,) altre leggermente soffocate da una coltre di nebbia gotica, altre clamorose come il blues sporco di sangue che cola dai canini aguzzi di Put Him Down.
Un album americano doc in cui la componente alternative ha il sopravvento su quella gotica, con buone idee che diventano geniali quando il diavolo ha la meglio sui vampiri ed il blues irrompe con tutto il suo dannato appeal nel sound del gruppo.
La band canadese, se saprà sviluppare le buone idee che a tratti valorizzano World Of Make Believe, di certo potrà ritagliarsi il suo spazio nel mondo del metal alternativo, perché le potenzialità ci sono tutte.

TRACKLIST
1. The End
2. Save Me
3. Ryan’s Song
4. World of Make Believe
5. Questions
6. Denying Eyes
7. Monster
8. Plastic Smile
9. Put Him Down
10. Perfect Storm

LINE-UP
Kami Van Halst – Vocals
Scott Greene- Guitar
Tara McLeod- Guitar
Brett Seaton- Drums
Brendan McMillan- Bass

VAN HALST – Facebook

Don’t Try This – Wireless Slaves

Un esordio che non passerà inosservato quello dei Don’t Try this: un perfetto connubio tra rabbia, potenza e melodia sorprenderà anche l’ascoltatore più esigente.

I Don’t Try This ci provano eccome, con questo disco d’esordio ricco di musica, pensieri ed energia.

Nonostante la band tedesca definisca la propria musica come “Modern-Metal”, devo dire che risulta davvero difficile inquadrarli in un qualche genere di sorta.
Proprio per questa ragione, ho pensato che potrebbe essere un po’ più utile fare una breve analisi delle songs che compongono questo intenso Wireless Slaves.
Il disco si apre con due pezzi molto potenti e diretti, nei quali screaming e growling si alternano a momenti di pura energia, ma anche di una strana quiete apparente (Suffocation e When They Rise); successivamente, i Don’t Try This ci fanno ascoltare qualcosa di più melodico, meno aggressivo grazie a Nothing Is Like Before e My Burden; il colpo di scena lo incontriamo con la piacevole e acustica Falling Deeper, di cui è presente anche la demo registrata nel 2013.
I momenti di melodia continuano attraverso The End of Everything, una delle tracce che ho apprezzato maggiormente per il suo ritornello e il cantato pulito; la potenza della band riprende con la collaborazione di Rudi Schwarzer in I Will Never Forget, di cui troveremo la Piano Version alla fine dell’album; Living A Lie mostra un lato più malinconico e introspettivo del gruppo, un pezzo che permette di tirare un pò il fiato, mentre I.W.N.E. vs. Polytox è un qualcosa di inspiegabile, sembra provenire dai Depeche Mode, molto intensa la presenza di componenti elettronici ad arricchire e “stranire” il sound, non so davvero se fosse necessaria questa canzone.
Wireless Slaves arriva alla fine con due brani (Falling Deeper e The Requiem) tratti dal demo del neanche troppo lontano 2013, utili per dimostrare il progresso generale di questi ragazzi, e I Will Never Forget eseguita magnificamente con il piano.
Ascoltando questo primo lavoro dei Don’t Try This , si nota molto chiaramente quanto la voglia di distinguersi sia tanta, ma anche quanto impegno e studio ci sia dietro tutto questo.
Non si tratta quindi di una decina di canzonette buttate lì solo per dire di aver “scritto un cd”, bensì di un qualcosa di ben strutturato e pensato razionalmente.
Considerando anche la giovane formazione, ritengo che Wireless Slaves si dimostri come una piacevole rivelazione e non posso che incoraggiare il talento dimostrato.
Dovrebbe partire a breve il loro tour, io non me li farei sfuggire se fossi amante del metal più forte, ma comunque ricercato e non solo urlato.

TRACKLIST
01 – Suffocation
02 – When They Rise
03 – Nothing Is Like Before
04 – My Burden
05 – Falling Deeper
06 – The End Of Everything
07 – I Will Never Forget (feat. Rudi Schwarzer)
08 – Living A Lie
09 – I.W.N.F. Vs. Polytox
10 – Falling Deeper (Demo 2013)
11 – The Requiem (Demo 2013) [feat. David Baßin]
12 – I Will Never Forget (Piano Version)

LINE-UP
Carlo Kasanya – voce
Markus Kopitzki – basso
Stephan Renner – chitarra
Philipp Müller – chitarra
René Wähler – batteria

DON’T TRY THIS – Facebook

Hypocras – Implosive

Un folk metal semplice e battagliero, infuocato di passione che brucia per le tematiche care al viking.

Dalla Svizzera, abbattendo tutto quello che incontra a colpi di zanne, arriva la carica del cinghiale simbolo degli Hypocras, band di Ginevra al secondo ep in carriera, intervallato da un full length uscito nel 2013 (The Seed Of Wrath).

Il gruppo death viking metal dagli spunti folk, rilascia questo mini cd di quattro brani, con due inediti (Implosive Absolution e At The Edge), la cover di A Song for Them dei Djizoes ed una versione alternativa pop techno di At The Edge che, sinceramente, con il genere suonato centra veramente poco.
I due brani inediti ci presentano un gruppo tosto, il metal estremo di questi ragazzi svizzeri è senza fronzoli e diretto pur mantenendo l’approccio folk dato dal flauto, sempre presente nella struttura delle canzoni.
Un folk metal ignorante, se mi passate il termine usato per altri generi, semplice e battagliero, infuocato di passione che brucia per le tematiche care al viking metal e che ha permesso al gruppo di aprire per nomi di un certo rilievo come Orphaned Land ed Ensiferum.
Peccato per la versione da spiaggia e cocktail di At The Edge, che vorrà senz’altro essere uno scherzo ma che in un ep già di per se corto avremmo lasciare spazio ad brano originale, da assalto al fortino.
Comunque il gruppo si fa valere, aspettiamo il prossimo full length per vedere all’opera un cinghiale ancora più inferocito.

