Trauer – A Walk Into The Twilight

A Walk Into The Twilight è colmo di passaggi dal grande potenziale evocativo e di splendide melodie che più di una volta, purtroppo, devono essere intuite piuttosto che ascoltate con la dovuta nitidezza.

Certo che sta cominciando a capitare troppo spesso e, benché di norma non lo ritenga un problema prioritario o insormontabile, qualche domanda bisogna pure cominciare a porsela, considerando che il calendario è puntato sul 2017 e la tecnologia progredisce ogni giorno.

Sto parlando di album di black metal, provenienti da un po’ tutte le parti del mondo, che paiono essere stati registrati con l’ausilio di una macchina del tempo, riportando i musicisti nella prima metà degli anni novanta, quando la foga e l’urgenza espressiva erano prioritarie rispetto alla pulizia e alla resa sonora.
Questo secondo full length dei teschi Trauer, per esempio, sarebbe potenzialmente un bellissimo lavoro a livello di scrittura, perché con le sue sonorità che, partendo da una base black sconfinano sovente nel depressive e nel doom, andrebbe a collocarsi in un punto d’incontro ideale per i miei gusti musicali, peccato però che la produzione e qualche sbavatura tecnica finiscano per inficiarne parzialmente il risultato finale.
Già, perché A Walk Into The Twilight è colmo di passaggi dal grande potenziale evocativo e di splendide melodie che più di una volta, purtroppo, devono essere intuite piuttosto che ascoltate con la dovuta nitidezza.
Detto questo, preferisco mille volte di più ascoltare un lavoro con tali caratteristiche piuttosto che un cristallino sbrodolamento di tecnica esecutiva fine a sé stessa, però innegabilmente, in questa maniera, si rischia di depauperare un patrimonio musicale non trascurabile.
Basti, quale dimostrazione, un brano come When Our Hertbeats Counting Down, inaugurato da arpeggi acustici (in questo caso fortunatamente puliti) che lasciano spazio ad un accenno quasi funeral, per poi lanciarsi in una cavalcata dolente chiusa da una bellissima melodia chitarristica: uno come il sottoscritto, che considera Andacht dei Lunar Aurora (non certo un prodotto da esibire quale esempio di limpidezza sonora) quale miglior album black metal mai uscito dal suolo tedesco, riesce abbastanza facilmente ad andare oltre l’aspetto formale, prediligendo l’impatto emotivo di una proposta come questa, dalla buona profondità anche a livello lirico, mentre lo stesso non accadrà a chi è abituato a fare le pulci ad ogni singola nota, il quale verrà inevitabilmente spinto a mettere in secondo piano gli effettivi contenuti musicali.
Non ci vogliono produttori di grido per valorizzare un genere che fa anche della genuinità uno dei propri dirompenti punti di forza, ma una band dal notevole potenziale, come lo sono i Trauer, avrebbe dovuto trovare almeno una via di mezzo che avesse consentito di godere di A Walk Into The Twilight senza dover recriminare su ciò che poteva essere e, purtroppo, non è stato.

Tracklist:
1. The Invocation of the Parasites
2. A Servant to the Desert
3. Walking in the Twilight
4. Procession in the Fog
5. Her String Dance
6. Under Grey Vaults
7. When Our Heartbeats Counting Down
8. Ending at the Ground

Line-up:
Neideck – All instruments, Vocals
Dominion – Drums
H.S. – Guitars

Famishgod – Roots Of Darkness

Quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Gli spagnoli Famishgod tornano con un secondo full length, dopo il buon esordio del 2014 intitolato Devourers Of Light: Roots Of Darkness ricalca le orme del suo predecessore anche se qui non mancano accelerazioni e passaggi relativamente più aperti che vanno ad incrinare il muro claustrofobico eretto dall’ottimo Pako Daimler, responsabile di tutti i suoni dell’album ad eccezione della voce, come sempre costituita dal terrificante rantolo affidato al ben noto Dave Rotten (Avulsed, nonché titolare della Xtreem Music).

Le coordinate restano, quindi, quelle del death doom più putrescente ed estremo nel suo incedere, con poche concessioni a passaggi chitarristici che non siano volti ad incupire ancor più le atmosfere con i propri toni ultraribassati ma, come detto, qualche concessione a livello ritmico e melodico rende Roots Of Darkness se non superiore, senz’altro meno ostico all’ascolto rispetto a Devourers Of Light, restando comunque un prodotto appannaggio degli amanti di sonorità catacombali sulla falsariga di band quali Disembowlment o Encoffination.
E’ inutile in questi casi mettersi alla puntigliosa ricerca di elementi innovativi o spunti geniali, quel che conta, qui, è la credibilità dell’approccio al genere, che deve innanzitutto rifuggire ogni manierismo per risultare coinvolgente: i Famishgod ci riescono proprio perché, a dispetto di una certa linearità, le atmosfere soffocanti e plumbee non danno quasi mai tregua, lasciando di tanto in tanto fugaci spiragli. come avviene nel finale dell’ottima traccia di chiusura Mournful Sounds of Death, quando la chitarra di Daimler assume per una volta toni più melodici e dolenti.
Nonostante una produzione discografica ancora limitata, quello dei Famishgod, alla luce di questa prova, si conferma un marchio in grado di garantire una buona qualità nonché l’assoluta fedeltà ai dettami delle sonorità estreme più oscure.

