The Crystal Flowers – Crystallized

I fiori di cristallo ornano ancora oggi, come negli anni a cavallo tra i 60′ e 70′, il collo degli amanti della cultura rock di quel periodo, delicati ed eleganti ad un primo sguardo, ma resistenti agli impulsi elettrici dell’hard rock e del blues.

I fiori di cristallo ornano ancora oggi, come negli anni a cavallo tra i 60′ e 70′, il collo degli amanti della cultura rock di quel periodo, delicati ed eleganti ad un primo sguardo, ma resistenti agli impulsi elettrici dell’hard rock e del blues.

La loro arma migliore è il ritmo, un costante fiume di note che sono il di quel rock divenuto in quegli anni il genere più importante sia a livello musicale che sociale.
E i The Crystal Flowers il rock duro infarcito di atmosfere rhythm and blues lo sanno suonare come meglio non si potrebbe, regalandoci poco più di mezzora di grande musica che ferma il tempo e comincia a far scorrere il calendario al contrario, tornando ai tempi delle grandi kermesse musicali in parchi newyorkesi, su qualche isoletta britannica o semplicemente in piccole città rurali come la storica Bethel.
Crystallized non è affatto una mera operazione nostalgica, bensì un sincero e coinvolgente tributo ai nomi che più hanno segnato la storia della nostra musica preferita, con l’opener Ain’t Alright che ci dà il benvenuto tra il profumo inebriante dei petali cristallizzati di fiori color rosso sangue.
Sanguigni, appunto, come il blues, il quale accoppiandosi con il rock diventa una micidiale macchina ritmica, supportata da riff e sfumature maleducate quando entrano in noi senza permesso e ci fanno muovere il piede a tempo con le note sprigionate dagli strumenti, come in Unturned, Calling o la magnifica Broken Glass.
Oggi molte delle atmosfere di Crystallized vengono catalogate come southern, genere cool di questi tempi, ma è fondamentale sottolineare che quello che troviamo nell’album è solo rock’n’roll, suonato da questi esperti musicisti con la dovuta sagacia e senza alcun timore di apparire poco originali.
Troverete così un po’ di Rolling Stones, e poi Led Zeppelin, Cream, Lynyrd Skynyrd, Bob Dylan e i The Beatles: tutto sarà riflesso in un mazzo di fiori di cristallo e sarà bellissimo avere il privilegio di osservalo e, soprattutto, di ascoltarlo.

Tracklist
1.Ain’t alright
2.Unturned
3.Calling
4.Me Changed
5.Wastin’ Vision
6.Goin’
7.Greed
8.Broken Glass
9.Next To Nothing Next To All
10.Within Our Days

Line-up
Fauxcul – Voice and Guitars
Steve – Guitars
Grit – Bass
Moran – Drums

THE CRYSTAL FLOWERS – Facebook

Skognatt – Ancient Wisdom

Zambo mette a frutto la sua poliedrica esperienza acquisita in campo musicale per inscenare una prova piuttosto convincente e meritevole d’essere ascoltata.

Skognatt è il progetto solista di Danijel Zambo, musicista tedesco, del quale avevamo già parlato qualche mese fa in occasione dell’uscite dell’ep Ancient Wisdom, formato da due brani all’insegna di un black metal atmosferico.

Curiosamente Zambo decide di ripresentarsi con un full length avente in comune con l’ep sia il titolo sia la copertina e ciò, sicuramente, non agevola i potenziali fruitori nel capire a quale delle due versioni si trova di fronte
Quindi, confermando quanto già espresso positivamente in relazione ai due brani già conosciuti, la title track e Xibalba, si può osservare fin da Wold Apart una maggiore presenza di sonorità definibili a buon titolo black metal, seppure filtrate dal particolare approccio del musicista di Augsburg.
Una più intimista ed oscura Thanatos lascia spazzo al blast beat ossessivo di Dark Star, brano invero un po’ monocorde, ampiamente riscattato dalla traccia conclusiva Fallen, ben più brillante e varia nel suo alternare un orecchiabile groove a momenti rarefatti, culminanti con un’elegante chiusura di stampo acustico.
Indubbiamente la presenza di un batterista in carne ed ossa conferisce maggiore profondità al sound, e Zambo mette a frutto la sua poliedrica esperienza acquisita in campo musicale per inscenare una prova piuttosto convincente e meritevole d’essere ascoltata.

Tracklist:
1. Ancient Wisdom
2. Xibalbá
3. World Apart
4. Thanatos
5. Dark Star
6. Fallen + Outro

SKOGNATT – Facebook

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL: METALEYES IYE

La riproduzione audio dell’intervista di Mirella con Alberto e Stefano di Metaleyes IYE.

Grazie all’avvio della reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni mercoledì alle 21.30 ed ogni domenica alle 22.00 su www.energywebradio.it.
Questa volta è il nostro turno, visto che Mirella ha voluto saperne di più sulla storia passata e presente di Metaleyes IYE: alle sue domande hanno risposto, esibendo un impercettibile accento genovese, Alberto e Stefano …

Dee Calhoun – Go To The Devil

Oltre al blues qui c’è una grande anima ed al contempo aleggia molto forte lo spirito americano, quell’american folk che si può fare solo nella terra oltre l’Atlantico.

Torna il bardo barbuto che risponde al nome di Dee Calhoun, il cantante dell’ottima doom band Iron Man.