TRACKLIST
1.Implosive Absolution
2.At the Edge
3.A Song for Them (Djizoes cover)
4.At the Edge (Fucked Up Ibiza Vikings Remix by BAK XIII)

LINE-UP
Nicolas SauthierGuitars – Guitars
Arnaud Aebi – Flute
Alexandre Sotirov – Vocals
Benjamin Alfandari – Bass
Olivier Sutter – Drums

HYPOCRAS – Facebook

Fen – Winter

Opere che emozionano cosi profondamente sono perle rare che non possiamo perdere.

Ritornano gli albionici Fen con il loro quinto full a tre anni di distanza da “Carrion Skies”, un altro meraviglioso opus, intriso di quella oscura vena malinconica, figlia diretta della paludosa zona dell’est dell’Inghilterra da cui provengono, le Fenland.

Il trio inglese, attivo dal 2007, continua ad elaborare un suono che si bilancia sempre meglio tra intuizioni post-rock e influssi black metal creando un equilibrio che ha pochi eguali; la nuova opera Winter, dalla copertina, come al solito, evocativa e dalle tinte pastello si dipana per una abbondante ora in sei movimenti (Pathway, Penance, Fear, Interment, Death, Sight) che descrivono il senso di perdita e l’eterno dilemma vita – morte, conducendo noi ascoltatori a un profondo viaggio interiore ricco di contrasti e dubbi; l’opera nella sua alternanza di atmosfere tristi, meditative e momenti black condotti con grande maestria da una solida sezione ritmica, da un guitar sound convinto e variegato e da uno scream incisivo, ha bisogno di essere centellinata con molti attenti ascolti perché, ad un approccio superficiale non rivela la sua alta qualità.
Le atmosfere suggestive sono molteplici, passando dall’ opener di diciassette minuti, Pathway, dove anime sferzate da tormente di neve urlano la loro ribellione all’infinito, al viaggio introspettivo di Fear dove una circolare melodia si infrange su stalattiti black affilate e disperate; l’urlo feroce di Death non lascia scampo e ci trasporta velocemente verso una “blessed death”, mentre i delicati arpeggi tinteggiati di ambient di Sight si aprono in una ultima decisa cavalcata che conclude un lavoro superbo … I Surrender, I Descend, I Dissolve, I End.
Da ricordare a lungo .

TRACKLIST
1. I (Pathway)
2. II (Penance)
3. III (Fear)
4. IV (Interment)
5. V (Death)
6. VI (Sight)

LINE-UP
Grungyn Bass, Vocals
The Watcher Guitars, Vocals
Derwydd Drums, Percussion

FEN – Facebook

Malacoda – Ritualis Aeterna

Il gruppo accontenterà gli appassionati del metal elegantemente sinfonico e dalle tinte dark, anche se per uscire dai confini dell’underground servirebbe un colpo d’ala, ma noi ci accontentiamo e promuoviamo i Malacoda.

Un altra band proveniente dal Canada nel mirino di MetalEyes, questa volta con sonorità power sinfoniche e dalle atmosfere gotiche.

Da Oakville (Ontario) arrivano i Malacoda, un quintetto che può annoverare tra le proprie fila il talento di Jonah Weingarten, tastierista dei prog metallers Pyramaze.
Ritualis Aeterna continua nella strada tracciata dal primo album pubblicato nel 2015, con un’affascinante copertina e buone orchestrazioni sinfoniche, viaggiando al ritmo di un gothic power metal dalle tinte horror, molto melodico e a suo modo teatrale, senza forzare troppo sull’aspetto estremo, così da mantenere un appeal discreto anche per chi non è fanatico delle sonorità dalle tinte dark.
Sinfonie di scuola power, molto comuni di questi tempi, si alleano con una forma di teatralità gotica e quindi ne esce un’opera a tratti sontuosa, anche se sviluppata nella durata di un mini cd, ma molte volte questo è più un bene che un male.
E, infatti, Ritualis Aeterna si lascia ascoltare senza patemi, assolutamente perfetto nel coniugare l’horror metal al power di scuola Rhapsody e Kamelot, dunque elegante il giusto e valido nel sostituire l’epicità del gruppo nostrano con atmosfere gotiche.
Penny Dreadful è l’opener perfetta in cui tutto il sound è riassunto in quasi sei minuti di ottima musica metal orchestrale, mentre I Got A Letter è più moderna e dark, quasi ottantiana nel suo amalgamare dark rock e metal classico.
Pandemonium è il brano top dell’ep, con l’alternanza di cori operistici e growl di estrazione death, The Wild Hunt è teatrale e drammatica e la sua atmosfera oscura valica il confine con la seguente Linger Here, ballad dark wave di respiro rock/pop.
Il gruppo accontenterà gli appassionati del metal elegantemente sinfonico e dalle tinte dark, anche se per uscire dai confini dell’underground servirebbe un colpo d’ala, ma noi ci accontentiamo e promuoviamo i Malacoda.

TRACKLIST
1.Penny Dreadful
2.I Got A Letter
3.Pandemonium
5.The Wild Hunt
6.Linger Here
7.There Will Always Be One

LINE-UP
Cooper Sheldon – Bass
Mike Harshaw – Drums
Brad Casarin – Guitars
Lucas Di Mascio – Guitars, Vocals
Jonah Weingarten – Keyboards, Orchestration

MALACODA – Facebook

Marche Funèbre – Into The Arms Of Darkness

Il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se non mancano margini di ulteriore miglioramento.

