Bloodstrike – Necrobirth

Esordio all’insegna di un death old school per i Bloodstrike.

Capitanati da una “gentil donzella”, Holly Wedel, dal growl di un orco in preda a devastanti dolori addominali, i Bloodstrike licenziano il demo d’esordio dal titolo Necrobirth: tre brani di feroce death metal old school, influenzato dalle band nordeuropee che del genere hanno fatto la storia.

La band di Denver si forma nel 2013 e immette sul mercato questo massacro che dà alle fiamme tutto il Colorado e cerca di attecchire anche nel resto di un mondo che riesce purtroppo ad essere più malvagio anche della musica dei nostri. In Death We Rot, brano che funge anche da singolo/video promozionale, è un buon biglietto da visita per il gruppo americano che, fregandosene di mode e altre amenità sfoggia una passione morbosa per il death scandinavo dei primi anni novanta. Il groove dei pezzi è elevato all’ennesima potenza e l’impatto garantito da un’attitudine “in your face” che si dimostra l’arma letale dei Bloodstrike. Rhiannon Wisniewsky e Ryan Alexander Bloom formano, rispettivamente al basso e alla batteria, una sezione ritmica dirompente, mentre le due asce, tra gli artigli di Jeff Alexis e Joe Piker, distruggono a suon di riff ogni nostra resistenza, ricordandoci che Dismember, Entombed, Grave e primissimi Hypocrisy non sono solo “band”, ma i padri fondatori di un genere che ha fatto la storia della musica. Buon inizio per un prosieguo che spero ricco di soddisfazioni per questi cinque death metallers statunitensi.

Tracklist:
1. In Death We Rot
2. Skeletal Remains
3. Serpent Son

Line-up:
Holly Wedel – Vocals
Jeff Alexis – Guitars
Joe Piker – Guitars
Rhiannon Wisniewski – Bass
Ryan Alexander Bloom – Drums

BLOODSTRIKE – Facebook

Derdian – Human Reset

Bellissimo lavoro da parte dei Derdian, potenza e melodia al sevizio del metallo pesante.

Brutta bestia il power metal; dopo aver dominato il panorama, sopratutto in Europa, negli anni a cavallo del nuovo millennio, portato al successo da band che in quel periodo hanno sfornato capolavori a getto continuo, lo ritroviamo nel secondo decennio del duemila ancora una volta in stand by nelle preferenze di fan e addetti ai lavori, superato dal symphonic gothic metal.

Invero i nomi più importanti faticano ad arrivare ai livelli eccelsi di una quindicina di anni fa, ed allora ecco che il tanto bistrattato underground viene in soccorso regalando band e album notevoli, come questo bellissimo e ultimo lavoro dei milanesi Derdian. Per chi non conoscesse ancora il gruppo, ricordo che è attivo dal 2001 e che il primo full-length risale al 2004 con “New Era Pt.1”, disco che porta in dote la firma con la prestigiosa Magna Carta, seguito dagli altri due capitoli “New Era Pt 2-War of the Gods” e “New Era Pt 3-The Apocalypse”. Nel 2013 arriva “Limbo”, che segna l’abbandono delle tematiche fantasy per un approccio più immerso nella realtà quotidiana. Oggi la band, accasatasi con None Records, è pronta a partecipare alla battaglia per il miglior album dell’anno nel suo genere con Human Reset, straordinario lavoro di power metal moderno, dove le orchestrazioni incontrano la potenza del metallo pesante mantenendo un perfetto equilibrio, in un elegante dimostrazione di forza da parte della band milanese, capace di superare se stessa con un songwriting sopra le righe che alterna brani dal sapore epico sinfonico (come il capolavoro Music for Life) a altri nei quali la fa da padrona l’originalità: tutto questo in un ambito stilistico per il quale molti sostengono tutto sia sia già stato scritto, con strutture metalliche dall’approccio moderno e andando ben oltre alla classica band alla Rhapsody (tanto per fare un esempio). Human Reset è una raccolta di brani eccellenti e con picchi qualitativi elevatissimi, quali Mafia, canzone dalla citazione cinematografica nel solo del bravissimo Dario Radaelli, la title-track dai cori epici e cavalcata metallica esaltante nel suo incedere, Absolute Power, dove l’intera band offre l’ennesima lezione di potenza e tecnica, con la sezione ritmica sugli scudi per tutto l’album (Marco Banfi, basso e Salvatore Giordano, batteria), la ritmica sempre puntuale di Enrico Pistolese, le orchestrazioni eleganti di Marco Garau e il bravissimo Ivan Giannini, vocalist dalle mille risorse, convincente nei toni bassi e straripante dove la sua ugola prende il volo per raggiungere le vette dei colleghi più famosi, ad aggiungersi alla prova ineccepibile del già citato chitarrista. Non esiste attimo di tregua in questo lavoro fino alla stupenda After the Storm, ballad che non smorza la tensione, con il piano a guidare il sound e chitarra e orchestrazioni che nel refrain portano il pathos alle stelle. Ancora il piano inizia e conclude la stupenda My Life Back, traccia che mette la parola fine ad un lavoro superbo, dove potenza e melodia vengono messe al sevizio del metal.

Tracklist:
1. Eclipse
2. Human Reset
3. In Everything
4. Mafia
5. These Rails Will Bleed
6. Absolute Power
7. Write Your Epitaph
8. Music Is Life
9. Gods Don’t Give a Damn
10. After the Storm
11. Alone
12. Delirium
13. My Life Back

Line-uo:
Ivan Giannini – Vocals
Marco Banfi – Bass
Marco Garau – Keyboards
Enrico Pistolese – Guitars,B.vocals
Dario Radaelli – Lead guitars
Salvatore Giordano – Drums

DERDIAN – Facebook

The Morningside – Letters From The Empty Towns

Terzo ed ottimo album per i russi The Morningside.

Nuovo capitolo della saga The Morningside, band al suo terzo full-length dopo l’esordio del 2007 “The Trees and the Shadows of the Past”, bissato nel 2009 da “Moving Crosscurrent of Time” e dall’EP del 2011 “Treelogia”. Il gruppo proveniente dalla capitale sovietica propone un doom/death metal melodico sulla scia dei primi lavori dei Katatonia (la band alla quale fanno maggior riferimento) irrobustendolo con iniezioni di death melodico alla Dark Tranquillity (era “Projector”), ed il risultato non può che essere, visto anche il buon songwriting e la bravura dei musicisti coinvolti, un ottimo lavoro di genere. Rispetto agli album precedenti i The Morningside imprimono più potenza al sound di Letters From The Empty Towns relegando le atmosfere rarefatte e gli interventi della voce pulita ad occasionali stacchi in qualche brano (On the Quayside), lasciando invece molto spazio alle chitarre, assolute protagoniste con splendide ritmiche e solos che si avvicinano al prog/death degli Opeth piuttosto che al sound di Agalloch e Ulver come nei primi dischi. Le vocals di Nikitin sono corrosive e come sempre marchio di fabbrica della band che, The Outside Waltz a parte (bellissimo strumentale acustico), regala brani dal forte impatto drammatico, per un viaggio in quel metal dai richiami dark capace di regalare emozioni, sostenuto da una struttura chitarristica di primo livello: un lavoro maturo, che cresce con gli ascolti e che trova nella stupenda Ghost Lights (la canzone che più si avvicina ai Katatonia) otto minuti di meraviglie melodiche. Invero sul finire del lavoro la band, dopo le sfuriate della prima metà del disco, si rilassa e anche nella finale Letter ci consegna un brano semiacustico, come se il sound del gruppo si raccogliesse su se stesso, in posizione fetale, dopo aver sfogato tutta la rabbia ed essere arrivato, così, allo stremo. Buoni outsiders, i The Morningside sanno toccare l’anima: la loro musica difficile, per questi tempi dove anche nel metal si ha la sensazione di dover consumare tutto e subito, in una sorta di tremendo usa e getta, ferma il tempo e siamo noi che ne dobbiamo approfittare per regalarci ogni tanto un momento di poesia; fatelo, non ve ne pentirete.