Questo Go To The Devil è il suo secondo lavoro solista, dopo Rotgut del 2016 uscito sempre su Argonauta Records come questo. Il nostro non si discosta molto dal disco precedente, narra le sue storie con l’ausilio di chitarra acustica, qualche percussione e con il fido socio degli Iron Man Louis Strachan al basso. Il risultato è persino migliore del già buon disco precedente. In tanti hanno si mettono dietro alla chitarra acustica per narrare storie, ma la struttura minimale di questa scelta musicale fa vedere chi può farlo e chi no, e Dee è un maestro in questo. Con relativamente poco riesce a creare delle bellissime atmosfere, pregne di blues, di asfalto e di vita vissuta, di cicatrici e soprattutto di come si procurano. Oltre al blues qui c’è una grande anima ed al contempo aleggia molto forte lo spirito americano, quell’american folk che si può fare solo nella terra oltre l’Atlantico. Dee possiede una grande maturità e ha un piglio da cantautore blues, anche se ,a ben sentire, le canzoni sono sempre costruite con una forte ossatura rock se non metal, e sarebbero già pronte ad essere eseguite da un gruppo. La voce di Calhoun è calda, potente, come un fuoco che sa di esserlo, ma che si è anche bruciato da par suo prima di diventarlo. Non è facile fare un disco acustico e renderlo interessante e Go To The Devil vi terrà incollati alle cuffie o alle casse per molto tempo, perché ha anche vari livelli. Giubbotti neri e barbe lunghe che significano, oltre all’aspetto esteriore, una grande esperienza di vita, andando oltre le ferite che le inevitabili cadute portano. La musica come questa serve sia a chi la fa per espellere il veleno che quotidianamente ingoiamo, sia a chi la ascolta e viene riscaldato da tante sensazioni. Andare al diavolo a volte è l’unica soluzione possibile.

Tracklist
1. Common Enemy
2. Bedevil Me
3. Born (One-Horse Town)
4. The Final Stand of the Fallen
5. Go to the Devil
6. Me Myself and I
7. The Lotus Field is Barren
8. Jesus, the Devil, the Deed
9. The Ballad of the Dixon Bridge
10. Your Face
11. Dry Heaves & Needles

DEE CALHOUN – Facebook

Overhung – Moving Ahead

Forse la scaletta di questo lavoro andava distribuita meglio, fatto sta che gli Overhung alternano piccoli candelotti di dinamite glam rock a brani che soffocano l’atmosfera da party selvaggio, un difetto che il gruppo saprà sicuramente correggere in futuro.

La lontana e misteriosa India non si fa notare solo in ambito estremo, grazie ad ottime realtà che si dedicano a generi classici come l’heavy metal e l’hard rock.

Questo album di glam rock proveniente da Mumbai, ma con natali nel Sunset Boulevard, si intitola Moving Ahead, uscì originariamente nel 2016 e viene ristampato dalla Test Your Metal per la distribuzione in Nord America.
La band portatrice di cotanta attitudine rock’n’roll si chiama Overhung, alle spalle ha solo un ep del 2012 (Extended 4Play) e Moving Ahead risulta così il suo unico lavoro sulla lunga distanza, formato da dieci brani ispirati al glam rock anni ottanta con impennate hard rock e street che ne fanno un’opera piacevole, anche se qualche difettuccio non manca e il già sentito (se non si è fans sfegatati del genere) è di casa, ma il genere questo è quindi, prendere o lasciare.
L’album parte benissimo con l’hit Sex Machine, brano che sembra pescato da uno dei primi lavori dei Crue, con ritmiche di scuola Young a rendere il brano una vera bomba.
Qui andava sparata un’altra street song per far carburare al meglio l’ascoltatore, invece la band piazza Insane, un mid tempo di sei minuti che spezza l’atmosfera adrenalinica creata dall’opener.
Prima di tornare a far scorrere sangue nelle vene ai rockers dai colorati spandex, gli Overhung ci mettono ben tre brani, un po’ troppi a mio avviso, con Waiting che, come ballad, lascia il tempo che trova.
La band va molto meglio quando corre su e giù per la città degli angeli con I Am I, l’irriverente Must Drink, l’hard blues di Casual Bitch e la conclusiva You Think You’re Soo Cool, street punk rock tra Motley Crue e L.A.Guns.
Forse la scaletta di questo lavoro andava distribuita meglio, fatto sta che gli Overhung alternano piccoli candelotti di dinamite glam rock a brani che soffocano l’atmosfera da party selvaggio, un difetto che il gruppo saprà sicuramente correggere in futuro.

Tracklist
1. Sex Machine
2. Insane
3. Waiting
4. I Don’t Believe Her
5. Through The Slime
6. Waste
7. I Am I
8. Must Drink
9. Casual Bitch
10. You Think You’re So Cool

Line-up
Sujit Kumar – Vocals
Howard Pereira – Guitars
Crosby Fernandes – Bass
Sheldon Dixon – Drums

OVERHUNG – Facebook

https://youtu.be/ds_3sRHZNOY

Paradise Lost – Host (Remastered)

Appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della discografia dei Paradise Lost, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo.

C’era una volta la sacra triade inglese del gothic death doom, massima espressione di un movimento che produsse tramite i suoi migliori esponenti una serie di capolavori che segnarono pesantemente la storia del metal più oscuro all’inizio degli anni ’90.