I belgi Marche Funèbre appartengono a quella tipologia di band che hanno avuto una crescita graduale nel corso degli anni.

Se il primo lavoro su lunga distanza, To Drown, aveva ricevuto pareri discordanti, Root Of Grief aveva già mostrato una progressione importante che non era però ancora sufficiente per portare il gruppo fiammingo al livello delle migliori realtà europee del death doom: l’operazione riesce con questo buonissimo Into The Arms Of Darkness, per la soddisfazione degli estimatori del genere.
Va detto subito che l’album ruota indubbiamente attorno ad un brano magnifico come Lullaby of Insanity, che gode di soluzioni melodiche di gran pregio e si imprime con un certo agio nella memoria, nonostante la sua lunghezza sfiori il quarto d’ora (condivisibile al 100% la scelta di abbinarvi un riuscito video); il risultato è ottimale grazie alle soluzioni brillanti che ben si sposano con l’interpretazione vocale versatile e sentita di Arne Vandenhoeck, con l’unico neo di un break centrale recitato che, per quanto funzionale a livello lirico, finisce inevitabilmente per spezzare il pathos del brano.
A proposito del vocalist, è apprezzabile la sua capacità di districarsi con disinvoltura tra growl, scream e clean vocals, anche se queste ultime non sempre sono stabili per intonazione, ma ciò viene compensato da una spiccata carica evocativa; il riferimento naturale a livello stilistico non può che essere comunque Stainthorpe, per il tipico incedere cantilenante che tutti noi abbiamo imparato ad amare.
Del resto l’interpretazione del genere dei Marche Funèbre è quanto mai ortodossa e trae linfa, appunto, dalla tradizione del death doom albionico, per conferirvi poi una certa vis melodica espressa dal pregevole lavoro di Peter Egberghs alla chitarra solista, ma rinunciando all’uso delle tastiere, strumento che in certi frangenti si sarebbe rivelato utile per riempire un sound talvolta troppo asciutto (come per esempio nel brano di chiusura The Garden of All Things Wild).
Detto ciò, Into The Arms Of Darkness è un disco che parte con il piede giusto fin dall’opener Deprived e così si snoda, prima tramite un’altra traccia dall’andamento simile (Capital of Rain) e contrassegnata da sempre buone linee melodiche, poi con un brano relativamente differente per ritmiche e costruzione come Uneven, carico di tensione nella sua parte iniziale per poi stemperarsi in un lento e più tradizionale deflusso sonoro.
L’episodio conclusivo è invece ingannevole, perché per 2/3 del suo sviluppo appare troppo ripiegato sulle posizioni dei My Dying Bride nella loro versione più statica, ma si riscatta ampiamente con una parte finale dall’elevata emotività: in ogni caso, gli sporadici cali risultano un peccato veniale allorché inseriti nel contesto di un’opera dalla durata corposa, non andando ad inficiarne in alcun modo la resa complessiva.
Sebbene perfettibile in qualche frangente, il terzo full length dei Marche Funèbre è sicuramente quello della consacrazione, anche se ritengo che ci siano abbondanti margini per fare ancora meglio: l’importante monicker prescelto pesa un poco sulle spalle dell’ottima band belga, creando negli appassionati elevate quanto inevitabili aspettative che, comunque, in quest’occasione sono state ampiamente mantenute.

Tracklist:
1. Deprived (Into Darkness)
2. Capital of Rain
3. Uneven
4. Lullaby of Insanity
5. The Garden of All Things Wild

Line up:
Dennis Lefebvre – Drums
Peter Egberghs – Guitars, Vocals
Kurt Blommé – Guitars
Arne Vandenhoeck – Vocals
Boris Iolis – Bass, Vocals

MARCHE FUNEBRE – Facebook

Malignance – Architects Of Oblivion

Un gran ritorno per un gruppo fedele al metal e che, senza tanti proclami e pose, fa un disco da riascoltare spesso, mentre fuori scorre la vera battaglia chiamata quotidianità.

Dopo quattordici da Regina Umbrae Mortis tornano i genovesi Malignance e lo fanno con prepotenza.

Nato nel 2000 dall’incontro del chitarrista Arioch, del bassista Achemar e del cantante Krieg, il gruppo muove i primi passi con un suono death thrash che lascia ben presto spazio all’attuale black, ma le influenze originarie, come potrete ascoltare nel disco, non vanno affatto perse. Nel 2001 viene rilasciato l’ep Ascension To Obscurity, per poi firmare per BOTD e pubblicare il full length Regina Umbrae Mortis, che vi consiglio di andare a recuperare perché è un disco notevole. Nel 2005 i Malignance partecipano allo spilt De Vermis Misteris, che fin dal titolo mi sembra sia chiaro di cosa si tratti, e Arioch in quel momento decide di sospendere le attività dei Malignance per dedicarsi ad altri progetti. Nel 2015 Arioch e Krieg danno nuovamente vita ai Malignance per arrivare a questo nuovo Architects Of Oblivion . I Malignance usano generi conosciuti ma li rielaborano alla loro maniera per arrivare a quello che definirei Genoan Battle Metal, perché sarebbe piaciuto ai balestrieri medioevali genovesi che andavano a conquistarsi fama e morte in battaglie lontane. Il cantato è quasi sempre pulito, a parte qualche momento di maggior concitazione, e la musica è molto potente, con composizioni di notevole intensità che hanno il gusto di metal antico e moderno allo stesso tempo. Architects Of Oblivion non si esaurisce certo in quanto detto poco sopra ed ha molte sfumature, anche melodiche, ma è sopratutto un forte concentrato di lucida potenza metal, e di quest’ultimo ne è un ottimo distillato. Basso slappato come nella vecchia scuola, chitarre che avanzano come falangi e la batteria che lancia dardi infuocati. Un gran ritorno per un gruppo fedele al metal e che, senza tanti proclami e pose, fa un disco da riascoltare spesso, mentre fuori scorre la vera battaglia chiamata quotidianità.