Tracklist:
1. Immersion
2. One Flew (Over the Street)
3. Deadlock Drive
4. Sidewalk Shuffle
5. On the Quayside
6. The Traffic Guard
7. The Outside Waltz
8. Ghost Lights
9. The Letter

Line-up:
Ilya Egorychev – Bass
Boris Sergeev – Drums
Igor Nikitin – Vocals, Guitar
Sergey Chelyadinov – Guitars

Yasru – Öz

Per chi non ha mai visitato la Turchia, l’ascolto di questo lavoro degli Yaşru può essere l’occasione di intraprendere un piacevole viaggio virtuale

I turchi Yaşru , attivi da circa un lustro, ci propongono questo loro ottimo secondo album intitolato Öz.

Dopo il folk metal nordico, quello celtico e quello del mediterraneo occidentale, ecco affacciarsi alla ribalta questa sua intrigante variante che, come la nazione dalla quale proviene, alla fine si rivela un crogiolo di influenze a cavallo com’è tra le sonorità europee e quelle più tradizionalmente di stampo orientale. La band, di fatto, è guidata dall’esperto musicista di Istanbul Berk Öner, che si occupa con grande perizia sia delle parti vocali sia di quasi tutta la strumentazione, in particolare quella etnica, lasciando che i suoi due compagni d’avventura si dedichino alla sola base ritmica. Berk non ha una voce eccezionale, ma la sua timbrica molto evocativa si rivela del tutto adeguata al genere proposto, così come la parte strumentale si mostra molto più orientata verso suoni afferenti la tradizione rispetto alle proposte che ascoltiamo di solito in quest’ambito, lasciando che la componente metal resti tutto sommato sullo sfondo. E’ anche vero, del resto, che a livello di ritmica talvolta affiora un qualche retaggio doom, (in particolare nella magnifica Yağmur) oltremodo gradito in quanto capace di elevare ulteriormente il tasso emotivo del lavoro. La componente orientaleggiante non prevarica mai melodie molto lineari, non così dissimili da quelle che siamo abituati ad ascoltare nelle nostre lande e, in tal modo, Berk riesce a portare l’ascoltatore in territori sicuramente non familiari senza che, per questo, ci sia il rischio di respingerlo mettendolo di fronte a sonorità eccessivamente ostiche. Öz, infatti, è un album snello, che in meno di quaranta minuti racconta molto di questo splendido paese nel quale convivono realtà contrapposte come quella metropolitana di Istanbul e quella rurale dell’Asia Minore. Per chi non ha mai visitato la Turchia, l’ascolto di questo lavoro degli Yaşru può essere l’occasione di intraprendere un piacevole viaggio virtuale e, nello specifico, il folk si conferma, fra tutti i generi musicali, uno dei veicoli ideali per far veleggiare la nostra immaginazione.

Tracklist:
1. Saymalıtaş
2. Tunç Yürekliler
3. Yol Verin Dağlarım
4. Yağmur
5. Öd Tengri Yasar
6. Bilge Kağan’nın Sözü
7. Kara Haber
8. Gecenin Türküsü

Line-up: Batur Akçura – Bass
Mert Gezgin – Drums
Berk Öner – Vocals, Guitars, Ethnic instruments

YASRU – Facebook

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Bleed Someone Dry – Subjects

Riedizione a cura delle WormHoleDeath di questo buon lavoro dei Bleed Someone Dry.

La WormHoleDeath si assicura le prestazioni di questi cinque musicisti di Pistoia e ristampa il loro secondo full-length dal titolo Subjects uscito nel 2012 per l’etichetta veronese Kreative Klan.

Subjects e’ un lavoro di difficile catalogazione, la band parte da un concept che denuncia la totale assuefazione del genere umano alla schiavitù morale e sociale imposta dalla società odierna, che di fatto va a scapito per una più redditizia globalizzazione di massa. A livello musicale i Bleed Someone Dry usano la materia “core” con qualche riferimento al death, anche se non così pronunciato come in molte realtà di genere, con un uso dell’elettronica che molte volte si alterna ai tipici cambi di tempo ritmici ed il ricorso ad una voce che risulta uno scream sguaiato ma dal buon impatto. Questo album è caratterizzato da un sound pieno, un vero muro sonoro che travolge tra ritmiche potenti, strutture complesse ma che non inficiano la scorrevolezza dei brani, lasciando che la musica avvolga l’ascoltatore senza grossi cali di tensione, tra riffoni ultraheavy, partiture elettroniche ed evoluzioni tecniche mai troppo forzate. La title track, Corrosive Whisperer, The law is not equal for all, sono le canzoni dove a mio parere il sound della band risulta più enfatizzato. Un buon lavoro, dunque, consigliato agli amanti del death più moderno e a coloro che non disdegnano band più note come Meshuggah, Converge e Dillinger Escape Plan.

Tracklist:
1. Bleed
2. As Broken Shards
3. Subjects
4. Corrosive Whisper
5. Wide Open Jaws
6. Jab of Hatred
7. By My Horny Hands
8. The Law Is Not Equal for All
9. ‘Till the End
10. It’s a secret

Line-up: Jonathan Mazzeo – Guitars, Synths
Mattia Baldanzi – Bass
Alfeo Ginetti – Drums
Alessio Bruni – Vocals

Haemophagus – Atrocious

Death metal da standing ovation per i siciliani Haemophagus.

Tornano sul mercato, tramite Razorback Records, i siciliani Haemophagus con questo bellissimo ultimo lavoro intitolato Atrocious.