I primi ad abbandonare la tenzone furono gli Anathema, pubblicando nel 1996 il pinkfloydiano Eternity, disco comunque splendido che venne seguito dal magnifico Alternative 4 e, po,i dall’altrettanto validoJudgement, per arrivare infine al definitivo distacco dal metal avvenuto con A Fine Day To Exit.
Nel 1998 anche i più ortodossi del trio, i My Dying Bride, tentarono di inserire elementi elettronici nel loro sound con un disco strambo ma tutt’altro che deprecabile come 34.788%… Complete, salvo poi tornare precipitosamente sui propri passi con il successivo The Light at the End of the World e continuando a sfornare in serie altri buoni lavori, culminati con il bellissimo e ultimo Feel The Misery, del 2015.
Prima di quanto fatto dai loro concittadini, nel 1997 i Paradise Lost, dal canto loro, avevano già impresso una svolta al proprio sound pubblicando One Second, album che era pervaso da una fino ad allora insospettabile fascinazione nei confronti dell’operato dell premiata ditta Gore/Gahan, ma che aveva fornito a mio avviso un risultato molto intrigante, grazie ad una serie di brani ispirati (tra cui forse quella che si può considerare la vera e propria hit della band di Halifax, Say Just Words) per quanto decisamente spiazzante nei confronti dei puristi.
Ed arriviamo al 1999, anno in cui viene pubblicato il controverso Host: volendo giocare con i nomi delle band, se One Seoind poteva essere definito un disco dei Paradise Mode, quest’ultimo parto era più ragionevolmente attribuibile a degli ipotetici Depeche Lost, in quanto ogni pulsione metallica era pressoché sparita, rimpiazzata da un elettro gothic dark piuttosto annacquato.
Già, perché al di là dell’incapacità di molti fans nell’accettare il fatto che una band possa avere tutto il diritto di sperimentare nuove soluzioni ed abbracciare stili diversi, il problema di Host era sostanzialmente il fatto d’essere un lavoro fiacco, privo di brani realmente trainanti (personalmente salvo solo le più oscure In All Honesty e Deep) tanto che, a quel punto, perso per perso, conveniva andarsi a recuperare i lavori dei capostipiti del genere piuttosto che ascoltarne una sbiadita e poco convinta copia rappresentata dai Paradise Lost.
Alla luce di questa lunga premessa, appare decisamente bizzarro il fatto che, poco dopo l’uscita di Medusa, uno degli album più doom e pesanti della loro discografia, si sia deciso di rimasterizzare quello che, a ben vedere, ne è la sua antitesi dal punto di vista stilistico, oltre che qualitativo (tra l’altro, se proprio lo si voleva/doveva fare per incombenze di tipo commerciale o contrattuale, non era meglio attendere almeno il ventennale che sarebbe caduto l’anno prossimo?).
Ora, va detto che in epoca di revisionismo acrobatico, quello che spinge i più smemorati a riscrivere e stravolgere la storia a proprio uso e consumo, non mi meraviglierei di trovare qualcuno che vorrà riabilitare Host (mi riferisco solo al disco, i Paradise Lost non hanno certo bisogno d’essere riabilitati, ma semmai vanno ringraziati per quella che è stata la loro carriera nel complesso); io ho provato a riascoltarlo con la segreta speranza di cogliere qualcosa che magari mi ero perso all’epoca della sua uscita, ma devo ammettere d’essermi annoiato dalla prima all’ultima nota esattamente come mi accadde nell’ormai lontano 1999.
Per concludere la retrospettiva storica, resta da aggiungere che Mackintosh e soci ritrovarono la via maestra di un sound a loro più consono, solo con la pubblicazione del disco autointitolato del 2005, vero e proprio inizio di una progressiva rinascita culminata con un album ispirato e degno del blasone della band come il recente Medusa.
Inutile aggiungere che se a qualcuno avanzassero degli euro è meglio che li investa diversamente, relegando Host all’oblio riservato ai dischi poco riusciti che anche alle migliori band capita di produrre.

Tracklist:
1. So Much Is Lost
2. Nothing Sacred
3. In All Honesty
4. Harbour
5. Ordinary Days
6. It’s Too Late
7. Permanent Solution
8. Behind The Grey
9. Wreck
10. Made The Same
11. Deep
12. Year Of Summer
13. Host

Line-up:
Nick Holmes – Vocals
Greg Mackintosh – Lead guitar
Aaron Aedy – Rhythm guitar
Steve Edmondson – Bass guitar
Lee Morris – Drums

PARADISE LOST – Facebook

Foredawn – Foredawn

I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Album di debutto per questa alternative gothic metal band lombarda, che ci investe con tutta la sua elegante energia con Foredawn, lavoro omonimo licenziato dalla The Jack Music Records.

Il quartetto milanese è composto dai fratelli Franco (Irene e Ivan), rispettivamente cantante e batterista e dalle sei corde di Mattia “Tia” Stilo e Riccardo Picchi.
Una voce sinuosa ma anche potente e metallica, ritmiche sostenute e chitarre heavy che si lasciano ammaliare da sfumature gotiche ed impulsi alternativi si uniscono per dar vita ad un prodotto molto interessante.
Dall’ascolto dei dieci brani più la cover del classico ottantiano You Spin Me Round dei Dead Or Alive, esce allo scoperto una band coesa, con un sound di livello ed alquanto personale anche se, inevitabilmente, qualche accostamento con realtà più affermate non manca (Lacuna Coil ed Evanescence).
Rispetto a molti gruppi del genere i musicisti milanesi hanno un approccio più heavy, le chitarre sono presenti in modo massiccio e non solo ritmicamente parlando, ma assurgendo a ruolo di protagoniste con assoli che si conficcano in cuori metallici che pompano adrenalina sotto i colpi inferti da Eternal Flight, Insidious Dark o la cavalcata hard & heavy Nightmare, ultima traccia originale prima di lasciare il gran finale alla rocciosa cover che abbiamo citato in precedenza.
I Foredawn ci travolgono, inarrestabili, con una tracklist che non conosce pause, urgente, diretta e senza fronzoli, uno schiaffo gotico e alternativo che non mancherà di lasciare il segno sui visi degli amanti del rock/metal nascosto tra le ombre della notte.