TRACKLIST
1.Architects of Oblivion
2.Iron of Janus
3.Nakedness of Evil
4.Hekate Kleidoukos
5.Thy Raven Wings
6.Industrial Involution
7.Hailstorm of Malignance
8.Gods of the Forsaken
9.The negative spiral of Self Indulgence
10.And then I shall fall

LINE-UP
David Krieg – Vocals
Arioch – Guitars, bass, drum programming

Live Members:
Lord of Fog – drums
Eligor – Guitars
Actaeon – Bass

MALIGNANCE – Facebook

Pyogenesis – A Kingdom To Disappear

Metal estremo che si trasforma, fagocitato e poi riversato sotto altre forme da un’entità geniale che fa dell’ eclettismo la sua micidiale arma musicale.

Siamo passati dalla locomotiva del precedente e bellissimo A Century In The Curse Of Time al dirigibile di questo nuovo lavoro intitolato A Kingdom To Disappear, ma il risultato per i Pyogenesis non cambia, così che andiamo ad archiviare l’ennesimo geniale lavoro di un gruppo unico.

Il sound dei Pyogenesis nel suo toccare molte delle svariate forme del metal e del rock rimane quanto di più originale ci si trovi al cospetto nell’anno di grazia 2017, dunque anche il nuovo album tocca livelli qualitativi imbarazzanti per almeno i tre quarti dei gruppi odierni.
E così Flo V.Schwarz e compagni ci fanno partecipi di un altro viaggio per la musica del nuovo millennio, come un libro che racconta dei cambiamenti sociali avvenuti nel diciannovesimo secolo tra atmosfere e sfumature cangianti di un sound che porta la firma del combo tedesco, e non potrebbe essere altrimenti.
Metal estremo che si trasforma, fagocitato e poi riversato sotto altre forme da un’entità geniale che fa dell’ eclettismo la sua micidiale arma musicale, dandola in pasto in questo nuovo millennio che purtroppo non segue la voglia di progresso del diciannovesimo secolo ma è, invece, brutalmente impantanato nella pochezza dell’uomo moderno.
I Pyogenesis consegnano un’altra perla musicale, coinvolgente nelle sue molteplici forme che vanno dall’intro orchestrale che porta alla death oriented Every Man For Himself… And God Against All, al groove metal dal ritornello melodico di I Have Seen My Soul, al capolavoro A Kingdom To Disappear ( It’s Too Late), perfetto connubio tra i Type O Negative ed i Beatles, mentre New Helvetia risulta un brano acustico dall’incedere dolcemente medievaleggiante.
Le sorprese come vedete non mancano, la new wave dai rimandi ottantiani viene toccata da That’s When Everybody Gets Hurt, mentre l’alternative rock di We (1848) ribadisce ancora una volta l’assoluta mancanza di barriere e confini musicali di questi geniali musicisti tedeschi.
Il finale è lasciato alla lunga suite epico orchestrale Everlasting Pain, che chiude questo bellissimo secondo capitolo della trilogia iniziata con il precedente lavoro e di cui A Kingdom To Disappear è il perfetto seguito.
Un’opera che nella sua interezza sta assumendo sempre di più i risvolti di un pietra miliare …  to be continued.

TRACKLIST

1.Sleep Is Good (Intro)
2.Every Man for Himself… and God Against All
3.I Have Seen My Soul
4.A Kingdom to Disappear (It’s Too Late)
5.New Helvetia
6.That’s When Everybody Gets Hurt
7.We (1848)
8.Blaze, My Northern Flame
9.Everlasting Pain

LINE-UP

Flo Schwarz – Guitars, Vocals, Keyboards
Malte Brauer – Bass
Jan Räthje – Drums
Gizz Butt – Guitars

VOTO
9

URL Facebook
http://www.facebook.com/pyogenesis

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO
dandola in pasto in questo nuovo millennio che purtroppo non segue la voglia di progresso del diciannovesimo secolo ma è invece brutalmente impantanato dalla pochezza dell’uomo moderno.

Fit For An Autopsy – The Great Collapse

Il deathcore mostra la corda già da un po’, ma sono i lavori come The Great Collapse che mantengono vivo l’interesse per questo esempio di musica estrema.

I Fit For An Autopsy fanno parte di quelle band della scena deathcore arrivate quando il treno del successo è appena partito dalla stazione, ed è inutile rincorrerlo: così, pur mantenendo un buon seguito negli States, non si possono certamente considerare popolari in Europa.

Eppure il gruppo originario del New Jersey non è certo fatto di novellini, essendo attivo da quasi dieci anni ed arrivando al traguardo del quarto full length con questa incudine musicale dal titolo The Great Collapse, album di deathcore pesantissimo e monolite esempio di fredda musica metallica.
Estranei ai facili cliché del metalcore da adolescenti, i Fit For An Autopsy sono una macchina perfettamente oliata in tutti i suoi ingranaggi con la missione di far male il più possibile.
Le chitarre sature di watt, le ritmiche sincopate alternate a granitici mid tempo e la voce in growl, senza la minima apertura melodica, fanno di The Great Collapse un esempio di death metal dai suoni moderni e, a suo modo, senza compromessi.
Dolore, puro dolore, è quello che si respira in ogni passaggio, enfatizzato da brani oscuri e terrificanti come l’opener Hydra, la successiva Heads Will Hang, la terribile Iron Moon, mentre il gruppo rifila schitarrate di melodico terrore tra le pesanti atmosfere dei brani e lascia che l’impatto e l’aggressività siano enfatizzate da solos di estrazione death, che comprovano l’assoluta attitudine estrema dei sei musicisti americani.
Il deathcore mostra la corda già da un po’, ma sono i lavori come The Great Collapse che mantengono vivo l’interesse per questo esempio di musica estrema.