Tracklist:
1. Abyss of the Underworld
2. Bad Omen
3. Molested, Defiled, Disrupted
4. Chamber of Chaos
5. Eternal Embrace
6. Lost Language of the Dead
7. Mournful Sounds of Death

Line-up:
Dave Rotten – Vocals
Pako Deimler – All instruments

FAMISHGOD – Facebook

Arduini/Balich – Dawn Of Ages

Dawn Of Ages, primo lavoro della coppia, è un album sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi.

Alcuni anni fa (intorno al 2013) lo storico chitarrista Victor Arduini, uno dei fondatori dei prog metallers Fates Warning, chiuse la sua collaborazione con i Freedoms Reign.

L’incontro con il vocalist degli Argus Brian Balich è l’inizio di una collaborazione che porta all’uscita di questo lavoro, licenziato dalla Cruz Del Sur Music ed intitolato Dawn Of Ages.
Al duo si unisce il batterista Chris Judge, ed i tre musicisti si avventurano tra le trame di un doom dai tratti progressivi, ma solido ed aggressivo il giusto per essere considerato un album di musica del destino a tutti gli effetti:
doom classico di derivazione settantiana, unito a quello dei gruppi americani della generazione che ha visto le opere di Saint Vitus e Trouble, ma che non manca di lasciare al chitarrista sfoghi progressivi sulla sei corde che macina riff sabbathiani come una macchina da guerra.
Balich canta con voce rude e passionale mentre i mid tempo, cosi come l’incedere lento accompagna l’immenso lavoro di Arduini alla sei corde.
Chris Judge, arruolato da Arduini con cui ha diviso l’ esperienza con i Freedoms Reign, accompagna il duo con ordine e senza sbavature, mentre l’atmosfera epica dei brani cresce così come la qualità, passaggio dopo passaggio.
Un disco concepito come le opere settantiane, con brani che per la loro lunghezza si trasformano in suite e che hanno nel capolavoro Beyond The Barricade il perfetto sunto del sound creato dal trio, con i suoi diciassette minuti di doom/progressivo intenso e valorizzato da un songwriting di un’altra categoria.
Quasi ottanta minuti di musica con la M maiuscola, sei brani a cui si aggiungono le cover di Sunrise (Uriah Heep), Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels) e After All (The Dead) dei Black Sabbath.
Un album bellissimo che sarebbe un peccato trascurare, soprattutto se siete amanti del doom classico e dei suoni progressivi, dunque da avere e consumare.

Autore
Alberto Centenari

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doommetal

TAG – 2
doommetal

TAG – 3
progressive

Iyezine ?
No

ETICHETTA

TRACKLIST

1. The Fallen
2. Forever Fade
3. Into Exile
4. The Wraith
5. Beyond The Barricade
6. The Gates Of Acheron
7. Sunrise (Uriah Heep – Cover)
8. Wolf Of Velvet Fortune (Beau Brummels – Cover)
9. After All (The Dead) (Black Sabbath – Cover)

LINE-UP

Victor Arduini – guitars / bass
Brian Balich – vocals
Chris Judge – drums

VOTO
8.30

URL Facebook
http://www.facebook.com/arduinibalich

DESCRIZIONE SEO / RIASSUNTO

Void Cruiser – Wayfarer

Lenta possenza, giri acidi, grunge e space desert stoner fanno di questo disco un qualcosa di davvero interessante, dove chi ama la musica pesante troverà la sua raison d’etre.

A chi piace la musica pesante viene difficile spiegarne il perché.

Certamente la musica spiega la propria essenza molto meglio di qualsivoglia discorso, perché solo certe vibrazioni che vogliamo cogliere ci entrano dentro. Di vibrazioni e riverberi questo disco ne è pieno, come di riff e lentissimi ma possenti giri di basso e batteria. In Wayfarer giace l’essenza della musica pesante, che è una materia vastissima, perché al suo interno possono convivere molti elementi e definizioni. In questo caso siamo davanti ad un grandissimo disco di stoner desert estremo con puntate nello space più visionario e psichedelico, degli Hawkwind più lisergici ed interessanti. Il gruppo finlandese fa decollate nello spazio profondo un desert rock molto dilatato, distorto e magnifico. Si parte dal deserto per arrivare a quello che è illustrato sulla bella copertina, ovvero una desolata catena montuosa, che potrebbe sia essere sul nostro pianeta che su qualsiasi altro nell’universo. Ascoltando i Void Cruiser essi tengono fede al loro nome, facendoci viaggiare davvero tanto e lungamente. La voce sussurra quasi nelle nostre orecchie ed ha una forte impronta grunge, perché l’incedere tipico di quel genere è molto radicato in queste composizioni, perché gli Alice In Chains in particolare fanno capolino in desertiche cime lunari, in tute dove viene rilasciato il soma per far sopravvivere i nuovi coloni. I Void Cruiser sono insieme dal 2011, legati prima di tutto da forti vincoli di amicizia cementati dall’amore comune per certe musiche. Nel 2015 hanno esordito positivamente con Overstaying My Welcome, ma Wayfarer è il disco più riuscito fa i due.
Lenta possenza, giri acidi, grunge e space desert stoner fanno di questo disco un qualcosa di davvero interessante, dove chi ama la musica pesante troverà la sua raison d’etre.