Tracklist
1.Cliffs Of Moher
2.Eternal Fight
3.Insidious Dark
4.Tears Are Fallen
5.Buried Hopes
6.Nightfire
7.Stronger
8.I Stay Here
9.Signs
10.Nightmare
11.You Spin Me Round (Like a Record) – Dead Or Alive Cover feat. Emi (Wolf Theory/Mellowtoy)

Line-up
Irene “Ire” Franco – Vocals
Ivan Franco – Drums
Mattia “Tia” Stilo – Guitar
Riccardo Picchi – Guitar

FOREDAWN – Facebook

BRVMAK

Il lyric video del brano ‘Vindictae’, dall’album di prossima uscita ‘In Nomine Patris’.

Il lyric video del brano ‘Vindictae’, dall’album di prossima uscita ‘In Nomine Patris’.

http://goo.gl/Aeg2sR

I Progressive Death Metallers BRVMAK rivelano il lyric video ufficiale del brano ‘Vindictae’, dal loro prossimo album ‘In Nomine Patris’.

‘Vindictae’ descrive in senso metaforico la vendetta dell’uomo verso tutti coloro che vogliano fermarne la crescita morale e cognitiva. Fiero e determinato come un guerriero, egli prende il proprio destino nelle sue mani e lo volge in suo favore, raggiungendo l’indipendenza attraverso l’acettazione della parte più oscura di se.

Il nuovo album ‘In Nomine Patris’ e’ un concept album incentrato sulla mitologia biblica. Ciascun brano descrive noi stessi come esseri umani, attraverso l’essenza metaforica degli eventi della bibbia.

‘In Nomine Patris’ uscira’ nel 2018 ed e’ stato registrato, mixato e masterizzato da Alessio Cattaneo e Riccardo Studer al Time Collapse Recording Studio di Roma (Novembre, Ade, Scuorn).

Official Lyric video prodotto da Cult Of Parthenope.

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ATLAS PAIN

Il video di ‘The Lighthouse’, nuovo singolo tratto dall’album ‘What The Oak Left’ (Scarlet Records).

Il video di ‘The Lighthouse’, nuovo singolo tratto dall’album ‘What The Oak Left’ (Scarlet Records).

La Epic/Folk Metal band Atlas Pain ha pubblicato il video di ‘From The Lighthouse’, nuovo singolo tratto dall’album ‘What The Oak Left’, disponibile su Scarlet Records.

Gli Atlas Pain combinano in maniera personale elementi di Extreme, Pagan/Folk e Symphonic Metal con un approccio decisamente “cinematografico”.

‘What The Oak Left’ è stato registrato presso i Media Factory studio di Fabrizio Romani (Skylark) e masterizzato da Mika Jussila (Nightwish, Children Of Bodom) ai Finnvox Studios di Helsinki. Il bellissimo artwork è stato curato da Jan Örkki Yrlund di Darkgrove (Korpiklaani, Manowar).

Lenore S. Fingers – All Things Lost On Earth

Un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.

Quando, nel 2014, uscì un album come Inner Tales, era apparso subito evidente che ci si trovava di fronte all’epifania di un talento unico e cristallino come quello della giovanissima musicista calabrese Federica “Lenore” Catalano.

Restava solo da confermare quanto di buono già mostrato in quel frangente ed è valsa, così, la pena d’avere atteso diverso tempo prima di poter ascoltare il seguito di quel bellissimo disco: All Things Lost on Earth è un’opera che riconcilia con il gothic contraddistinto da voce femminile chiunque avesse in uggia questo tipo di soluzione.
Già, perché qui non c’è nulla di scontato e pianificato a tavolino, solo una decina di canzoni splendide, interpretate da una cantante dalla voce particolare e personale, aiutata da una band perfetta nel proprio ruolo di robusto e, al contempo, atmosferico supporto.
Nel sound dei Lenore S. Fingers confluisce un’inevitabile serie di influssi provenienti da band differenti, ma aventi quale comune denominatore la capacità di produrre musica intrisa di malinconico trasporto (Novembre, Katatonia, The Gathering era Anneke, su tutte), e da ciò ne scaturisce un sound che produce il risultato tutt’altro che scontato di non assomigliare ad un modello specifico.
All Things Lost On Earth è un lavoro che possiede la forza di resistere ad una tripletta iniziale di brani talmente belli che renderebbe superfluo il prosieguo di qualsiasi altra tracklist: My Name Is Snow è una sorta di intro, con la voce di Federica che si appoggia sul tappeto strumentale creato dall’ospite Anna Murphy (un’altra splendida interprete che fornisce il suo prezioso contributo all’album solo in forma strumentale, attraverso le tastiere ed uno strumento tradizionale come la ghironda), seguita da Lakeview’s Ghost, dal superlativo chorus e con un’accelerazione finale che conduce a Rebirth, brano di struggente bellezza in ogni suo aspetto.
Così Ever After, con il suo incedere più lieve, funge da ideale cuscinetto tra la prima parte dell’album e quella conclusiva, assieme alla più elaborata Luciferines, unica traccia nella quale appaiono parti cantate in italiano, e la “novembrina ” Epitaph.
L’intensa My Schizophreniac Child recupera l’impatto emotivo impercettibilmente scemato nei brani appena citati, conducendo alla sognante Decadence Of Seasons, canzone nella quale Federica regala brividi a profusione, replicati in buona parte nella più ariosa title track, e affidando la chiusura alla breve e più cupa Ascension, finale degno di un disco di enorme valore.
I Lenore S. Fingers hanno perso buona parte di quelle sfumature doom messe in mostra all’esordio, approdando ad un gothic ricco di quel pathos mancante alla maggior parte degli album ascrivibili allo stesso ambito, spesso perfetti dal punto di vista formale ma scontati nelle soluzioni e incapaci di comunicare empaticamente nei confronti dell’ascoltatore; Federica e i suoi compagni ci aprono, invece, le porte di un microcosmo nel quale regna una malinconia soffusa, lontana sia dalla disperazione delle forme più estreme di doom, sia dall’enfasi dai tratti sinfonici del gothic più commerciale: un disco così profondo, intenso e nel contempo delicato, poteva scaturire solo dall’incontro tra il triste disincanto del gothic dark di matrice nordica ed il tepore mediterraneo, capace di sciogliere il ghiaccio trasformandolo in lacrime liberatorie.