TRACKLIST
1. Hydra
2. Heads Will Hang
3. Black Mammoth
4. Terraform
5. Iron Moon
6. When The Bulbs Burn Out
7. Too Late
8. Empty Still
9. Spiral

LINE-UP
Joe Badolato – Vocals
Will Putney – Guitar
Patrick Sheridan – Guitar
Tim Howley – Guitar
Peter Spinazola – Bass
Josean Orta – Drums

FIT FOR AN AUTOPSY – Facebook

Patria – Magna Adversia

L’aggettivo più calzante per un lavoro come Magna Adversia è “completo”, in quanto non manca nulla di ciò che l’appassionato ricerca in un album black.

I Patria sono da un decennio gli esponenti più in vista del black metal brasiliano.

Indubbiamente tale status è dovuto anche alla notevole prolificità della band, considerando che Magna Adversia ne è il sesto full length, attorniato da una sequela di uscite minori. Del resto, nella scena musicale odierna, ed ancor più nell’underground metal, è quanto mai importante dare frequenti segnali di vita per non farsi dimenticare, venendo soppiantati da altri nomi.
I Patria indubbiamente aderiscono a tale modello e lo fanno per di più (cosa fondamentale) unendo alla quantità quella qualità di cui quest’ultimo lavoro non fa certo difetto.
Il black metal, nell’interpretazione fornita dalla coppia Mantus / Triumphsword, aderisce in maniera piuttosto fedele ai dettami nordeuropei, con una certa tendenza verso le sonorità della scuola svedese, nonostante in questa occasione i nostri si avvalgano dell’aiuto di nomi pesanti della scena norvegese quali Asgeir Mickelson alla batteria e Øystein G. Brun alla produzione.
Forse anche grazie a questo incontro tra diversi flussi di ispirazione che vanno a fondersi con un gusto melodico ben radicato nelle radici latine dei musicisti, Magna Adversia entra a far parte di diritto del novero di album black metal che, probabilmente, verranno ricordati a livello di consuntivi di fine anno.
Se è inutile ricercare spunti innovativi vale la pena infatti di godere della capacità della band brasiliana di rendere ogni brano meritevole di attenzione per perizia tecnica, intensità e fruibilità, proprio grazie a linee melodiche che sovente vengono guidate da eccellenti progressioni chitarristiche o dalle puntuali ed efficaci orchestrazioni affidate a Fabiano Penna dei Rebaelliun.
L’aggettivo più calzante per un lavoro come Magna Adversia è “completo”, in quanto non manca nulla di ciò che l’appassionato ricerca in un album black: potenza strumentale unita a forza evocativa, ritmi incalzanti ma controllati, fino a qualche sconfinamento nel doom, varietà compositiva conferita da diversi break acustici ed uno screaming adeguatamente vetriolico; dovendo estrarre dal mazzo i brani che più mi hanno colpito in una tracklist inattaccabile, scelgo la più rallentata A Two-Way Path, l’irresistibile Communion e la più nervosa Porcelain Idols.
Se il black metal può aver esaurito in parte la propria spinta propulsiva nelle aree geografiche che ne hanno visto la nascita e la consacrazione, non è affatto così in nazioni in cui la tradizione del genere è relativamente recente e viene costantemente ravvivata da band come i Patria che, fortunatamente, hanno ancora molto da dire e da fare.

Tracklist:
1. Infidels
2. Axis
3. Heartless
4. A Two-Way Path
5. Communion
6. Now I Bleed
7. Arsonist
8. The Oath
9. Porcelain Idols
10. Magna Adversia

Line-up:
Mantus – all instruments
Triumphsword – vocals

Asgeir Mickelson – drums

PATRIA – Facebook

True Strenght – Steel Evangelist

L’album non mancherà di soddisfare gli amanti del metal classico, tra power, heavy ed epic metal, mentre la battaglia tra gli angeli guerrieri e le forze del male si intensifica ad ogni passaggio.

Alziamo le mani al cielo e diamo il benvenuto sulle pagine di MetalEyes ai True Strenght, band statunitense di heavy power metal dalle tematiche cristiane.

Il christian metal torna a risplendere della luce divina con Steel Evangelist, secondo album del gruppo americano e successore del primo The Cross Will Always Prevail, licenziato nel 2014.
I True Strenght suonano heavy power metal dai natali statunitensi, dunque anche se il sound è meno oscuro si può senz’altro parlare di U.S. metal di qualità, a prescindere dal credo dei musicisti
Steel Evangelist è composto da dieci brani per settanta minuti di metal devoto a Gesù Cristo, e il trio capitanato da Ryan “The Archangel” Darnell (basso, voce e chitarra) mette sul piatto un album di metal epico, ricco di cavalcate dai crescendo maideniani e da un approccio old school.
Leggermente prolisso, l’album non mancherà di soddisfare gli amanti del metal classico, tra power, heavy ed epic metal, mentre la battaglia tra gli angeli guerrieri e le forze del male si intensifica ad ogni passaggio.
Josh Cirbo alla sei corde e Ryan Mey alle pelli aiutano il leader nella sua missione, mentre una alla volta Cilician Gates, l’inno maideniano Gabriel The Archangel e la lunga Blood Waters The Cedars Of schiudono all’ascolto il pensiero musicale del gruppo americano.
Licenziato dalla Roxx Records , l’album contiene buona musica metallica dai richiami classici e, quindi, per i fans dell’heavy metal americano un ascolto è senz’altro consigliato.