La band, attiva dal 2005 e autrice di una miriade di split e con un primo full-length alle spalle, targato 2009, dal titolo “Slaves to the Necromancer”, devasta a suo modo tutto quello che incontra, sparando bordate di death old school da cui non si può sfuggire.
Atrocious è un album molto maturo dalla copertina prog anni settanta, bissata da un’Intro spaziale,due minuti e mezzo di strumentale tra Goblin e King Crimson, prima che la furia del tornado death si accanisca su di noi distruggendo ogni resistenza.
Ottimi musicisti al servizio di un metal estremo che ha nei rallentamenti doom momenti di sublime fascino sinistro arrivando a toccare vette altissime: mi hanno fatto tornare in mente quel capolavoro che fu “Forest of Equilibrium” dei Cathedral di Lee Dorrian, nella prima parte di Surgeon of Immortality e, comunque, tutto il lavoro scorre su questa altalena tra momenti rallentati e sfuriate devastanti, dove le doti tecniche del combo saltano immediatamente all’orecchio.
Le pelli di David, picchiatore impietoso, formano con il basso di Gas una sensazionale sezione ritmica che ben supporta le due chitarre, rispettivamente Gioele e Giorgio, protagonista anche dietro al microfono, con una prestazione che ricorda il buon Dave Vincent, non a caso il vocalist della band che più di ogni altra si pone quale nume tutelare del gruppo palermitano: i Morbid Angel.
Gli Haemophagus si confermano come band sopra la media, con una personalità da veterani consumati ed un magnifico songwriting che fa di questo lavoro uno dei più riusciti nel genere, con brani che rasentano la perfezione, una valanga di riff ora iperveloci, ora spaventosamente lenti ma pesantissimi, autentici macigni che vi scuoteranno le interiora e vi lasceranno spossati al termine dell’ultima nota.
Grandissime, tra le varie tracce, la title-track con quel riff iniziale che mi fa frullare nella testa il periodo settantiano, Dismal Apparition, la violentissima Siege of Murderous Beasts e la monumentale doom/death Naked in the Snow, perle nere che faranno impazzire gli amanti di queste sonorità che suggellano il grandissimo ritorno di una band fenomenale con un album da standing ovation!

Tracklist:
1. Intro
2. Partying at the Grave
3. Atrocious
4. Exaltation for a Dying Victim
5. Dismal Apparition
6. Ice Cold Prey
7. Surgeon of Immortality (Alfredo Salafia)
8. Siege of Murderous Beasts
9. Swollen With Parasites
10. Naked in the Snow
11. Choked on a Cadaver’s Dick
12. The Honourable Society of Black Sperm
13. From the Sunken Citad

Line-up:
David – Drums
Giorgio – Guitars, Vocals
Gas – Bass
Gioele – Guitars, Backing Vocals

HAEMOPHAGUS – Facebook

Origin – Omnipresent

Spettacolare ritorno della band di Topeka con questo devastante massacro brutal death dal titolo “Omnipresent”.

Spettacolare ritorno della band di Topeka (U.S.A.) con questo devastante massacro brutal death dal titolo Omnipresent, che conferma le capacità dimostrate dagli Origin nei primi cinque capitoli, dall’esordio omonimo all’inizio del nuovo millennio fino ad arrivare a “Entity” del 2011.

Siamo al cospetto di un gruppo che non necessita di particolari presentazioni o riferimenti, d’altronde Omnipresent è come detto già il sesto full-length che continua senza indugi la devastazione sonora, perciò troverete nei solchi del nuovo album quel technical brutal death che è il marchio di fabbrica dei musicisti statunitensi: un TIR impazzito che travolge a suon di riff, scale melodiche, velocità disumana e macigni cadenzati, tutto ciò che incontra con una facilità disarmante. Gli Origin hanno la peculiarità di non fare semplicemente brutal, nel loro swongwriting convivono diverse anime estreme perfettamente in armonia, ed allora nella strada che percorrerete dall’inizio alla fine di quest’album troverete grind, death old school, elementi classici e thrash, riff marziali ed epiche atmosfere che fanno di questo disco un ciclone di metal estremo. Jason Keyser è il solito disumano cantore che, con il suo growl, spaventerebbe l’esercito di orchi in attesa dell’attacco al fosso di Elm, Mike Flores e John Longstreth (basso e batteria), inumane macchine da guerra, formano una sezione ritmica da distruzione totale, essendo dotati di una tecnica fuori categoria, mentre Paul Ryan è, probabilmente, il chitarrista migliore in circolazione nel genere, dotato com’è di una fantasia e di un eclettismo spaventosi. Basta poco più di mezz’ora di musica agli Origin per aprire le porte dell’inferno e convincere Lucifero che non è il caso di mettersi contro questo tornado, formato da dodici brani che vorticosamente imperversano nell’empireo del metal estremo. Manifest Desolate, Source of Icon O, i fantastici due minuti di scale neoclassiche di Continuum, Unattainable Zero, l’altro bellissimo strumentale Obsolescence e Malthusian Collapse, riempiono questo disco di musica enorme nel vero senso del termine, riconsegnandoci in questa metà dell’anno una delle band guida di tutto il movimento.

Tracklist:
1. All Things Dead
2. Thrall:Fulcrum:Apex
3. Permanence
4. Manifest Desolate
5. The Absurdity of What I Am
6. Source of Icon O
7. Continuum
8. Unattainable Zero
9. Redistribution of Filth
10. Obsolescence
11. Malthusian Collapse
12. The Indiscriminate
13. Kill Yourself (S.O.D. cover)

Line-up:
Paul Ryan – Guitars, Vocals (backing)
Jason Keyser – Vocals (lead)
Mike Flores – Bass, Vocals (backing)
John Longstreth – Drums

ORIGIN – Facebook

Blut Aus Nord / P.H.O.B.O.S. – Triunity

Molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro,sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale.

Split dalle diverse ed interessanti motivazioni, questo che vede all’opera due band francesi differenti per fama ed estrazione, ovvero i monumenti del black/death avanguardistico Blut Aus Nord e gli interessanti industrial doomsters P.H.O.B.O.S..

C’era ovviamente curiosità per le scelte stilistiche intraprese da Vindsval e soci dopo la trilogia “777” che aveva spostato progressivamente il sound verso coordinate meno estreme per approdare ad una sorta di dark industrial/ambient nell’atto conclusivo “Cosmosophy”: chi non aveva apprezzato tale svolta può dormire sonni tranquilli visto che i Blut Aus Nord sono tornati a fare, con la bravura che è loro riconosciuta, quel metal estremo ricco di dissonanze ma, nel contempo, capace di avvolgere nelle proprie intricate spire, che ha fornito in passato frutti prelibati; le tre tracce sono ugualmente intense, complesse e avvincenti, anche se la vena oscuramente melodica che si manifestava a tratti in “777” non è andata del tutto dispersa (Némeïnn). Dei P.H.O.B.O.S., al contrario, nulla conoscevo pertanto non ho a disposizione particolari termini di paragone: intanto va detto che trattasi di una one-man band, attiva da oltre un decennio e con tre full-length all’attivo, condotta dal parigino Frédéric Sacri e, indubbiamente, il loro industrial doom non mostra il minimo ammiccamento a sonorità più fruibili, mostrandosi impietosamente ossessivo, alienante, insomma nulla che possa interessare qualcuno che non abbia un minimo di familiarità con questi suoni, ma molto intrigante per chi, invece, in passato si fece irretire da entità mostruose quali Godflesh o Scorn. Ho trovato molto valida l’idea della Debemur Morti di abbinare in questo split album due realtà che, muovendosi da punti di partenza piuttosto lontani tra loro, sono approdate con il tempo a sonorità relativamente vicine, non solo per attitudine sperimentale. Triunity si rivela così, nel contempo, una risposta eloquente ai dubbi espressi da qualcuno (non certo da parte mia, visto che considero la trilogia “777” un’opera magnifica in ogni sua parte) nei confronti delle scelte stilistiche operate dai Blut Aus Nord nel recente passato, e un’opportunità per far conoscere ad un pubblico auspicabilmente più ampio i meno noti ma ugualmente efficaci, nonché degni della massima attenzione, P.H.O.B.O.S..