TRACKLIST
1. A day on which no man was born
2. I didn’t lie but I know now that I should have
3. As we speak
4. Madonnas and whores
5. Seven years late
6. All over nowhere
7.Maailman kallein kaupunki

LINE-UP
T-Hug – Low Frequency Engine.
V-Salo – Soundscape System.
T-Bag – Battering Apparatus.
S-Salo – Fuzz Machinery & Communications.

VOID CRUISER – Facebook

Mechina – As Embers Turn To Dust

La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare

Puntuale con l’inizio del nuovo anno, Joe Tiberi ci porta con sé sull’astronave Mechina, e ci consegna un altro capolavoro di metallo industriale, fantascientifico ed orchestrale.

Ormai non è più una sorpresa, siamo arrivati al settimo album con As Embers Turn To Dust che segue una trilogia di opere straordinarie (Xenon, Acheron e Progenitor) convogliando ancora una volta tutto il meglio del metallo estremo moderno in un unico sound, che dalle orchestrazioni prende la propria forza e dal death la cattiveria ed il senso di terrore profondo che l’ignoto causa nell’essere umano.
Splendidamente attraversato dall’orientaleggiante ed evocativa voce di Mel Rose, molto più protagonista che sul precedente Progenitor, la nuova opera fantascientifica dei Mechina si sviluppa immaginando la morte del pianeta in una terribile sequenza di catastrofi ed attacchi alieni, mentre il genere umano si estingue e tutto brucia in un paesaggio di morte e desolazione.
L’opener Godspeed Vanguards segue il sound di Progenitor, la voce pulita riempie di impulsi new wave la musica di Tiberi, ma l’entrata in scena della Rose a duettare con il growl di Holch torna a far scorrere brividi di gelido terrore con Creation Level Event e, soprattutto, con la magnifica Impact Proxy.
Le orchestrazioni tornano a dominare la scena come sul mastodontico Acheron, una fantastica e magniloquente colonna sonora di un disfacimento, una biblica punizione a cui il pianeta non può sottrarsi.
Da una supernova arrivano le note pianistiche di Aetherion Rain, che col tempo si trasforma nella sublime The Synesthesia Signal, alimentata dalla stupenda interpretazione della Rose e dai tasti d’avorio che, in sottofondo, continuano a mandare nello spazio note, ultimi esempi di un mondo annientato dalle nefaste conseguenze espresse dalla violentissima Unearthing The Daedal.
Joe Tiberi conferma di essere al sound del precedente album con la devastante The Tellurian Pathos, mentre le tastiere si riprendono la scena nella galassia martoriata con le armonie di Thus Always To Tyrants.
La title track posta in chiusura è un outro atmosferica atta a descrive il nulla che segue alla distruzione totale, mentre il dito si avvicina al tasto play per ripetere questa straordinaria sequela di emozioni che ancora una volta i Mechina ci hanno saputo donare, in un genere che di per se è freddo come lo spazio profondo.
Pensavo fossero umani, invece niente, anche il 2017 lo chiudiamo in anticipo, almeno per quanto riguarda il sound proposto dal gruppo americano … ennesimo capolavoro.

TRACKLIST
01. Godspeed, Vanguards
02. Creation Level Event
03. Impact Proxy
04. Aetherion Rain
05. The Synesthesia Signal
06. Unearthing the Daedalian Ancient
07. The Tellurian Pathos
08. Thus Always to Tyrants
09. Division Through Distance
10. As Embers Turn to Dust

LINE-UP
Mel Rose – Vocals
David Holch – Vocals
Joe Tiberi – Guitars, Programming

MECHINA – Facebook

Naked Star – Ancient Rites

Il maggior difetto di Ancient Rites è la mancanza di un brano trainante, sommato ad una formula che si ripete all’infinito, lasciando l’amaro in bocca per le potenzialità non del tutto sfruttate dai due musicisti.

Tornano a tormentare le notti degli amanti del doom classico i Naked Star, duo tedesco composto dal polistrumentista Tim Schmidt dei Seamount e Jim Grant, vocalist dei Vampyromorpha.

Dopo il primo ep di tre brani uscito all’inizio dell’anno (Bloodmoon Prophecy), è già ora di tornare, questa volta con il debutto sulla lunga distanza: Ancient Rites un buon prodotto di doom classico ed oscuro, devoto alla parte occulta e sabbatica del genere, quindi fuori da ogni velleità stoner.
Come già proposto nell’ep i Naked Star ci vanno pesante con le atmosfere dark, il loro sound che rimane potentissimo e saturo di elettricità ha nel lato oscuro e messianico della musica del destino il fedele alleato.
Un incedere cadenzato e potentissimo, musica della notte e dedicata alle sue creature, una lunga messa nera divisa in otto capitoli che senza soluzione di continuità seguono la strada verso l’inferno tracciata da Black Sabbath prima e in seguito intrapresa da Saint Vitus, Count Raven, con l’aggiunta di sfumature horror ed atmosfere dark metal.
Sinceramente dopo il primo ep mi aspettavo qualcosa di più, la band sulla lunga distanza risulta leggermente monocorde e i brani tendono ad assomigliarsi un po’ troppo, facendo perdere l’attenzione in chi ascolta dopo i primi brani.
Infatti, il maggior difetto di Ancient Rites è la mancanza di un brano trainante, sommato ad una formula che si ripete all’infinito, lasciando l’amaro in bocca per le potenzialità non del tutto sfruttate dai due musicisti.
Stoned Demon e il monolite I Am The Antichrist i brani migliori, per il resto si viaggia con il pilota automatico e le emozioni scarseggiano, un vero peccato.