TRACKLIST
1.No Cheek Left to Turn
2.Steel Evangelist
3.Cilician Gates
4.Don’t Take the Mark of the Beast
5.The Fall of the Ripest Apple
6.Gabriel the Archangel
7.Woe to the Sons of Ishmael
8.Blood Waters the Cedars of Lebanon
9.Twenty-One Martyrs Clothed in Orange
10.The War We Fight

LINE-UP
Ryan “The Archangel” Darnell – Bass, Guitars (rhythm), Vocals (lead)
Ryan Mey – Drums
Josh Cirbo – Guitars (lead)

TRUE STRENGTH – Facebook

Figure Of Six – Welcome To The Freak Show

La potenza e la rabbia vengono incanalati attraverso vari sottogeneri della bestia metallica, partendo da una base deathcore, per arrivare al djent e a cose tecniche, con inserti di elettronica che potenziano maggiormente il tutto.

Benvenuti allo spettacolo dei freak, gentilmente offertoci dai Figure Of Six.

Questi ragazzi italiani ci offrono un buon concentrato delle mutazioni accadute nel metal negli ultimi anni. La potenza e la rabbia vengono incanalati attraverso vari sottogeneri della bestia metallica, partendo da una base deathcore, per arrivare al djent e a cose tecniche, con inserti di elettronica che potenziano maggiormente il tutto. I Figure Of Six non lasciano nulla di inesplorato per stupirci e rendere questo ascolto un’esperienza totale. Il cantato rimane sempre melodico, con qualche punta di asprezza, e il resto del gruppo fa un lavoro egregio. Ci sono nuove vie per esprimere i propri sentimenti in ambito metallico, e i Figure Of Six ce ne mostrano alcune. Ascoltando il disco si capisce che questi ragazzi hanno l’attitudine giusta, hanno fatto molti ascolti e curano bene ciò che fanno, infatti sono stati scritturati dalla tedesca Bleeding Nose, un’etichetta attenta alle nuove tendenze in ambito metal. Gli episodi migliori del disco accadono quando i Figure Of Six si lasciano andare, mollando il freno e correndo liberi, perché a briglie sciolte sono un gruppo di notevole livello. Prendiamo ad esempio la canzone Monster, nella quale fanno ascoltare tutta la gamma delle loro possibilità, mentre a mio avviso la canzone scelta per il video ufficiale, The Mirror’s Cage, funziona meno. Ma le mie sono opinioni che lasciano il tempo che trovano, ed il tempo è meglio impiegarlo ascoltando Welcome To The Freak Show.

TRACKLIST
1. Welcome To The Freak Show
2. The Man In The Dark
3. The Weak One
4. Edward Mordrake
5. The Tightrope Walker
6. The Mirror’s Cage
7. Monster
8. The King And The Servant
9. Clown
10. But Deliver Us From Evil

LINE-UP
Alessandro “Hell” Medri -Vocals
Peter Cadonici – Guitar
Matteo Troiano – Guitar
Stefano Capuano – Bass
Michele Mingozzi – Keyboard
Antonio Aronne – Drums

FIGURE OF SIX – Facebook

Athlantis – Chapter IV

Un album che si fa ascoltare dall’alto di una freschezza compositiva d’alto rango, ricco di suadenti linee vocali e composto di un lotto di brani che mantengono alta l’attenzione dell’ascoltatore

La scena metal ligure di stampo classico gira attorno ad una manciata di musicisti dal gran talento che, a distanza di poco tempo uno dall’altro, creano grande musica con progetti nuovi o ritorni di un certo spessore come gli Athlantis di Steve Vawamas, bassista di Mastercastle, Ruxt, Bellathrix, ed ex Shadows Of Steel.

Il gruppo nacque per volere del bassista nell’ormai lontano 2003, aiutato da un paio di nomi storici della scena come Roberto Tiranti e Pier Gonella con un debutto licenziato dalla Underground Symphony.
Nel corso degli anni il progetto si è avvalso delle performance di Trevor e Tommy Talamanca dei Sadist, oltre ad altri musicisti che hanno dato il loro contributo, arrivando così ai giorni nostri e alla realizzazione di un nuovo album, questo gioiellino power / hard dal titolo Chapter IV.
Insieme allo storico bassista e mente del progetto troviamo quella macchina da guerra che corrisponde al nome di Pier Gonella, infaticabile ed insostituibile guitar hero, il batterista degli Extrema Francesco La Rosa, Gianfranco Puggioni alla chitarra ed il bravissimo singer dei Lucid Dream Alessio Calandriello.
Ma le sorprese non finiscono qui, ed in qualità di ospiti Chapter IV si avvale delle performance di Roberto Tiranti, Dave (Drakkar) e Francesco Ciapica.
Registrato ai Music Art Studio di Pier Gonella e pubblicato dalla Diamonds Prod, l’album nulla aggiunge e nulla toglie alla qualità delle opere che questo gruppo di musicisti ha creato nel corso del tempo, aggiungendo un altro affresco di musica metallica raffinata e nobile, straordinariamente melodica ed assolutamente sopra la media.
La musica degli Athlantis a mio parere è quella che si avvicina di più a quella che porta la firma dei Labirynth, anche se sapientemente i musicisti la modellano con atmosfere hard rock e qualche spunto riconducibile al power metal melodico scandinavo di metà anni novanta.
Su Pier Gonella abbiamo sprecato inchiostro per tesserne le lodi relativamente ai numerosi progetti a cui ha partecipato, ma questa volta mi piace sottolineare, oltre all’ottimo songwriting, la prova di Calandriello, splendido interprete sugli album dei Lucid Dream e qui ancora una volta ispiratissimo, tanto da non sfigurare vicino a colleghi più famosi come per esempio Roberto Tiranti.
Un album che si fa ascoltare dall’alto di una freschezza compositiva d’alto rango, ricco  di suadenti linee vocali e composto di un lotto di brani che mantengono alta l’attenzione dell’ascoltatore, ancora una volta messo all’angolo dalla bravura di questi musicisti della riviera ligure.
Il singolo Master Of Fate, la successiva e trascinante Ronin, l’heavy metal classico che accompagna la cavalcata power The Endless Road, le chitarre hard rock di Reset sono gli attimi più avvincenti di un album bello e trascinante, un altro gioiello nato in riva al Mar Ligure.