Tracklist:
1. Blut aus Nord – De Librio Arbitrio
2. Blut aus Nord – Hùbris
3. Blut aus Nord – Némeïnn
4. P.H.O.B.O.S. – Glowing Phosphoros
5. P.H.O.B.O.S. – Transfixed at Golgotha
6. P.H.O.B.O.S. – Ahrimanic Impulse Victory

Line-up:
Blut aus Nord:
Vindsval – Vocals, Guitars GhÖst – Bass
Gionata “Thorns” Potenti – Drums

P.H.O.B.O.S.:
Frédéric Sacri – Guitars, Keyboards, Vocals

BLUT AUS NORD – Facebook

Rival Sons – Great Western Valkyrie

Quarto album e ancora grande hard rock settantiano per i Rival Sons.

Che l’hard rock di matrice settantiana sia tornato alla ribalta nel panorama internazionale da un po’ di anni è cosa nota, le band che riesumano con abilità il sound che fece la fortuna di Led Zeppelin, The Doors e Deep Purple, tanto per fare tre nomi a “caso”, sono tante e di ottima qualità: tra queste ci sono i californiani Rival Sons, giunti con questo Great Western Valkyrie al quarto disco in studio, dopo l’esordio del 2009 “Before The Fire”, il primo per la Earache del 2011 “Pressure And Time”, ed il bellissimo predecessore “Head Down” del 2012, intervallati da un EP del 2011 autointitolato.

Intanto il nuovo album porta un paio novità, la presenza del bassista Dave Beste e l’aiutino alle tastiere di Ikey Owens, già The Mars Volta e session per Jack White, e conferma i Rival Sons come una delle più talentuose band della nuova generazione, con una compilation di brani irresistibili, un inchino davanti all’altare del dio del rock che aveva i maggiori e più affezionati discepoli nel decennio settanti ano: spettacolari atmosfere hard rock colme di groove ed accenni blues, un Hammond che a tratti diventa protagonista come poteva esserlo quello del grande Jon Lord e momenti di calda poesia musicale presa dai migliori spartiti della band di Jim Morrison, un susseguirsi di riff direttamente da casa Page e la caldissima voce di Buchanan a rinverdire i fasti dei grandi singer del passato, con una prova mai così efficace su dei brani splendidi.
Electric Man e Good Luck invitano l’ascoltatore ad un giro sulla giostra dei Rival Sons, un ottovolante di suoni freak, un caleidoscopio di colori e vibrazioni direttamente dall’universo hard blues ai quali è impossibile resistere; Secret non è da meno, chitarra e Hammond accompagnano il vocalist mai così “plantiano”, mentre i brani si susseguono uno più bello dell’altro e sembra che questa libidine non abbia mai fine: Play the Fool, la bellissima Good Things che sembra uscita da un film di Quentin Tarantino, con il suo andamento da danza con un serpente albino (chi si ricorda la danza vampirica della stupenda Salma Hayek di “Dal tramonto all’alba”?).
Ancora la doorsiana Rich and Poor, la emozionale ballad dal sapore blues Where I’ve Been e la conclusiva Destination on Course, suite zeppeliniana dove chitarra psichedeliche incrociano cori dai rimandi gospel, in una jam acida d’antologia.
Grande band e grandissimo disco, l’hard blues nel 2014 passa assolutamente da band come i Rival Sons, non certo da raccolte o remasters di dinosauri di cui si conosce la discografia nei dettagli.
Album bellissimo da avere, punto.

Tracklist:
01. Electric Man
02. Good Luck
03. Secret
04. Play The Fool
05. Good Things
06. Open My Eyes
07. Rich and the Poor
08. Belle Starr
09. Where I’ve Been
10. Destination on Course

Line-up:
Jay Buchanan – Vocals
Scott Holiday – Guitars
Michael Miley – Drums
Dave Beste – Bass

RIVAL SONS – Facebook

Valyria – Collatus

Per gli amanti del death/power melodico un buon esordio per i canadesi Valyria con questo Collatus.

“I Fuochi di Valyria” è la seconda parte del quinto romanzo facente parte della saga “Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco”, capolavoro letterario di George R.R Martin, conosciuto in Italia per essere l’autore del “Trono di Spade”, serie TV alla ribalta dei palinsesti televisivi negli ultimi mesi.

La band che prende ispirazione per il proprio monicker dal bellissimo romanzo è canadese ed è protagonista di questo lavoro di death metal melodico dai tratti power/epici nonché loro esordio discografico dal titolo Collatus. Senza far gridare al miracolo, i ragazzi nordamericani picchiano sui propri strumenti di buona lena, ripassando il buono che il melodic ed il power hanno regalato in questi ultimi anni, facendo propria la lezione di band quali: primi In Flames, Amon Amarth, Blind Guardian, Rhapsody e un po’ tutte le maggiori realtà che accomunano i due generi. Una buona mezz’ora in cui verrete travolti dall’entusiasmo della band nel saper affrontare un genere che è tutto fuorchè facile, ma i Valyria ci mettono del loro nell’apparire, se non originali, sicuramente piacevoli, con buone cavalcate heavy/power nelle quali spiccano le due asce in mano ai bravi Jeremy Puffer e Andrew Traynor e le agguerrite vocals in growl, ereditate dagli Amon Amarth e proposte dall’uomo “Oltre la Barriera”, Cam Dakus, alle prese anche con il basso e che forma insieme al drummer Mitchell Stycalo una potente sezione ritmica. Dopo la classica Intro atmosferica, Polaris dà il via all’assalto a “Grande Inverno” con bordate di power/death melodico bissata dalla furiosa Karbala. Gli ultimi tre brani sono quelli dove la band sa anche entusiasmare, con intermezzi pianistici e una vena che diventa più sinfonica dando vita a song riuscite e dal sicuro impatto, con l’apice nella conclusiva Starborn, quasi dieci minuti di atmosfere che si alternano, tra momenti epici e stacchi strumentali di quiete, prima che la tempesta metallica ci travolga ancora una volta. Buon esordio, che fa ben sperare per un roseo futuro: se siete amanti del death melodico come del power metal, dategli un ascolto.

Tracklist:
1. Praeludium
2. Polaris
3. Karbala
4. Crown Of Creation
5. The Blinded Torch
6. Starborn

Line-up:
Cam Dakus – Vocals,Bass
Jeremy Puffer – Guitars,B.vocals
Andrew Traynor – Guitars,B.vocals
Mitchell Stycalo – Drums

Chiral – Abisso

Un EP davvero coinvolgente, composto da un musicista che, a giudicare dalle premesse, possiede tutti i numeri per lasciare in un prossimo futuro un segno tangibile nella scena metal tricolore.

Chiral è un giovane musicista piacentino che, con Abisso, mostra senza indugi il suo intento di proporre musica in grado di coniugare le ruvidezze e le ritmiche del black, la disperazione del depressive ed il malinconico gusto melodico di un progressive dai tratti ovviamente piuttosto cupi.