Tracklist:
1. My Name Is Snow
2. Lakeview’s Ghost
3. Rebirth
4. Ever After
5. Luciferines
6. Epitaph
7. My Schizophreniac Child
8. Decadence Of Seasons
9. All Things Lost On Earth
10. Ascension

Line-up:
Federica Lenore Catalano: vocals, acoustic guitars, guitar synth
Patrizio Zurzolo: electric guitars, guitar synth
Natale Casile: bass
Gianfranco Logiudice: drums

Special Guest: keyboards, synth and hurdy-gurdy by Anna Murphy

LENORE S.FINGERS – Facebook

Thundermother – Thundermother

Il clamoroso debutto è solo in parte sfiorato da questi nuovi tredici brani che tanto perdono dell’urgenza e della sfacciataggine rock’n’roll dell’esordio, per un approccio più ragionato, meno scanzonato ed in parte più blues.

Filippa Nässil, leader di quella bomba rock’n’roll che di nome fa Thundermother e che un paio di anni fa ci era esplosa tra le mani grazie ai brani che componevano Road Fever, primo fantastico album del gruppo tutto al femminile proveniente dalla Svezia, deve aver faticato non poco prima di uscire da una crisi che ha visto tre quinti del gruppo fare le valigie e partire per altri lidi.

Altre tre ragazze terribili sono state assunte per dare vita a questo secondo album omonimo: la sanguigna cantante Guernica Mancini, la bassista Sara Pettersson e la batterista Emlee Johansson; le Thundermother possono così tornare a farci male con il loro hard rock classico, strutturato su un irresistibile mix di Ac/Dc e rock’n’roll scandinavo.
Diciamolo subito, il clamoroso debutto è solo in parte sfiorato da questi nuovi tredici brani che tanto perdono dell’urgenza e della sfacciataggine rock’n’roll dell’esordio, per un approccio più ragionato, meno scanzonato ed in parte più blues.
Sarà che la Mancini ci delizia con la sua voce che tanto sa di hard rock alcolico, affascinate e ruvida il giusto per spezzare cuori in qualche locale fumoso della Stoccolma rock style, ma Thundermother ci consegna una band cambiata inevitabilmente anche nell’approccio al rock che qui si fa più maturo e scafato.
L’opener Revival ci dà il benvenuto, mentre scorrono i brani di questo lavoro, tra Ac/Dc, accenni blues alla Mother Station e diretti al volto di marca Backyard Babies.
Racing On Mainstreet, il blues che accompagna Fire In The Rain, l’irresistibile Original Sin, i canguri australiani che saltano al ritmo di We Fight For Rock ‘n’ Roll, fanno parte di una raccolta di brani che, se lascia indietro un po’ di quell’entusiasmo contagioso del primo lavoro, supera la prova di un ritorno così sofferto e faticoso.
Tanto di cappello alla Nässil, rocker tripallica che dimostra di non fermarsi davanti alle avversità andando avanti a testa alta per la sua strada… We Fight For Rock ‘n’ Roll.

Tracklist
01. Revival
02. Whatever
03. Survival Song
04. Racing On Mainstreet
05. Fire In The Rain
06. Hanging At My Door
07. Rip Your Heart Out
08. The Original Sin
09. Quitter
10. We Fight For Rock ‘n’ Roll
11. Follow Your Heart
12. Children On The Rampage
13. Won’t Back Down

Line-up
Filippa Nässil – Guitars
Guernica Mancini – Vocals
Sara Pettersson – Bass
Emlee Johansson – Drums

THUNDERMOTHER – Facebook

Insaniam – Ominous Era

I cinque malati di mente che si nascondono sotto il monicker Insaniam regalano, almeno per i primi quaranta minuti un metal estremo davvero suggestivo, frenetico, moderno e schizofrenico il giusto per trasformare il proprio sound in un’alchimia tra il black metal ed il thrash progressivo suonato dagli Strapping Young Lad.

Leggenda vuole che qualche tempo fa, in un istituto psichiatrico, cinque individui ospiti della struttura furono rinchiusi per diverso tempo lontano da qualsiasi contatto con l’esterno: questo esperimento su menti già di per sé instabili portò ad un fenomeno patologico chiamato Insaniam.