TRACKLIST
01 – The Terror Begins
02 – Master Of My Fate
03 – Ronin
04 – Our Life
05 – The Endless Road
06 – Crock Of Moud
07 – Face Your Destiny
08 – Just Fantasy
09 – Reset
10 – The Final Scream

LINE-UP
Steve Vawamas – Bass
Pier Gonella – Guitars
Francesco La Rosa – Drums
Ginfranco Puggioni – Guitars
Alessio Calandriello – Vocals

ATHLANTIS – Facebook

Hellwitch – At The Rest

At The Rest e Megalopalyptic Confine funzionano bene, peccato solo per tutto il tempo perso da questa storica realtà del metal estremo americano: vedremo se questo 7″ sarà l’antipasto di prossime nuove uscite di maggiore portata.

Era il 1984 quando in Florida iniziò a circolare il nome degli Hellwitch.

Il gruppo statunitense, tra alti e bassi e soprattutto molti stop, torna tramite la Pulverised con questo ep di due brani in formato 7″ dal titolo At The Rest, continuando la tradizione che vuole il gruppo come nome storico del death/thrash aldilà dell’oceano.
Dicevamo della nascita degli Hellwitch targata anni ottanta, anche se il gruppo arriva al 1990 tra demo e singoli prima che Syzygial Miscreancy dia inizio alle vere ostilità.
Un salto temporale fino al 2009 tra ep e lavori minori, per ricordare il secondo album Omnipotent Convocation, ed un altro periodo di silenzio durato sette anni con l’uscita nel 2016 del live A Night at the 5th.
At The Rest dà un minimo di continuità alla carriera del quartetto statunitense, anche se solo per un ep di due brani che almeno risultano due belle mazzate di death metal dalle ritmiche indiavolate ed un approccio thrash che ne fanno un paio di bombe estreme niente male.
Voce al vetriolo, cattiva e maligna (Patrick Ranieri, anche chitarrista e leader storico del gruppo), sei corde tra tradizione death e rimandi al sound slayerano (J.P. Brown a far coppia con Ranieri) e sezione ritmica stile bulldozer (Brian Wilson alle pelli e Julian David Guillen al basso) imprimono al sound dei due brani proposti un’attitudine estrema consolidata nel tempo, anche se Ranieri è l’unico sopravvissuto della line up originale e la sezione ritmica risulta nuova di zecca.
At The Rest e Megalopalyptic Confine funzionano bene, peccato solo per tutto il tempo perso da questa storica realtà del metal estremo americano: vedremo se questo 7″ sarà l’antipasto di prossime nuove uscite di maggiore portata.

TRACKLIST
SIDE A
At Rest
SIDE B
Megalopalyptic Confine

LINE-UP
Patrick Ranieri – Lead guitar/rhythm guitar/vocals
J.P. Brown – Rhythm guitar
Brian Wilson – Drums
Julian David Guillen – Bass

HELLWITCH – Facebook

Deficiency – The Dawn of Consciousness

The Dawn of Consciousness è un album molto ben congegnato e sarebbe un peccato perderlo, specialmente se amate il genere in tutte le sue forme e sfumature, sia tradizionali che moderne.

E’ un periodo di grandi manovre nella scena thrash metal mondiale, il ritorno in auge del genere sta portando entusiasmo ad un movimento che sembrava irrimediabilmente spento, se non per qualche bel disco uscito nei meandri più nascosti dell’underground o per il ritorno sul mercato di una di quella manciata di band storiche, ancora in attività.

Con un bella pacca sulla spalla mandiamo a dormire i detrattori del genere e gli scribacchini che sicuramente saliranno sul carro del vincitore, ma che fino a poco tempo fa non avrebbero scritto una riga su un album come The Dawn of Consciousness, terzo lavoro dei francesi Deficiency.
L’album irrompe sulla scena underground portando una ventata di aria fresca, con una proposta che non dovrebbe lasciare indifferenti i consumatori di musica estrema in questi primi rovinosi anni di questo nuovo millennio.
I Deficiency sono Laurent Gisonna, chitarrista e cantante, perfetto nell’uso della doppia voce che passa (come in tanti gruppi dal sound moderno) dallo scream alle clean vocals, il bassista Vianney Habert affiancato dall’ultimo entrato in formazione, il batterista Thomas Das Neves, mentre la seconda chitarra è lasciata nelle mani di Jérôme Meichelbeck.
The Dawn of Consciousness è stato registrato ai Dome Studio da David Potvin e risulta un lavoro devastante, ben calibrato ed attraversato dalle due anime principali, quella moderna ed in linea con i suoni odierni e quella che guarda alla tradizione: ne esce così un’opera varia che, anche nello stesso brano, passa agevolmente da sfuriate di death/thrash melodico, vicino alle produzioni di Soilwork e Darkane, a momenti in cui l’anima old school prende il sopravvento investendoci con ventate di thrash metal alla Death Angel, qualche accenno ai più pesanti Machine Head, ma con la melodia in evidenza in molte delle tracce dell’album.
Un disco estremo che sa come arrivare al sodo senza perdere l’aspetto melodico, questa è appunto l’arma segreta di un lavoro che, con brani davvero ispirati come l’opener Newborn’s Awakening, Another Fail To Come, la bestiale The Upriser e quel piccolo gioiello strumentale che è And Now Where Else To Go, pone un bel tassello nella propria discografia.
The Dawn of Consciousness è un album molto ben congegnato e sarebbe un peccato perderlo, specialmente se amate il genere in tutte le sue forme e sfumature, sia tradizionali che moderne.