Abisso è un EP che arriva ad un anno di distanza dal demo “Winter Eternal” e, considerando che il progetto Chiral è di nascita recente, stupisce ancor di più la qualità messa in mostra in questa occasione.
Il lavoro è un breve concept incentrato sulle reazioni di una persona messa di fronte alla cruda realtà di dover affrontare la tragedia di una malattia incurabile e sulle nefaste conseguenze che ciò provoca anche a livello psichico, fino all’approssimarsi dell’atto conclusivo.
In questo senso le tematiche trattate non sono una novità (al riguardo vi invito a riscoprire il magnifico “The Incurable Tragedy” degli Into Eternity) ma spicca fin da subito l’abilità di Chiral nel tratteggiare i singoli momenti del racconto, alternando momenti di rabbia, dolore e disperazione ben rappresentati dalle diverse sfumature stilistiche esibite nelle diverse circostanze.
Abisso è diviso in due atti: il primo introduce in maniera efficace l’ascoltatore in questo riuscito melange emozionale con Disceso Nel Buio e Oblio, prima che la title-track apra il secondo ergendosi a brano guida ed autentica perla, nella quale le accelerazioni del black lasciano ancor più spazio a momenti di grande pathos creati dal lavoro chitarristico di Chiral, che privilegia l’impatto e l’intensità rispetto al puro sfoggio di tecnica: mai come in questo caso l’etichetta progressive affibbiata al nostro si rivela agli antipodi di una sterile e solo formale vena sperimentale.
Un EP davvero coinvolgente, composto da un musicista che, a giudicare dalle premesse, possiede tutti i numeri per lasciare in un prossimo futuro un segno tangibile nella scena metal tricolore.

Tracklist:
1. Atto I: Disceso Nel Buio
2. Atto I: Oblio
3. Atto II: Abisso
4. Atto II: In Assenza

Line-up:
Chiral – Everything

CHIRAL – Facebook

Noveria – Risen

Un album magnifico, che lancia i Noveria alla ribalta del mondo metallico, non solo a livello nazionale.

Eccolo l’album che dovrebbero far ascoltare a chi si ostina ad affermare che popolarità è sinonimo di qualità, che riempire uno stadio dà il diritto a non essere assolutamente attaccabile in relazione al prodotto proposto; che sia metal o rock non importa, perché la musica in quanto arte, troppe volte rimane incompresa o ancor peggio ignorata.

Prendete per esempio questo debutto/capolavoro dei romani Noveria, aiutati dalla produzione e, questa volta, anche dalla chitarra (in Fallen from Grace) di quel genio musicale che di nome fa Simone e di cognome Mularoni, e dalle tastiere di Emanuele Casali, che ha da poco concluso le sue”fatiche” sul bellissimo album degli Astra e grande protagonista anch’egli nei DGM.
Risen è un meraviglioso esempio di come si deve suonare oggi il progmetal, indurito da iniezioni power/speed da antologia, da far rabbrividire i grossi nomi internazionali del genere; chiaro che se la popolarità dovesse andare sempre a braccetto con la qualità, non basterebbe il Maracanà per contenere tutti i fan di questi splendidi musicisti.
Un album che ha del clamoroso, con una manciata di brani che definire perfetti è il classico eufemismo, forse meglio sarebbe dire da pelle d’oca, che non andrà via neanche dopo vari ascolti perché le sfumature che, inevitabilmente, al primo ascolto avrete perso, vi travolgeranno e vi lasceranno senza fiato.
Dopo l’intro The New Age, la title-track vi esploderà nei timpani, con tempi serratissimi di una sezione ritmica da infarto (Omar Campitelli alle pelli e Andrea Arcangeli al basso), momenti di calma prima che i solos di Francesco Mattei, chitarrista assolutamente strabordante, vi porteranno ad un grado di esaltazione totale.
Neanche il tempo di riprendersi da cotanta meraviglia che Downfall continua il massacro, con la salita in cattedra delle superbe tastiere del buon Casali e ci lasciamo trasportare così, come in Paralysis, dal talento di Frank Corigliano, vocalist dall’ugola eccezionale e dalla forte personalità, che pur seguendo le orme di Russell Allen, riesce a non sfigurare al confronto con una prova maiuscola.
Bene ho rotto il ghiaccio e allora parliamo di “influenze”: Symphony X, sicuramente, per l’approccio al genere, sempre con quel tocco drammatico nella struttura dei brani e mi fermo qui perché una band del genere ha necessariamente molto di suo e allora sarebbe meglio parlare di affinità.
Risen mi ha ricordato un altro bellissimo debutto, dello scorso anno e sempre di una band italiana,”A Prelude into Emptiness” dei Chronos Zero, finito sulla mia playlist di fine anno, anche se il gruppo ferrarese ingloba nel proprio sound elementi più thrash oriented, mentre qui si viaggia sul pendolino speed/power.
Abbiamo ancora il tempo di farci stupire dalla bellissima Ashes, dalla magniloquente ed epica Through the Abyss e dalla più ariosa in apparenza, Waste, stupenda conclusione di un album magnifico e affascinante, che lancia i Noveria alla ribalta del mondo metallico, non solo a livello nazionale.
Fatemi e fate soprattutto a voi stessi il piacere di supportarli. Grazie

Tracklist:
1. The New Age
2. Risen
3. Downfall
4. Paralysis
5. Ashes
6. Fear
7. Fallen from Grace
8. Through the Abyss
9. Waste

Line-up:
Andrea Arcangeli – Bass
Omar Campitelli – Drums
Francesco Mattei – Guitars
Emanuele Casali – Keyboards
Francesco Corigliano – Vocals

NOVERIA – Facebook

Kal-El – Pakal

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia

Stoner Rock classico e fumoso in arrivo dalla Norvegia. Dalla città di Stavanger arriva questo rumoroso combo norvegese che ci propone uno stoner rock in rigoroso stile Kyuss, Monster Magnet e Slo Burn.

Niente di nuovo ed eccezionale, ma sicuramente un buon album, che dà una certa carica. Ormai raramente capita di ascoltare un album di stoner bene fatto e suonato decentemente. I Kal – El sono al di sopra della media e si sente. Infatti questa è la prima uscita stoner della WormHoleDeath, etichetta che ha finora spaziato nei territori metal. Per tutta la durata del disco lo spirito del rock è tangibile, i ragazzi hanno passione e stile, e non sono per nulla presuntuosi ma, anzi, lavorano molto di olio di gomito. Forse la loro non più verdissima età li rende molto più maturi e consapevoli rispetto ad altre band più giovani. Lo stoner c’è, ed è anche un album divertente.

Tracklist:
1 Falling Stone
2 Upper Hand
3 Spaceman
4 Solar Windsurf
5 Quasar
6 Qp9
7 Fire Machine
8 Black Hole

Line-up:
Ulven – Voce
Roffe – Chitarra
Liz – Basso
Bjudas – Batteria

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Mournful Congregation – Concrescence of the Sophia

“Concrescence of the Sophia” è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

A quasi tre anni dall’uscita di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation si rifanno vivi con del materiale inedito grazie a questo EP nel quale propongono, è quasi superfluo dirlo, mezz’ora di magnifico funeral doom.