Ora queste mostruose creature provenienti dalla Spagna sono libere di circolare e sfogare tutta la loro depravata pazzia usando il monicker dell’esperimento che li ha trasformati in macchine di tortura e depravazione, ed i risultati sono stati il primo ep licenziato tre anni fa (Neurotic Mental Storm) e, soprattutto, questo debutto sulla lunga distanza, intitolato Ominous Era, composto da undici brani dal sound strutturato su un black metal a tratti melodico, dalle ritmiche che in alcuni casi si avvicinano al thrash moderno e caratterizzato da digressioni progressive.
Detto così sembrerebbe di essere al cospetto di un debutto sopra le righe, ed in parte il giudizio si avvicina a questa affermazione, non fosse per una prolissità che porta inevitabilmente a perdere l’attenzione necessaria per arrivare in fondo all’ascolto.
E’ pur vero che i cinque malati di mente che si nascondono sotto il monicker Insaniam regalano, almeno per i primi quaranta minuti, un metal estremo davvero suggestivo, frenetico, moderno e schizofrenico il giusto per trasformare il proprio sound in un’alchimia tra il black metal ed il thrash progressivo suonato dagli Strapping Young Lad.
Ominous Era è un susseguirsi di cambi di tempo, sferzate black e ripartenze modern thrash da infarto, con lo scream pazzoide che tortura i padiglioni auricolari, vocine alterate provenienti da menti devastate dalla malattia ed atmosfere che inducono ad immaginare la cruenta vita di una casa degli orrori.
La band riserva il meglio alla partenza, con due brani di devastante pazzia come l’opener Disequilibrium e Let The Fever Explode, poi ci si assesta sui canoni descritti fino al capolavoro black/thrash metal Mother Whispers In My Ear.
Come detto, la fatica in seguito si fa sentire e si arriva agli attimi conclusivi di NNN, dalle atmosfere horror, con un leggero fiatone anche se in generale il giudizio sull’album rimane assolutamente positivo.
Consigliato ai fans del black metal più moderno e dalle melodie progressive, Ominus Era risulta un’ottima partenza per il gruppo spagnolo, speriamo solo che non vengano catturati e rinchiusi un’altra volta.

Tracklist
1.Disequilibrium
2.Let the Fever Explode
3.Epidemic Race
4.Primal Fear
5.Chrysalis
6.The Reign of Mist
7.Mother Whispers In My Ear
8.Vermin
9.Moths
10.Flesh That Fuels
11.NNN

Line-up
Neuros – Vocals
Dementh – Guitars
Theryan – Drums
Anxxiet – Guitars
Psycho – Bass

INSANIAM – Facebook

Owl – Orion Fenix

Orion Fenix va lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà.

Torna dopo alcuni anni, con un ep composto da un solo lungo brano della durata di circa venti minuti,
il progetto solista denominato Owl di Christian Kolf, vocalist dei Valborg.

Il musicista tedesco, sin dall’inizio del decennio con questo monicker si è reso protagonista di un death doom piuttosto dissonante e sperimentale, con un’ampia componente ambient: Orion Fenix mantiene queste coordinate dimostrando come “il gufo” non intenda derogare dalla strada maestra intrapresa.
Ne viene fuori quindi un lavoro interessante, anche se non per tutti i palati, in quanto privo di decise aperture melodiche, salvo un più arioso frammento finale, o di passaggi comunque in grado di catturare l’attenzione al primo colpo; Orion Fenix va così lavorato con una certa pazienza, cercando soddisfazione all’interno di un sound minaccioso e pesante per riuscire infine a rendersi conto della sua oggettiva bontà, che si svela in maniera definitiva attorno al quindicesimo minuto, quando parte appunto una bella progressione di natura post metal.
L’eterea chiusura di matrice ambient rafforza le sensazioni positive prodotte da un ep che costituisce l’ideale antipasto al già programmato ed imminente full length Nights In Distortion: Kolf conferma d’essere un musicista di vaglia, capace di costruire una proposta sonora solidamente introspettiva anche se, inevitabilmente, di non troppo semplice fruizione.

Tracklist:
1. Orion Fenix

Line-up:
Christian Kolf

OWL – Facebook

Hiidenhauta – 1695

L’approccio del gruppo finlandese è senz’altro particolare in quanto cerca di fondere il black melodico con alcune pulsioni folk e progressive: un progetto ambizioso che purtroppo non riesce del tutto.

Gli Hiidenhauta sono una band finlandese attiva da qualche anno e che giunge, con 1695, al suo secondo full length.

L’approccio del gruppo fondato da Tuomas ed Emma Keskimäki è senz’altro particolare in quanto cerca di fondere il black melodico con alcune pulsioni folk e progressive: un progetto ambizioso che per lo più deve fare in conti con una produzione un po’ piatta, che non si rivela il mezzo più più adatto per restituire al meglio un idea di metal volta ad essere più ricercata di quanto non possa apparire a prima vista.
Se è sicuramente lodevole provare a sfuggire ad abusati schemi compositivi, come possono essere quelli di un viking o pagan metal (più aderenti alle tematiche di carattere storico ed alla pregevole ricerca a livello linguistico con l’utilizzo del cosiddetto “Kalevala Metre”), la sensazione è che non tutti i tasselli immessi nell’album vadano al proprio posto, a cominciare dalla voce femminile che il più delle volte appare fuori contesto, non tanto per demerito di Emma quanto perché la sua tonalità stride rispetto a come è strutturato il sound della band finlandese.
Così, tra qualche sfuriata spruzzata di folk come Hallan valta, il jazz pianistico (!) di Musta leipä ed una meglio focalizzata Maan poveen, l’album si trascina senza infamia nè lode verso la fine, lasciando in eredità qualche buono spunto ma anche una certa sensazione di incompiutezza, che magari apparirà più attenuata a chi potrà godere dell’album comprendendone anche i testi, ma che, invece, risulterà accentuata in chi per forza di cose deve focalizzare la propria attenzione sulla musica.
Da menzionare la bellissima copertina, che riproduce il dipinto ottocentesco Kerjäläisperhe maantiellä, opera del pittore Robert Wilhelm Ekman.