TRACKLIST
1. Purgamantic
2. Stoned Demon
3. Spawn Of The Witch
4. Be My Sacrifice
5. Bound To Hell
6.. Alter Ego
7. I Am The Antichrist
8. Necrolust

LINE-UP
Tim Schmidt – Guitar, Drums, Bass
Jim Grant – Vocals

Live Members:
Markus Ströhlein (Drums)
Christian Bogisch (Bass)

NAKED STAR – Facebook

Scáth na Déithe – Pledge Nothing But Flesh

Quattro brani di oltre dieci minuti, più due brevi tracce ambient, sono il fatturato di un album di sicuro interesse ma da lavorare con una certa assiduità per coglierne l’essenza.

Full length d’esordio per il duo irlandese Scáth na Déithe, all’insegna di un black metal oscuro atmosferici e dai frequenti sconfinamenti sul terreno doom.

Dici Irlanda in campo metal e pensi ai Primordial: come è naturale, ogni tanto i riferimenti all’imprescindibile band di Alan Averill emergono, in particolare in una certa algida solennità che avvolge l’intero album, mentre manca del tutto agli Scáth na Déithe lo stesso afflato epico a fronte di passaggi talvolta più meditati ai limiti dell’ambient.
Proprio per questo il lavoro non è di fruibilità immediata: il sound possiede un impronta cupa che il growl finisce per accentuare ulteriormente: ad alleggerire le atmosfere in senso melodico contribuiscono buoni passaggi di chitarra solista ma, alla fine, Pledge Nothing But Flesh si rivela un’efficace esempio di arte musicale oscura, dove black, doom e ambient confluiscono in maniera sufficientemente fluida per renderne oltremodo stimolante l’ascolto.
Quattro brani di oltre dieci minuti, più due brevi tracce ambient, sono il fatturato di un album di sicuro interesse ma da lavorare con una certa assiduità per coglierne l’essenza: il premio è l’approdo a Search Unending, bellissimo episodio conclusivo che racchiude idealmente il sound del duo di Dublino, aprendosi leggermente a barlumi melodici (oltre ad un finale acustico) che sono per lo più negati in un contesto sovente claustrofobico e, anche per questo, a suo modo affascinante.

Tracklist:
1.Si Gaoithe
2.Bloodless
3.This Unrecognized Disease
4.Failte Na Marbh
5.The Shackled Mind
6.Search Unending

Line up:
Stephen Todd – drums
Cathal Hughes – vocals, guitars, bass, synth

SCATH NA DEITHE – Facebook

Teleport – Ascendance ep

I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno

Loro lo chiamano sci-fi death metal o cosmic metal, io vi consiglio di ascoltare questo mini cd, ultimo lavoro dei Teleport, perché porta con se un pizzico di originalità ed un songwriting nobilitato dalla geniale pazzia dei Voivod.

Ma andiamo con ordine: i Teleport sono una band slovena, nata nel 2010 e in questi sette anni di attività ha pubblicato tre demo e questo primo ep dal titolo Ascendance.
Il quartetto proveniente dalla capitale Lubiana, la bellissima città dei draghi, ha creato un sound che amalgama thrash metal voivodiano e death/black in un contesto progressivo e dal concept sci-fi.
Una bellezza questi quattro brani più intro, estremi e devastanti, progressivi nelle ritmiche e spazzati da un vento death/black che soffia dalla Scandinavia e arriva gelido nel loro paese natio.
Dimenticatevi una sola ritmica che sia scontata, e anche nelle veloci e devastanti sfuriate il lavoro ritmico è da applausi, lo scream ricorda Jon Nodveidt compianto leader e cantante dei Dissection, mentre lo spirito di Dimension Hatross e Nothing Face aleggia su brani bellissimi e ricchi di dettagli e note, destabilizzanti ed originali come in The Monolith e Artificial Divination, primi due brani capolavoro di questo ep.
Darian Kocmur alle pelli, ultimo arrivato in casa Teleport, e Lovro Babič al basso formano la sezione ritmica, mentre le due chitarre che fanno fuoco e fiamme sull’ottovolante Real Of Solar Darkness sono armi letali tra le mani di Jan Medved (alle prese con il microfono) e Matija “Dole” Dolinar.
I Teleport hanno tutti i crismi per diventare una band di culto nel panorama estremo europeo, e un prossimo full length potrebbe lanciare definitivamente il quartetto sloveno: staremo a vedere, per ora gustiamoci questa ventina di minuti di musica estrema spettacolare.

TRACKLIST
1. Nihility
2. The Monolith
3. Artificial divination
4. Realm of solar darkness
5. Path to omniscience

LINE-UP
Jan Medved – vocals, guitars
Lovro Babič – bass
Matija “Dole” Dolinar – guitars
Darian Kocmur – drums

TELEPORT – Facebook

Acts Of Tragedy – Left With Nothing

Questi ragazzi riescono a creare un magma sonoro figlio dell’incontro tra metal e qualcosa dalle parti dei Dillinger Escape Plan, il tutto lanciato a mille all’ora, con una produzione notevole.