La vena compositiva mostrata nell’ultimo full-length è ampiamente confermata in quest’occasione, del resto lo stile della band australiana non prevede ampie concessioni melodiche ma neppure una totale chiusura o spunti sperimentali portati alle estreme conseguenze: come avevo avuto occasione di scrivere, parlando proprio di “The Book of Kings”, i Mournful Congregation appartengono al filone dei discepoli più credibili nonché legittimi dei Thergothon, pur affinandone le ruvidezze alla luce di capacità tecniche di altissimo livello. Concrescence of the Sophia consta di due soli brani: la title-track, splendida dimostrazione di classe, capace di protrarsi per oltre venti minuti senza cali di tensione grazie ad un lavoro chitarristico esemplare per pulizia e contemporanea capacità evocativa, mentre la più breve Silence of the Passed appare come un ideale prosecuzione della traccia precedente pur non eguagliandola, probabilmente, in quanto a coinvolgimento emotivo. Ammesso che ne esista per qualcuno una simile versione, il funeral dei Mournful Congregation non può essere considerato di facile ascolto e si colloca quale perfetta sintesi tra la corrente orientata verso tonalità più malinconiche ed immediate e quella nella quale si fa più esplicito il senso di incomunicabilità e di estraniamento dalla vita reale. A chi magari si attendeva un nuovo album, resta sicuramente la consapevolezza che una delle band simbolo del movimento non ha perso un’oncia della propria dolente vena compositiva, il che rende questo lavoro molto più di una momentanea panacea od un semplice assaggio di qualcosa ancora di là da venire: Concrescence of the Sophia è una nuova imperdibile ed allucinata discesa nelle acque plumbee di un’oscura e silenziosa caverna priva di sbocchi.

Tracklist:
1. Concrescence of the Sophia
2. Silence of the Passed

Line-up:
Damon Good – Vocals, Bass, Guitars
Justin Hartwig – Guitars
Ben Newsome – Bass

MOURNFUL CONGREGATION – Facebook

Ars Moriendi – La Singulière Noirceur d’un Astre

Arsonist si dimostra abile nell’amalgamare le ruvidezze del black con un indole progressiva dalle tinte fosche raggiungendo il risultato, tutt’altro che scontato, di esibire una certa varietà di schemi senza che questa risulti, nel contempo, troppo cervellotica.

Non è una novità constatare che la scena estrema francese è, probabilmente, quella con il più elevato numero di band in grado di proporre sonorità fuori dagli schemi riuscendo a coniugare originalità ed efficacia.

A metà degli anni ’90, nelle terre d’oltralpe, Misanthrope ed Elend, sia pure su piani stilistici differenti, mettevano già ampiamente in mostra quell’indole sperimentale che avrebbe portato qualche anno più tardi nomi quali Blut Aus Nord e Deathspell Omega a collocarsi quali punte di un movimento, definibile a grandi linee, come black metal avanguardistico. Gli Ars Moriendi, one man band di Clermont-Ferrand, attiva da oltre un decennio e giunta, con La Singulière Noirceur d’un Astre, al terzo album, possono in qualche modo essere accostabili per umori e suoni alle prime due band citate, alla luce di una spiccata versatilità unita ad un gusto melodico di prim’ordine, anche se, di fatto, in molti passaggi appare piuttosto evidente soprattutto la vicinanza con i tedeschi Nocte Obducta. Arsonist si dimostra abile nell’amalgamare le ruvidezze del black, invero non troppo accentuate, con un indole progressiva dalle tinte fosche raggiungendo il risultato, tutt’altro che scontato, di esibire una certa varietà di schemi senza che questa risulti, nel contempo, troppo cervellotica. L’album è composto da cinque lunghi brani, piuttosto differenti tra loro per stile ed umori, tra i quali spicca l’episodio che maggiormente richiama alla mente la band di Mainz, De Ma Dague …, che si guadagna la menzione d’onore per il suo scorrere, con buona fluidità, tra partiture atmosferiche basate su liquide note di chitarra ed accelerazioni controllate guidate dalla voce aspra, ma espressiva, del musicista francese. Ma La Singulière Noirceur d’un Astre è davvero molto più di un semplice gioco di rimandi: Arsonist fa vivere ampiamente la sua creatura di luce propria, passando senza soluzione di continuità da frammenti di minimalismo ad ampie aperture atmosferiche, da canti ecclesiastici alla furia dei blast beat, per una caleidoscopica esibizione di indiscutibile talento compositivo. Il terzo album degli Ars Moriendi è senz’altro di non facile fruizione ma non presenta, d’altro canto, quei momenti di sperimentazione fine a se stessa dei quali, spesso, in molti abusano per occultare una semplice carenza di idee. Davvero un ottimo lavoro che potrebbe indurre diversi ascoltatori ad effettuare una ricognizione retrospettiva della produzione della one man band transalpina.

Tracklist:
1. De l’intouchable mort
2. Vanité
3. De ma dague…
4. Ars Moriendi
5. La singulière noirceur d’un astre

Line-up: Arsonist All instruments, Vocals

ARS MORIENDI – Facebook

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Incantation – Dirges of Elysium

Gli Incantation regalano, a chi ha orecchie per intendere, cinquanta minuti di death che non necessita di alcun altro aggettivo per essere descritto.

Gli Incantation, per chi ascolta metal, non dovrebbero avere bisogno di presentazioni, visto che ormai da un quarto di secolo torturano puntualmente i nostri padiglioni auricolari con un death privo di compromessi ma, probabilmente anche per questo motivo, il loro nome è rimasto leggermente sotto traccia rispetto ad altri ben più famosi, pur se non necessariamente di superiore caratura.

Dirges Of Elysium è il decimo full-length di una discografia dal livello qualitativo medio elevatissimo e che, paradossalmente per una band dalla storia così lunga ed importante, si dimostra in costante crescendo negli ultimi anni; tutto ciò avviene senza ricorrere ad ammiccamenti groove-melodici o ad audaci sterzate stilistiche, bensì conferendo al proprio consolidato death dai tratti morbosi, che sovente sconfina in caliginose sonorità doom, un’intensità di gran lunga superiore a quella, comunque apprezzabile, mostrata dalla nouvelle vague del genere. Insomma, se anche molti dei nomi storici paiono segnare il passo o forse, non hanno più la convinzione o la forza per portare avanti pervicacemente queste sonorità sature di tenebrosa veemenza, gli Incantation regalano, a chi ha orecchie per intendere, cinquanta minuti di death che non necessita di alcun altro aggettivo per essere descritto: questa è l’essenza del genere, l’evocazione della morte, del disfacimento, la cronaca impietosa della caduta in voragini dove ogni parvenza di vita è stata fagocitata da una blasfema ed informe materia putrescente. La componente doom non mostra alcun parvenza malinconica o caratteristiche auto consolatorie come sovente accade nel genere in questione; i rallentamenti, piuttosto, appaiono funzionali alla rappresentazione di un immaginario ancora più cupo e denso di maligna oscurità. Se Carrion Prophecy è un brano che, per gli standard degli Incantation, potrebbe essere perfino definito “orecchiabile” se non si rischiasse di cadere nel grottesco, tracce come Debauchery o From A Glaciate Womb portano letteralmente a scuola decine di band di più recente formazione che, mi duole dirlo, hanno ancora molta strada da fare prima di raggiungere i livelli di intensità e di coinvolgimento raggiunti dai deathsters della Pennsylvania. Anche cimentandosi in un brano di oltre sedici minuti come la conclusiva Elysium, John McEntee e soci non perdono un’oncia della propria convinzione, chiudendo in maniera eccellente il miglior album death ascoltato dal sottoscritto da parecchio tempo a questa parte, con buona pace di chi non ritiene degno di attenzione chi “si limita” a perpetrare ai massimi livelli la tradizione di un genere con il quale tutti, piaccia o meno, dovranno fare i conti ancora molto a lungo.