Tracklist:
1. Hallan valta
2. Äärellä
3. Kuolimaan tytär
4. Musta leipä
5. Jumalan vihan ruoska
6. Talvikäräjät
7. Nälkäkevät
8. Maan poveen
9. Nimettömät

Line-up:
Eetu Ritakorpi – Drums
Otto Hyvärinen – Guitars
Tuomas Keskimäki – Vocals, Lyrics
Emma Keskimäki – Vocals (female)
Ihtirieckos – Bass
Gastjäle – Keyboards, Flute

HIIDENHAUTA – Facebook

Antichrist – Pax Moriendi

Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist, capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Dopo alcuni anni di attività costellati dall’uscita di diversi demo e singoli, anche per i peruviani Antichrist è arrivato il momento del debutto su lunga distanza.

Pax Moriendi è un lavoro intriso di un death doom ruvido ed essenziale, reso appena più morbido da una tastiera volta a dare al tutto un tocco vagamente orrorifico, con il growl che si attesta invece su una modalità rantolo che nulla concede, men che meno all’intelligibilità dei testi.
Siamo quindi dalle parti dell’interpretazione del genere più vicina a band come Disembowelment, ma in maniera meno aspra e dissonante, e il tutto riesce in maniera apprezzabile alla band sudamericana, la quale offre talvolta squarci di melodia come nella parte finale dell’opener Forgotten in Nameless Suffering, e comunque mantenendo lungo i tre quarti d’ora dell’album un buon livello, anche quando i ritmi si intensificano spostando la barra verso un putrido death di scuola floridiana accompagnato dalla sempre presente tastiera in sottofondo.
Nei precedenti casi in cui mi ero imbattuto in doom band provenienti dal paese andino non ero rimasto particolarmente impressionato, trattandosi per lo più di lavori apprezzabili per genuinità ma, allo stesso tempo, approssimativi e troppo scarni per resa sonora; al contrario, gli Antichrist, pur non essendo tra gli interpreti più raffinati del genere, sanno decisamente il fatto proprio e mettono a frutto l’esperienza maturata attraverso un approccio cupo, diretto e dalla produzione adeguata alla bisogna.
Da rimarcare anche la bontà della lunga traccia conclusiva You Will Never See Sun Light, valido esempio di funeral che va a pescar oltre che dalla già citata seminale band australiana anche dagli Evoken: Pax Moriendi si rivela un esordio su lunga distanza di assoluto livello per gli Antichrist (ai quali di certo non giova più di tanto un monicker impegnativo ed un po’ inflazionato), capaci di mostrare un potenziale tutt’altro che banale e foriero quindi di altri luttuoso frutti nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Forgotten in Nameless Suffering
2. Obscurantism
3. In the Dark and Mournful Corner
4. Screams and Lamentations Drowned
5. You Will Never See Sun Light

Line-up:
Agalariept – Vocals
Sargatanaz – Drums
Zaren – Guitars, Keyboards
Gustavo Rodriguez – Bass

ANTICHRIST – Facebook

Demonomancy – Poisoned Atonement

Otto brani medio lunghi ci avvolgono tra le loro spire come serpenti infernali e ci inghiottono nel buio della dannazione, con il trio che non lascia assolutamente trasparire la benché minima possibilità redenzione in un turbinio di metallo estremo e diabolico.

Tornano ad infierire sulle proprie vittime, a suon di black/death/thrash, metal i Demonomancy, band attiva da una decina d’anni, con una manciata di lavori minori alle spalle ed un full length datato 2013 (Throne of Demonic Proselytism).

Tanti concerti in giro per l’Europa ed il cambio di label, con il passaggio dalla Nuclear War Now! Productions alla Invictus Productions, sono le novità che si porta dietro questa nuova uscita discografica, maligna ed estrema.
Intro – Revelation 21.8 ci accompagna fino alla soglia dell’inferno, prima che uno spintone ci faccia cadere per l’eternità nell’abisso luciferino della musica del combo capitolino, Poisoned Atonement non fa sconti ci investe con tutta la sua macabra follia, tra scudisciate black/thrash metal e mid tempo death, sorrette da growl bestiali, clean vocals declamatorie ed atmosfere di liturgica blasfemia in un vortice infernale.
Otto brani medio lunghi ci avvolgono tra le loro spire come serpenti infernali e ci inghiottono nel buio della dannazione, con il trio che non lascia assolutamente trasparire la benché minima possibilità redenzione in un turbinio di metallo estremo e diabolico.
Il sound viaggia spedito, tra thrash metal old school e death/black truce, alternando efficacemente la varie fonti di ispirazione.
L’atmosfera nera e blasfema che aleggia su Poisoned Atonement è delle più coinvolgenti mi sia capitato di ascoltare ultimamente e brani come Fiery Herald Unbound (The Victorious Predator), The Day Of The Lord o The Last Hymn to Eschaton confermano come la band punti tanto sull’impatto quanto sulle atmosfere.
Nel suo genere l’album è un lavoro riuscito, composto da una serie di tracce che attraggono ed affascinano pur rimanendo assolutamente estreme.

Tracklist
1.Intro – Revelation 21.8
2.Fiery Herald Unbound (The Victorious Predator)
3.Archaic Remnants of the Numinous
4.The Day of the Lord
5.Poisoned Atonement (Purged in Molten Gold)
6.The Last Hymn to Eschaton
7.Fathomless Region of Total Eclipse
8.Nefarious Spawn of Methodical Chaos

Line-up
Witches Whipping – Vocals, Guitars
A. Cutthroat – Bass
Herald of the Outer Realm – Drums, Vocals

DEMONOMANCY – Facebook

Osiris – Futurity and Human Depressions

Il migliore gruppo olandese di thrash, tra gli anni Ottanta e i primissimi Novanta, tra i pochi in vero del genere nella terra dei tulipani, di certo più nota per la scena death (Pestilence, Asphyx e Sinister).