TRACKLIST
1. Newborn’s Awakening
2. Uncharted Waters
3. Another Fail To Come
4. From A Less To A Greater Perfection
5. The Upriser
6. Face The World We Experience
7. Nausera
8. And Now Where Else To Go
9. Post Knowledge Day
10. Fearless Hope

LINE-UP
Laurent Gisonna – Lead Guitar, Vocals
Vianney Habert – Bass guitar
Thomas Das Neves – Drums
Jérôme Meichelbeck – Rhythm Guitar

DEFICIENCY – Facebook

Anewrage – Life Related Symptoms

Il disco è molto melodico senza perdere in potenza, con una produzione che fa risaltare al massimo i suoni precisi e ben composti degli Anewrage.

Nuovo disco per i milanesi Anewrage, fautori di un metal moderno e melodico.

Nati nel 2014, con il loro ottimo debutto Anr sono arrivati ad essere conosciuti oltre i confini patri e hanno suonato con grandi gruppi, facendo sempre una bella figura. La band milanese torna con questo nuovo disco che punta ancora più in alto, per far decollarne definitivamente la carriera. La melodia è ovunque ed imperante in Life Related Symptoms, e guida l’ascoltatore in un disco di metal davvero moderno e più che mai attuale: ascoltandolo ci si trova come sospesi in una piacevole bolla, composta di suoni ruvidi ma dolci, con repentini cambi di tempo, come girarsi nel liquido amniotico. Il disco è molto melodico senza perdere in potenza, con una produzione che fa risaltare al massimo i suoni precisi e ben composti degli Anewrage. Il genere non è ben definito e questo è già un notevole pregio, si scorrazza fra vari stili, ma l’impronta principale è quella degli Anewrage.
Il disco funziona ottimamente e andrà benissimo, specialmente fuori dall’Italia, dove gli ascoltatori sono di mentalità ben più aperta di noi. Nel frattempo, se vi capita, dal vivo meritano molto e date loro una possibilità, perché a breve diventeranno un grosso nome della scena.

TRACKLIST
1. Upside Down
2. My Worst Friend
3. Dancefloor
4. Tomorrow
5. Evolution Circle
6. Floating Man
7. The 21st Century
8. Life Is You
9. Outside
10. All The Way
11. Insight
12. Clockwork Therapy
13. Wolves And Sirens

LINE-UP
Axel Capurro: Vocals/Guitars
Manuel Sanfilippo: Guitars/Backing Vocals
Simone Martin: Bass
Alessandro Ferrarese: Drums/Backing Vocals

ANEWRAGE – Facebook

Inquiring Blood – Morbid Creation

Un album di buon vecchio death metal oscuro e battagliero, ringalluzzito da ritmiche dai potenti innesti groove che lo rendono appetibile ai fans più giovani e abituati alle sonorità estreme del nuovo millennio.

Un album di buon vecchio death metal oscuro e battagliero, ringalluzzito da ritmiche dai potenti innesti groove che lo rendono appetibile ai fans più giovani e abituati alle sonorità estreme del nuovo millennio, e brutalizzato da un growl di stampo brutal in alternanza a quello classico.

Morbid Creation è il secondo lavoro sulla lunga distanza dei tedeschi Inquiring Blood, gruppo attivo da più di dieci anni e con un primo lavoro sulla lunga distanza (oltre ad un demo ed un ep) uscito ormai sei anni fa.
Non male nel suo insieme questo devastante lavoro, improntato per quasi la sua interezza in mid tempo che risultano muri di musica estrema potentissima, con il gioco tra le due voci che si rivela  uno dei punti di forza del sound e fa coppia con l’ottimo lavoro di tutta la parte ritmica, chitarra compresa.
Pochi ed affilati solos rallentano l’avanzata del muro sonoro che travolge e distrugge senza pietà, il gruppo sassone poi, quando decide di accelerare fa davvero male ed il sound si avvicina sempre di più alla sfera più brutale del genere (enormi in questo senso Death And Decay e il massacro sonoro della violentissima Horsekiller).
Una versione modernizzata e brutale dei Bolt Thrower, questo è il modo più semplice per descrivere gli ed il sound presente in Morbid Creation, album da non perdere se siete amanti di queste sonorità.

TRACKLIST
01. Japanese Knife Assassin
02. Hell Commander
03. Death Row
04. Three feet to Carnage
05. Death and Decay
06. Voices
07. Suffocation
08. Horsekiller
09. The Swarm
10. Stabbed by Mirror Shards
11. Nuclear Massacre
12. Faceless

LINE-UP
Lars Robrecht – Bass
Florian Otten – Drums
Marco Gronwald – Guitars
Daniel Siebert – Vocals

INQUIRING BLOOD – Facebook