Al primissimo ascolto dei cagliaritani Acts Of Tragedy mi sembrava di trovarmi davanti all’ennesimo disco di metalcore melodico, con parti più dure e altre parti molto, anzi fin troppo melodiche.

E invece sbagliavo, e di molto, vittima di pregiudizi che non dovrebbero esserci. Gli Acts Of Tragedy fanno metalcore, o meglio metal moderno, ma hanno una potenza, un tiro ed una tecnica che li portano molto al di sopra della media del genere. Questi ragazzi riescono a creare un magma sonoro figlio dell’incontro tra metal e qualcosa dalle parti dei Dillinger Escape Plan, il tutto lanciato a mille all’ora, con una produzione notevole. Gli Acts Of Tragedy sono potenti e molto coinvolgenti, e hanno prodotto un disco che spacca, come direbbero i giovani. Left With Nothing, il suo titolo, potrebbe essere l’epitaffio sulla tomba dei giovani di oggi che si mangiano la merda che hanno lasciato quelli di prima: è un disco di metal moderno a trecentosessanta gradi, e dentro c’è tutto il meglio degli ultimi venti anni di metal melodico, dove melodia non sta per commercializzazione scontata, ma per ricerca di qualcosa di piacevole in mezzo alla durezza. l’album funziona benissimo anche grazie al notevole apporto della produzione, che fa rendere al meglio questo suono che piacerà su ogni lato dell’oceano, perché le sue radici sono comunque americane. Un disco molto bello, dall’inizio fino alla fine, e non è poco.

TRACKLIST
1.Under the Stone
2.Melting Wax
3.The Worst Has yet to Come
4.The Man of the Crowd, Pt. 1
5.Smoke Sculptures and Fog…
6.The Man of the Crowd, Pt. 2
7.Incomplete
8.Nothing
9.Vice
10.Oaks

LINE-UP
Alessandro Castellano – Drums
Andrea Orrù – Vocals
Lorenzo Meli – Bass
Paolo Mulas – Guitar
Gabriele Murgia – Guitar & Backing Vocals

ACTS OF TRAGEDY – Facebook

Danko Jones – Wild Cat

Si arriva facilmente alla fine senza riscontrare il minimo calo di tensione in quanto Wild Cat è un album trascinante e pieno di hit: i Danko Jones sono tornati in forma e tutto gira a meraviglia, lunga vita al rock’n’roll.

Il rock’n’roll è come un gatto e lo sa bene chi ha avuto a che fare con i notturni felini: pigri e sornioni, quando sembrano abbandonati ad un sonno perenne ecco che una scintilla scatena la loro natura selvaggia, ed è il caos …

Wild Cat, ultimo lavoro dei canadesi Danko Jones in uscita per AFM Records in tutto il mondo, tranne nella terra natia del gruppo (in Canada il disco uscirà per eOne), accompagnato da una copertina vintage raffigurante un amico felino tutto grinta e cattiveria, ci consegna un gruppo che, come un gatto, si scrolla di dosso un pizzico di pigrizia creativa uscita nelle ultime prove e sforna la miglior prova da un po’ di tempo a questa parte.
It’s only rock ‘n’ roll ovviamente, ma con Wild Cat i Danko Jones ritrovano uno stato di grazia nel songwriting che permette all’ascoltatore di godere di tutte le caratteristiche della loro musica, ovvero grinta, impatto e urgenza rock’n’roll unita ad un flavour settantiano, che fa da sempre la differenza.
Poco meno di quaranta minuti, durata perfetta per una mitragliata di musica rock sanguigna e ricca di killer songs una più indiavolata dell’altra, fin dall’opener I Gotta Rock, passando per l’irresistibile ritmica di My Little RnR, unica concessione da parte del gruppo alla scena scandinava ed in particolare ai Backyard Babies degli esordi.
Poi è un’apoteosi di hard rock stradaiolo, con i Thin Lizzy padri spirituali della musica prodotta dal chitarrista e cantante canadese ed i suoi degni compari (John Calabrese al basso e Rich Knox alle pelli).
Going Out Tonight gode di un refrain che entra in testa al primo ascolto, l’album risulta come sempre concepito per essere suonato dal vivo, l’elemento migliore per il rock’n’roll e You Are My Woman vi farà saltare sotto il palco ai prossimi concerti del gruppo con Jones sempre più erede di Phil Lynott.
Arrivati alla quarta canzone possiamo sicuramente affermare di esserci divertiti, mentre si avvicina la metà dell’album e si continua a balzare come gatti selvaggi, sulle note di Let’s Start Dancing e la title track irresistibile inno da felini persi nelle strade umide di una metropoli notturna.
Si arriva facilmente alla fine senza riscontrare il minimo calo di tensione in quanto Wild Cat è un album trascinante e pieno di hit: i Danko Jones sono tornati in forma e tutto gira a meraviglia, lunga vita al rock’n’roll.