L’Olanda non è mai stato un paese che ha dato tantissimo alla causa del rock: le punte dell’iceberg, si sa, sono state il new prog melodico tra la fine degli anni Ottanta ed i primi Novanta (Ywis, Egdon Heath, Cirkel, Last Detail, Timelock) ed il classico hard & heavy melodico (Vandenberg, nonché i Vengeance, da cui sono derivati in seguito gli space metal progsters Ayreon).

Un gruppo davvero di culto sono rimasti poi gli Osiris, autori di uno strabiliante techno-thrash progressivo, sulla scia degli statunitensi Watchtower e dei tedeschi Sieges Even, non lontano da suggestioni oscure, mutuate dai primi Judas Priest o dai Merciful Fate, ma altresì sensibili alla Bay Area meno oltranzista (si legga Laaz Rockit). Il quintetto olandese si costituì tra il 1985 e il 1987 e solo nel 1991, per la Shark, vide la luce il primo (ed unico) disco degli Osiris, dal suggestivo titolo Futurity and Human Depressions (che, al pari di titoli e testi, si segnala positivamente, per la distanza dai clichés, allora imperanti in ambito estremo): superbe ed intricate architetture sonore, spiraliformi, degne dei Voivod e dei Fates Warning di No Exit o Perfect Simmetry. L’album è stato di recente ristampato dalla Divebomb, che è nota agli appassionati anche per altre riedizioni laser di pregio (tra queste, i tedeschi Skeptic Sense e i britannici Arbitrater). Agli otto splendidi pezzi dell’originale, in un secondo CD, ne sono stati poi aggiunti altri nove, sostanzialmente le versioni demo degli stessi, versioni apparse all’inizio soltanto su cassetta (Inextricable Reversal, 1989, ed Equivocal Quiescence, 1991), e con tre ottime canzoni rimaste all’epoca inedite: False Insinuation, Agony and Hate e la conclusiva Christopher. Per chi se li è persi allora (e sono-siamo tanti), un’occasione imperdibile per rimediare e dare il giusto tributo a un validissimo gruppo, che ebbe il solo ‘torto’ di uscire nell’infausto (per la scena) anno 1991.

Track list
1- Futurity
2- Something To Think About
3- Mass Termination
4- Inextricable
5- Out of Inspiration
6- Inner Recession
7- Fallacy (The Asylum)
8- Frozen Memory

Line up
Maurice – Guitars
Geert – Guitars
Marc – Drums
René – Bass
Bram – Vocals

2015 (prima stampa 1991) – Divebomb Records

Mission Jupiter – Architecture

MetalEyes vi presenta il debutto dei Mission Jupiter, band bielorussa della quale Epictronic ci ha riservato una gustosa anteprima.

Architecture è il primo lavoro sulla lunga distanza del gruppo bielorusso Mission Jupiter, gustosa anteprima che Epictronic, label della famiglia Wormholedeath ha voluto offrire a MetalEyes.

Siamo lontani anni luce dal metal, e rimanendo in tema fantascientifico, tanto caro alla band di Minsk, direi che Architecture è un viaggio nello spazio profondo, nell’immensità dell’universo inteso anche come musica, che ci prende per mano e ci fa compagnia mentre la nostra mente attraversa galassie, nel silenzio profondo rotto dalla bellissima voce di Shevtsova Nastya e dei musicisti che compongono la line up dei Mission Jupiter.
La band risulta attiva dal 2015 e fino ad ora la sua discografia si componeva di due mini album ed un paio di singoli: Will You Be Loved è il video che anticipa l’uscita di questo debutto nel quale tutte le influenze del gruppo vengono inglobate in un sound contraddistinto da un’anima elettronica e bombardato da una pioggia di meteoriti proveniente da più di un genere/pianeta musicale.
Troviamo così liquidi tappeti elettronici, sontuosi passaggi orchestrali, alternative rock e partiture jazz/fusion, sax che irrompono donando un tocco progressivo ad una raccolta di brani che costituiscono le tappe di un viaggio/sogno nell’universo sopra di noi.
Non mancano ovviamente pochi ma importanti riferimenti alla new wave, così come alle colonne sonore di film come 2001 Odissea Nello spazio, valorizzando un sound particolare che si rivela una scoperta ad ogni passaggio, mentre con personalità debordante la vocalist delicatamente fa sue le nostre paure prima del conto alla rovescia e della partenza.
Will You Beloved è come detto il primo singolo, un brano bellissimo ma che rispecchia solo in parte quello che andrete ad ascoltare, dopo che il fiume di note elettroniche dell’opener The Dawn vi avrà aperto la porta del cielo dove i Mission Jupiter vi stanno aspettando.
The Sea Of Hope è un brano che ricorda i The Gathering di Nighttime Birds, mentre tra i tanti spunti diversi che l’album regala, non lasciando mai una semplice chiave di lettura, spunta il capolavoro I Will Survive, traccia progressiva nella quale la band suona jazz rock in un immaginario locale ubicato in qualche luogo prossimo ai limiti dello spazio conosciuto.
L’epico e progressivo strumentale a titolo Impulse chiude un album bellissimo e, a suo modo, originale; Architecture va ascoltato con la mente libera e gli occhi spalancati sul cielo stellato: non perdetevi questa esperienza unica.

Tracklist
1.The Dawn
2.I Have To Know
3.Either Dream Or Not
4.Will You Be Loved
5.The Sea Of Hopes
6.The Sea Of Hopes PT 2
7.Joy Of Life
8.I Will Survive
9.Interlude
10.The Call
11.Impulse

Line-up
Artyom Gulyakevich – Bass
Vladimir Shvakel – Guitar
Shevtsova Nastya – Vocals
Eugenue Zuev – Drums
Dmitri Soldatenko – Saxophone

MISSION JUPITER – Facebook

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