Tracklist:
1. Dirges of Elysium
2. Debauchery
3. Bastion of a Plague Soul
4. Carrion Prophecy
5. From a Glaciate Womb
6. Portal Consecration
7. Charnel Grounds
8. Impalement of Divinity
9. Dominant Ethos
10. Elysium (Eternity Is Nigh)

Line-up:
John McEntee – Guitars (lead), Vocals
Kyle Severn – Drums
Chuck Sherwood – Bass

INCANTATION – Facebook

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VIII – Drakon

“Drakon” è un album al quale la semplice etichetta death/black non solo sta stretta ma, per certi versi, può risultare anche fuorviante, alla luce delle pesanti influenze dark-doom e di una certa vena sperimentale esibita in diverse parti del lavoro.

L’esordio su lunga distanza del duo sardo VIII (già Division VIII) è l’ennesima espressione di vitalità di una scena estrema italiana in teoria inesistente, almeno se dovessimo dar retta ai singoli musicisti di volta in volta interpellati, ma che, per fortuna, continua a sfornare puntualmente band e dischi di notevole fattura.

Drakon ne è un ulteriore esempio, nel suo esibire un black death che possiede tutti gli ingredienti per soddisfare gli appassionati di questa sonorità, in particolare chi apprezza i Forgotten Tomb che, volutamente o meno, vengono chiamati sovente in causa nelle parti più ritmate.
Se l’opener Ode To Qayin ci fa intravvedere una band che si muove appunto nei pressi di un black metal cadenzato e di grande efficacia, la successiva Chalice With Blood Poisoned by Snake Bite, dopo una partenza che pare confermare tale tendenza esibisce invece rallentamenti e passaggi caratterizzati da una caliginosa oscurità: ed è in effetti questo il vero marchio del duo cagliaritano, ovvero l’alternanza tra le sfuriate tipiche del black tradizionale e le aperture al death più cupo e dalle sfumature occulte, unite a passaggi asfissianti ai limiti del doom.
Insomma non ci si annoia certo con gli VIII, tra la rivisitazione della marcia funebre nella cangiante Exequias Itinera, un brano dal tocco funereo come In Utero Matris che, complice l’uso dell’hammond, avrebbe fatto la sua ottima figura nella tracklist di “Feretri” degli Abysmal Grief, e la title-track, episodio black doom che lascia il segno delimitando la parte centrale del lavoro.
Le trame allucinate di Meta Stasis – Carcinogenic Cell, specialmente nella sua seconda metà, e della conclusiva Descending the Abyss, sono la pietra tombale collocata su un lavoro indubbiamente complesso ma che merita d’essere sviscerato nella sua interezza.
Il rischio che passi inosservato, confuso tra le miriadi di uscite, è piuttosto elevato, ed è anche compito di chi tratta di musica sulla carta stampata o sul web far sì che ciò non avvenga; tra l’altro Drakon è un album al quale la semplice etichetta death/black non solo sta stretta ma, per certi versi, può risultare anche fuorviante, alla luce delle pesanti influenze dark-doom e di una certa vena sperimentale esibita in diverse parti del lavoro.
Francamente nomi ben più noti e pubblicizzati non hanno minimamente raggiunto il livello di intensità toccato con questo loro primo album dagli VIII, ai quali oggettivamente manca solo una produzione appena un po’ più nitida e, magari, anche qualcuno che si prenda seriamente la briga di promuoverne la musica in loro vece.

Tracklist:
1. Ode To Qayin
2. Chalice With Blood Poisoned by Snake Bite
3. Exequias Itinera
4. In Utero Matris
5. Drakon
6. Meta Stasis – Carcinogenic Cell
7. Descending the Abyss

Line-up:
DrakoneM – Vocals, Guitars, Bass
Mark – Drums

VIII – Facebook

The Committee – Power Through Unity

Al netto delle tematiche trattate, quest’esordio dei The Committee è uno dei migliori che mi sia capitato di ascoltare in questa prima metà del 2014 e, alla fine, questo è ciò che più conta.

Una copertina a dir poco sospetta e molti altri particolari inerenti questa band potrebbero scoraggiare l’ascolto da parte di chi cerca di tenersi alla larga da dischi che possano, in qualche modo, mostrare un preciso schieramento degli autori a livello ideologico.

Passando al vaglio tutti gli aspetti, dalla grafica ai testi, istintivamente verrebbe da collocare questa band, che ha la propria base operativa in Belgio, piuttosto a destra ma, al riguardo, i The Committee dichiarano di essere apolitici, essendo il loro unico intento quello di dare una voce ai morti, in particolare a quelli che, nelle diverse guerre che hanno insanguinato l’Europa negli ultimi cent’anni, si sono trovati dalla parte degli sconfitti. A questo punto devo necessariamente fidarmi del russo Igor Mortis e soci (tutti provenienti da nazioni differenti), perché, fortunatamente, per farmi ricredere mettono sul piatto un argomento potentissimo quale è la musica, che giunge a spazzare via buona parte delle remore nell’avvicinamento a questo disco. Power Through Unity, infatti, è uno splendido album a base di un black doom dai toni perennemente drammatici e solenni, come impone del resto la scelta lirica della band che verte essenzialmente su una rilettura dei momenti più tragici della storia russa dalla rivoluzione in poi. Una produzione impastata il giusto, che forse toglie limpidezza ai suoni rendendoli nel contempo ancora più cupi, una scelta stilistica che predilige ritmi medi o rallentati, e brani che mantengono sempre alta una certa tensione emotiva, sono le caratteristiche peculiari di un lavoro che, indubbiamente, si rivela una piacevole sorpresa, presentando al suo interno due episodi formidabili per intensità quali By My Bare Hands e The Last Goodbye, entrambi pesantemente influenzati dal doom, ma senza che per questo il resto della tracklist sia trascurabile: Not Our Revolution e The Man of Steel sono due mid-tempo di grande spessore, nei quali i The Committee si muovono come una sorta di versione raffinata degli Immortal, con le chitarre a tessere con il caratteristico tremolo linee melodiche di sicuro coinvolgimento. Non da meno neppure Katherine’s Chant, che nella parte finale riprende la melodia dell’omonimo e notissimo canto popolare sovietico, mentre Power Through Unity costituisce l’emblema dell’auspicata coesione tra i popoli russi e germanici, riuscendo a inserire in maniera efficace i temi portanti dei due inni nazionali all’interno della canonica struttura black. Il tema della riscrittura della storia a seconda di chi sia il detentore del potere è sicuramente sempre attuale (e noi italiani lo sappiamo molto bene), così come è altrettanto evidente che i punti di vista possano cambiare, a seconda del vissuto delle popolazioni coinvolte e, in ogni caso, penso che nessuno possa avere qualcosa da eccepire sulla condanna delle atrocità subite dai deportati nei gulag o sulla commiserazione delle vittime delle guerre; detto questo, ribadisco che questo album d’esordio dei The Committee, al netto delle tematiche trattate, è comunque uno dei migliori che mi sia capitato di ascoltare in questa prima metà del 2014 e, alla fine, questo è ciò che più conta.