TRACKLIST
1. I Gotta Rock
2. My Little RnR
3. Going Out Tonight
4. You Are My Woman
5. Do This Every Night
6. Let’s Start Dancing
7. Wild Cat
8. She Likes It
9. Success In Bed
10. Diamond Lady
11. Revolution (But Then We Make Love)

LINE-UP
Danko Jones – Vocals, Guitars
John Calabrese – Bass
Rich Knox – Drums

DANKO JONES – Facebook

Nighon – The Somme

Il ritorno dei finlandesi Nighon sarà una piacevole riscoperta per tutti gli appassionati del genere e non. Una combo di voci tra melodia e potenza, testi impegnati e non banalità. Bentornati ragazzi.

I Nighon, band finlandese formatasi nel 2008, è arrivata al suo secondo album in studio che, come ben sostiene il detto popolare, è il più difficile da realizzare nella carriera di un artista.

C’è anche da dire che il fatto di aver condiviso il palco con band del calibro di myGRAIN, Magenta Harvest, Finntroll e Kill The Kong, solo per citarne alcune, ha influenzato e arricchito il loro percorso in maniera significativa.
Il risultato è quindi un nuovo album che viene catalogato come gothic, ma che ha la peculiarità di risultare molto attuale e ben accostabile anche ad altri generi di radice comune, anche grazie a sonorità aperte alle tecnologie moderne.
A tutto questo aggiungiamo il fatto che all’interno di The Somme troviamo musica che affronta riflessioni in merito a tematiche complesse che ultimamente interessano un po’ tutti: la guerra, la società post-moderna nei suoi conflitti più evidenti, quindi nulla di banale.
Per lanciare al meglio questa nuova fatica, il primo singolo estratto è esattamente il secondo contenuto nell’album e uno dei più melodici, The Greatest of Catastrophes, accompagnato proprio in questi giorni da un video accattivante, una scelta che potrebbe essere considerata comoda per certi versi.
Nonostante ciò, The Greatest of Catastrophes è solo una delle quattordici tracce, le quali hanno la caratteristica principale di essere equilibrate e mai troppo complesse o eccessive nel loro intento, soprattutto se consideriamo i testi già densi di significato.
Fondamentalmente, anche nei pezzi più energici, come You Do Not Know What The Night May Bring per citarne uno, questi ragazzi sanno interessare l’ascoltatore persino quello meno appassionato; stesso discorso vale per le songs più melodiche (The Dirge, Lest We Forget) e per gli intermezzi introduttivi che incontriamo qua e là.
Insomma, nel suo complesso The Somme è un lavoro che non propone nulla di realmente innovativo, ma è fatto bene e curato nella sua interezza, a dimostrazione di quanto i Nighon ci credano seriamente e sappiano lavorare insieme senza essere influenzati dalle molteplici band provenienti dal loro stesso paese.
Non essendo troppo vincolante nel suo genere, ve lo consiglio vivamente.

TRACKLIST
01 – Marseille 1914
02 – The Greatest of Catastrophes
03 – The Dirge
04 – Lest We Forget
05 – Medic
06 – Blow Them to Hell
07 – Altafjord
08 – Scharnhorst
09 – Reclaming Ravenpoint
10 – You Do Not Know What the Night May Bring
11 – Minor Secundus
12 – Tragédie
13 – I Fear for Tomorrow
14 – Somme

LINE-UP
Nico Häggblom – Voce
Alva Sandström – Voce
Björn Johansson – Chitarra
Mika Paananen – Batteria
Michael Mikander – Chitarra
Mats Ödahl – Basso

NIGHON – Facebook

Krepitus – Eyes of the Soulless

Eyes of the Soulless è classico il disco che ti dà la giusta carica al risveglio e spazza via le tensioni e le frustrazioni al termine di una giornata di lavoro: una terapia di rara efficacia e priva di effetti collaterali.

Subito un full length di assoluto valore per i canadesi Krepitus, i quali danno seguito al demo fatto uscire nel 2014.

La band proveniente dall’olimpica Calgary riesce nel non facile intento di dare alla luce un lavoro a tratti entusiasmante, pur andando ad attingere dall’inesauribile pozzo rappresentato dal metal estremo di matrice novantiana: un’ideale sintesi del sound contenuto in Eyes of the Soulless potrebbe citare i Carcass, con un minore carico morboso ed una maggiore propensione al thrash e al death melodico, oppure i migliori Iced Earth lanciati verso sonorità più estreme: da questo notevole ed ipotetico incontro di stili scaturisce un album capace di smuovere anche le membra più inerti, in virtù di reiterate cavalcate che partono da The Decree of Theodoseus ed arrivano fino all’ultima nota di My Desdemona senza perdersi in fronzoli, ricami o attimi meditabondi. La voce di Teran Wyer è un ringhio di rara efficacia che neppure per un attimo lascia spazio a tonalità pulire mentre il resto della band rovescia la sua incalzante gragnuola di colpi ricca di groove ed impreziosita con regolarità da magnifici assoli di matrice heavy.
Difficile estrapolare i brani migliori da questa tempesta perfetta: obbligato a scegliere mi prendo Exile e Eyes of the Soulless, dove i Krepitus riversano ancor più un gusto melodico a tratti sorprendente per qualità.
Non fatico ad immaginare quale possa essere la resa sonora dal vivo del quartetto canadese con un sound ed un approccio di questo tipo, peccato solo che le probabilità di vederli dalle nostre parti non siano molte (ma non si sa mai).
Eyes of the Soulless è classico il disco che ti dà la giusta carica al risveglio e spazza via le tensioni e le frustrazioni al termine di una giornata di lavoro: una terapia di rara efficacia e priva di effetti collaterali, se non gli inevitabili rischi per le vertebre cervicali, causa headbanging ininterrotto.

Tracklist:
1.The Decree of Theodoseus
2.Apex Predator
3.Exile
4.Sharpen the Blade
5.Eyes of the Soulless
6.Desolate Isolation
7.Erroneous
8.My Desdemona

Line up:
Curtis Beardy – Bass
Teran Wyer – Guitars/Vocals
Harley “Rage” D’orazio – Drums
Matt Van Wezel – Guitars

KREPITUS – Facebook

Liturgy of Decay – First Psalms (Psalms of Agony and Revolt – First and Early Shape)

Un album oscuro e sinfonico come nella migliore tradizione dark rock metal, dedicato alle anime elegantemente oscure.

Un album che non è solo un’esperienza musicale, ma che con le dovute operazioni multimediali si rivela un’opera completa anche sotto l’aspetto visivo e grafico, fatta di musica oscura, gotica e dark che dalla tradizione ottantiana prende ispirazione e si completa con orchestrazioni e sinfonie sinistre e magniloquenti.

I Liturgy Of Decay sono una one man band francese con a capo il polistrumentista Iokanaan, arrivano solo ora al traguardo del full length, dopo che in più di vent’anni di attività hanno dato alle stampe un ep nel 1999 ed un demo all’inizio del nuovo millennio, giungendo a questo clamoroso parto solo ora.
First Psalms (Psalms of Agony and Revolt – First and Early Shape) è un bellissimo esempio di musica dark/gothic orchestrale, con tutte le caratteristiche per piacere sia ai vecchi fans del dark ottantiano che ai più giovani sostenitori del symphonic gothic metal.
Le caratteristiche peculiari del sound del musicista francese sono una basilare ispirazione alla dark wave storica, ed una sempre presente matrice sinfonica, unico neo del sound, visto che il continuo tappeto armonico dei synth rende leggermente piatto il sound di First Psalms.
Il resto viaggia nel più puro dark/gothic sound, tra Sisters Of Mercy, Lacrimosa e qualche spunto metallico industriale alla Samael, mentre l’oscurità domina lo spartito vampirico delle composizioni.
Un velo di atmosfere gregoriane ammanta i brani di questa opera nera, sfumature liturgiche che si ricreano ad ogni passaggio, mentre la voce, in puro e teatrale dark style, accompagna questa raccolta di gemme di nera nobiltà musicale che trovano nelle superbe Suffering The Idyll, Dispossessed e l’ipnotica Tristiana i momenti più alti.
Un album oscuro e sinfonico come nella migliore tradizione dark rock metal, dedicato alle anime elegantemente oscure.

TRACKLIST
1.Mental Damage
2.Symphony Of Curses
3.Suffering The Idyll
4.Suffering The Ideal
5.Dispossessed (SIC NOC LVCEAT)
6.The Temptation Of Being
7.The Last March
8.Tales Of Betrayals
9.Tristiana
10.Dolores (My Lonely Failure)

LINE-UP
Iokanaan – lead vocals, all instruments (lead and rythm guitar, bass, keyboards and programmings), sound engineering, visuals and graphics.

LITURGY OF DECAY – Facebook

Acrosome – Narrator And Remains

Il suono è un vortice che non scema mai, e nel mezzo di questo black metal carnale e fisico ci sono ottimi intarsi sinfonici e tutto il disco è inteso come un’opera, con atmosfere ed azioni che si dipanano man mano che scorre la sua interezza.

Acrosome è il nom de plume di Da, che è creatore totale e padrone di questa bestia musicale.

Sono sempre affascinanti le avventure musicali solitarie, e sono molto comuni soprattutto nel black metal, che è moltissime cose, e forse è il genere più solipsistico della storia. Attraverso il black metal si può esprimere la più infinita gamma di sentimenti e accadimenti senza aver bisogno di ausili o aiuti esterni, e questo disco ne è la più lampante dimostrazione. Acrosome è black metal totale, potente ed oscuro, Acrosome è un suono che satura l’ambiente, sigillando ogni via di fuga perché è di noi e di se stesso che sta parlando. I testi sono interessanti ed intelligibili perché il cantato è pulito e assai distinguibile. Il suono è un vortice che non scema mai, e nel mezzo di questo black metal carnale e fisico ci sono ottimi intarsi sinfonici e tutto il disco è inteso come un’opera, con atmosfere ed azioni che si dipanano man mano che scorre la sua interezza. Narrator And Remains è infatti una grande opera di black metal, magniloquente e perfettamente plausibile, e il lavoro stesso ne è la spiegazione migliore. Acrosome si conferma come uno dei progetti più interessanti ed originali del black metal europeo e non solo, e questo album doverebbe essere la definitiva conferma per questo musicista molto dotato.