Tracklist:
1. Not Our Revolution
2. The Man of Steel
3. By My Bare Hands
4. The Last Goodbye
5. Katherine’s Chant
6. Power Through Unity

Line-up:
Marc Abre – Bass, Backing Vocals
William Auruman – Drums, Percussion
Aristo Crassade – Guitars, Backing Vocals
Igor Mortis – Vocals, Guitars

THE COMMITTEE – Facebook

Dark Mirror Ov Tragedy – The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures

I Dark Mirror Ov Tragedy ci regalano una vera opera Horror,drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile.

L’immaginario orrorifico in oriente è piu’ radicato di quello che si possa pensare: ogni paese, dal Giappone alla Cina, passando per le due Coree, abbondano di leggende su fantasmi e vampiri e, inevitabilmente, anche la letteratura e il cinema da quelle parti hanno un loro consolidato panorama horror, che ultimamente abbiamo avuto modo di gustare nei remake americani come il famosissimo “The Ring”, buona pellicola di genere ma ovviamente nemmeno paragonabile alla terrificante versione originale.

Dalla Corea del Sud abbiamo potuto ammirare il bellissimo “Two Sisters”, film gothic sulla falsariga del ben più famoso “The Others” con la splendida Nicole Kidman uscito alcuni anni fa. Aggiungiamoci una cultura musicale che nei paesi occidentali neanche ci sogniamo (nelle scuole la musica è presa molto seriamente e messa alla pari delle altre materie) e che determina nei ragazzi un’ottima conoscenza della musica e degli strumenti classici. Non c’è da meravigliarsi allora se dalla Corea del Sud arrivano a noi, tramite WormHoleDeath, questi ottimi Dark Mirror Ov Tragedy, combo di ben sette elementi nato nel 2003 e con due full-length ed un Ep in archivio. Il loro The Lunatic Chapters Of Heavenly Creatures, nuovo e bellissimo album, stupisce per abilità tecnica e songwriting al top, riportando allo splendore le gesta di Dani Filth e dei suoi Cradle e dei magnifici lavori dei primi anni novanta, quei “The principle of evil made flesh” e “Dusk and her embrace”. Ma, credetemi, neppure la band inglese riusciva, anche in album che hanno creato un genere partendo da una base black, ad essere cosi magniloquente nelle sinfonie di cui questo lavoro è colmo, strabiliando nelle melodie del piano e del violino che, più di altro, fanno la differenza. Il vocalist Material Pneuma mantiene per tutto l’album uno screaming filthiano, in linea con le band di genere, le due asce, al secolo Senyt e Gash, macinano riff come da copione e la sezione ritmica (Reverof- basso e Confyverse-batteria) vola come uno sciame di pipistrelli sul cielo di Seul, ma keyboards e violino sono di un’altra categoria: Zyim ed Arthenic ammaliano, tra fughe sinfoniche e intermezzi di raggelante atmosfere gothic, facendo risplendere i loro strumenti grazie anche ad una produzione ottima che offre la possibilità di godere della loro abilità anche quando la band spara bordate di metallo estremo, reso elegante dalle sempre bellissime melodie degli strumenti classici. Una vera opera horror, drammaticamente romantica e dotata di un fascino irresistibile, come lo sguardo ammaliante di un vampiro dagli occhi a mandorla. I brani di questo incredibile lavoro sono tutti indiscutibilmente riusciti, ma una menzione particolare va a Dancing in the Burning Mirror, The Constellation of Shadows e The Name of Tragedy. Potreste pure perdervi un album di questo genere, basta che non andiate in giro a dire che meglio dei Cradle of Filth non c’è nessuno. Fantastici.

Tracklist:
1. Thy Sarcophagus
2. Unwritten Symphony
3. Dancing in the Burning Mirror
4. Ichnography on Delusion
5. Virtuoso of the Atmosphere
6. Perish by Luminos Dullness
7. The Constellation of Shadows
8. The Name of Tragedy
9. The Noumenon I Carved

Line-up:
Gash – Guitars
Material Pneuma – Vocals (lead)
Confyverse – Drums
Reverof – Bass, Vocals (backing)
Senyt – Guitars
Arthenic – Violin
Zyim – Keyboards

DARK MIRROR OV TRAGEDY – Facebook

Ravenscry – The Attraction Of Opposites

“The Attraction of Opposites” è un ottimo lavoro che conferma le enormi potenzialità dei Ravenscry.

Tornano alla ribalta con questo nuovo album i Ravenscry, band milanese salita alla ribalta con il precedente “One Way Out”, nel non troppo lontano 2011.

Registrato al Ravenstudio e mixato al Bohus Sound Recordings in Svezia da Roberto Laghi e Dragan Tanaskovic, il nuovo disco conferma le buone impressioni suscitate dal primo episodio della saga Ravenscry, rivelandosi un lavoro originalissimo nel quale viene manipolata la materia gothic con assoluta maturità, e dove viene impressa al sound un’impronta che si allontana dalle facili catalogazioni mostrando un approccio vario, dalle mille sfumature e sfruttando al meglio ogni opportunità per rilasciare un prodotto distinguibile, tra le tante uscite discografiche in questo ambito.
Protagonista assoluta è la cantante Giulia Stefani, dotata di una voce che, usata in modo originale (talvolta pare di essere al cospetto di una cantante jazz), travolge per bellezza e personalità.
Il gruppo, da par suo, non si fa pregare nel picchiare il giusto sui propri strumenti, mantenendo viva una forte impronta metallica, e lo ricorda agli ascoltatori con una sezione ritmica tosta che non risparmia soluzioni progressive e sviluppi sonori che ricordano generi lontani dal mondo propriamente metal e gothic, sempre alla costante ricerca di una soluzione originale e mai scontata.
Luxury Of A Distraction apre il disco ed il mondo dei Ravenscry comincia a girare vorticosamente intorno a noi, con luci e ombre, tensione e pacatezza, esplosioni elettriche e divagazioni swing che ci sommergono dal primo all’ultimo minuto, all’inseguimento della sirena Giulia che, con la sua voce, ci sorprende ad ogni passaggio.
La band compatta sciorina riff e ritmiche tra gothic e metal moderno, inserendo armonie di fiati, dalla tromba (Living Today) al sax (Alive), alimentando atmosfere che passano dal progressive ai ritmi jazzati con facilità disarmante, non risparmiandosi e lasciando l’ascoltatore in attesa del prossimo, stupefacente, cambio di registro con il quale i Ravenscry andranno incontro a soluzioni più canoniche, oppure travolgeranno con soluzioni musicali e canore originalissime (The Big Trick).
Produzione ad altissimi livelli, artwork semplicemente fantastico e combo ai nastri di partenza per la definitiva consacrazione: difficile oggi trovare una band così peculiare nel genere e con questi elevati livelli di espressività.
Chapeau!

Tracklist:
01. Luxury Of A Distraction
02. The Witness
03. Missing Words (il video)
04. Alive
05. The Big Trick
06. Touching The Rain
07. Cynic
08. Living Today (il video)
09. Third Millennium Man
10. Noir Desire
11. Ink
12. Your Way
13. ReaLies

Line-up:
Giulia Stefani – Vocals
Mauro Paganelli – Guitars
Paolo Raimondi – Guitars
Andrea Fagiuoli – Bass
Simone Carminati – Drums

RAVENSCRY – Facebook