TRACKLIST
1. First Step On To The World
2. Crossbreed Rising
3. Cognitive Contact
4. Sight
5. In The Wake Of Foot Traces
6. Accommodate
7. Terra Amata

LINE-UP
DA – All Instrument and Programming

ACROSOME – Facebook

Envinya – The Harvester

Un buon lavoro da parte di un gruppo molto interessante.

Melodic metal con voce femminile, non troppo gotico e sinfonico, ma molto pesante nelle ritmiche, più o meno è questo il sound di cui sono protagonisti i bavaresi Envinya, un passato su Massacre che licenziò tre anni fa il debutto Inner Silence.

Sono tornati dunque con il secondo full length i musicisti tedeschi, questa volta a cura della STF, continuando il cammino intrapreso con il precedente lavoro.
Di tanto metal è composto questo lavoro, come si diceva dalle ritmiche pesanti, con chitarre graffianti, tastiere poco invadenti ed una cantante (Mery Diaz Serrano) dalla voce veramente sorprendente, non operistica come di moda di questi tempi, ma personale e soprattutto dall’appeal altissimo.
The Harvester si sviluppa su undici brani passionalmente metallici, e la voce della cantante è accompagnata molte volte da un controcanto ruvido, mentre tra i brani si danno il cambio serrate tracce metalliche ed altre più ariose dal piglio melodico.
Se la Massacre ci aveva messo gli occhi addosso un motivo ci sarà pure stato, ed il gruppo fa valere un songwriting sopra la media, a forza di brani veloci, alternanti potenza e melodia tra Within Temptation, Edenbridge, primi In Flames e tanto power heavy metal, con la Diaz Serrano sicuramente da considerare come una vocalist di stampo heavy metal più che una sirena symphonic gothic.
Colpiscono le ritmiche sempre al limite nei brani più tirati in cui il gruppo non disdegna cambi di tempo dal retrogusto prog metal, mentre i brani da annoverare tra i migliori sono il mid tempo Nightdweller, la title track, la power metal oriented Outsider e l’epica The Tower & The Fog.
Un buon lavoro da parte di un gruppo molto interessante.

TRACKLIST
1.Prelude
2.Bewitched
3.Nightdweller
4.The Harvester
5.Stormchase
6.Valiant
7.Outsider
8.Widespread Pandemy
9.Amphibian Life
10.The Tower & the Frog
11.Heads of Tails

LINE-UP
Monika Strobl – Keyboard
Mery Diaz Serrano – Vocals
Mike Gerstner – Lead Guitar
Thomas Knauer – Rhythm Guitar
Lorenz Henger – Bass
Enrico Jung – Drums

ENVINYA – Facebook

Antier – De La Quimera, El Dolor

L’impressione è che negli Antier la componente strumentale sia messa in subordine allo spoken word, impedendo che sia la musica a costituire il vero fulcro dell’album.

E’ difficile parlare con la necessaria equidistanza di un album che, alla fine, si basa su spoken word declamati in una lingua che non si padroneggia a sufficienza.

L’idea di inserire parti parlate su una base musicale fatta di liquido post rock non è nuova: solo qualche settimana fa abbiamo recensito su MetalEyes l’ottimo album dei The Chasing Monster e questo offre la possibilità di partire proprio da lì per commentare questo lavoro dei catalani Antier.
Se sono simili le coordinate di base, con un sound dall’incedere tra il sognante ed il malinconico a fungere da colonna sonora a testi recitati, sono altrettanto differenti i contenuti e gli esiti: dove la band italiana colpiva nel segno in virtù di una scrittura musicale sempre volta alla ricerca di armonie di cristallina bellezza, gli iberici tendono più a creare un substrato atmosferico privo di decise linee guida melodiche; e se, nel primo caso, due ospiti dalla buona impostazione interpretavano in inglese le parti dei protagonisti di un racconto che per lo più inframmezzava i brani, in De La Quimera, El Dolor la voce enfatica ma di limitata espressività del drummer Santiago Arderiu si erge spesso a protagonista del lavoro, rivelandosi alla lunga piuttosto stucchevole. In sintesi, sembra proprio che negli Antier la componente strumentale si riveli soprattutto un accompagnamento allo spoken word, impedendo che sia la musica a costituire il vero fulcro.
Questo limita non poco la fruizione dell’album, proprio perché vengono meno due elementi chiave quale l’immediata comprensione dei testi, preclusa ai non ispanici, ed una componente musicale in grado di reggersi da sola, se non nei brani che restano maggiormente immuni dall’invadenza verbale, a dimostrazione delle non disprezzabili doti compositive del duo di Barcellona.
Non dubito che chi abbia dimestichezza con la lingua possa gradire maggiormente un lavoro valido dal punto di vista musicale ma che, per tutte le caratteristiche sopra descritte, difficilmente farà un altro giro nel lettore dopo il primo ascolto.

Tracklist:
1.Nada Está Escrito
2.Al Arder Bajo El Cielo
3.Más Allá De La Miseria
4.De La Quimera, El Dolor
5.Sin Dejar De Respirar
6.En Un Último Suspiro
7.Del Hambre, La Desidia
8.Al Final Todo Fue

Line-up:
Santiago Arderiu: Drums and vocals
Victor Gil: Guitars

Guillem Laborda: Keys on 1, 4 & 5
Gemma Llorens: Cellos on 2 & 4
Marta Catasús: Vocals on 4

ANTIER – Facebook

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