Secretpath – Dominatio Tempestatis

Paolo e Pierluigi ci portano in un mare che vive di disperazione e speranza, con una descrizione minuziosa degli accadimenti tramite un death melodico e con una composizione che riecheggia fortemente la musica classica, per un prodotto di livello superiore sia per concezione che per esecuzione.

Bellissimo racconto musicale dell’eterna e liquida lotta dell’uomo contro il mare e le sue più terribili manifestazioni, come le tempeste.

Tutto ciò è opera dei Secretpath, uno dei gruppi del meraviglioso roster della bresciana Masked Dead Records, una delle migliori e più varie incarnazioni del sottobosco italiano. Questo album è un piccolo capolavoro di death metal classicheggiante, furioso e suonato benissimo, quei dischi che ascolti con piacere dall’inizio alla fine e poi riparti da capo. Qui abbiamo all’opera alle chitarre il sempre interessante Pierluigi “Aries” Ammirata, un chitarrista estremamente elegante che produce una cascata di note di forte impronta neoclassica. Alla voce un eccezionale interprete come Paolo “The Voices” Ferrante, che ha una gamma di capacità interpretative inusuale e pressoché infinita. Ascoltare questo disco è come essere trascinati per davvero nell’occhio della tempesta e finirne, proprio come dice il titolo, sotto il dominio. Come tutte le produzioni della casa bresciana la qualità è alta, ma soprattutto è molto originale e vivace, come in un nuovo rinascimento del metal underground. Questo ep è anche di una lunghezza adeguata per far apprezzare al meglio la musica del gruppo ed è disponibile ad offerta libera per il download digitale, mentre è a pagamento per le poche copie ancora rimaste in formato fisico. Paolo e Pierluigi ci portano in un mare che vive di disperazione e speranza, con una descrizione minuziosa degli accadimenti tramite un death melodico e con una composizione che riecheggia fortemente la musica classica, per un prodotto di livello superiore sia per concezione che per esecuzione. Si viene avvinti da questa forma di metal inusuale ai nostri tempi, ma che è invece molto vicina alla concezione più vera del fare musica metallica. Una grande occasione per scoprire il mondo Masked Dead Records, o se già lo conoscete un ulteriore piacere per le vostre orecchie.

Tracklist
1.Antiqua Tempesta
2.Crystal Ice
3.Dominatio Tempestatis
4.Raptus
5.Storm Of Revenge

Line-up
Paolo ” The Voices” Ferrante – Vocals
Pierluigi “Aries” Ammirata – Guitar
Francesco “Storm” Borrelli – Drums

SECRETPATH – Facebook

Descrizione Breve

NORDJEVEL – NECROGENESIS

Secondo appuntamento per i Nordjevel, appartenenti alla nuova ondata di Black Metal norvegese. Gli amanti di Immortal, Dodsengel e Gorgoroth non rimarranno delusi. Una giovane perla, per la collezione di tutti i fan del genere.

I Nordjevel sono una band relativamente giovane. Si sono formati in quel di Østfold , in Norvegia (città che ha dato neri natali anche a Enepsigos , Krigsrop e Jahve) solo nel 2015, grazie all’idea di Doedsadmiral, voce anche di Doedsvangr (una delle centinaia di band capitanante dal terrificante Shatraug), Svartelder e dei concittadini Enepsigos, il cui batterista è nientepopodimeno che l’onnipresente Gionata Potenti, alias Thorns.

Con all’attivo due full-length (l’omonimo del 2016 e appunto questo Necrogenesis) e un mini (Krigsmakt), tutti usciti per Osmose, i nostri regalano a tutti gli appassionati ed accaniti fan, uno dei più classici Black Metal scandinavi. Tracce che paiono uscite direttamente da Damned in Black o da Sons of Northern Darkness, infervorano i cuori dei più devoti discepoli dei divini Immortal. Capacità strumentali sublimi, una meravigliosa attitudine ad amalgamare up e mid tempo, condendoli con cupe melodie, rendono Necrogenesis un album godibilissimo, che ci accompagna per quasi 50 minuti, attraverso le più oscure tenebre e neri paesaggi norvegesi, ove la natura ostile racchiude un viscerale odio per l’essere umano come individuo, e ne violenta l’anima sino al profondo. Disprezzo, ostilità, rancore e animosità verso tutto ciò che è umana esistenza e cristianità, spurgano dalle 9 tracce che compongono l’album, attraverso un Black Metal con pochi fronzoli, e privo di compromessi, come nei brani Sunset Glow, Devilry e Amen Whores. Come detto, ascoltare i Nordjevel pare essere di fronte ad un album della band proveniente dalla fredda regione dell’Hordaland, quella antecedente all’addio dello storico vocalist Abbath per intenderci, che qui viene sapientemente emulato (forse un po’ troppo) in tutto e per tutto da Mr.Doedsadmiral (all’anagrafe Anders O. Hansen). Può pertanto apparire inutile acquistare un album che nulla aggiunge alla scena odierna, proprio perché poco innovativo e quasi privo di elementi inconsueti o di inaspettate imprevedibilità ma, per chi ama il Black, quello vero, puro ed essenziale, non sempre ricerca la novità, adagiandosi (come il sottoscritto) nell’area confort di ciò che non riserba mai sorprese o non richieste improvvisate. Spesso, il fan “standard”, cerca nell’ascolto di un album proprio quello che si aspettava al momento dell’acquisto, senza timore di procedere a scatola chiusa, sorridendo e compiacendosi all’idea di non aver speso male i propri soldi, fermamente dichiarando a se stessi, la piacevole ineluttabile conferma di non aver sbagliato. E così accade che, mentre si ascoltano meravigliosi brani come Nazarene Necrophilia o Apokalupsis Eschation, comincia a formarsi sulle labbra dell’ascoltatore, un candido sorriso (forse più un perfido ghigno, è più appropriato), che apre a 360° la consapevolezza del proprio amore verso un genere musicale che sì, spesso è vittima di più o meno riuscite clonazioni, ma che poco importa in definitiva, ai propri affamati padiglioni auricolari, ansiosi di essere violentati dalla furia cieca dei riffs di gente come Destructhor (già frontman dei brutal black deathsters Myrkskog, guarda caso), dalla foga bestiale del lavoro sulle pelli di Nils Fjellström (per gli “amici” Dominator), o annichiliti dai mefitici maligni screams di Doedsadmiral e dai cupi giri di basso di DezeptiCunt (sul passaporto, Svein-Ivar Sarassen).
Immergiamoci pertanto fiduciosi in Necrogenesis, non rimarremo delusi. Vogliamo un condensato di blast beat, up e mid tempo? Vogliamo furia cieca ben condita da un pizzico di melodia e di atmosfera? Vogliamo arroventati screams, colorati di bianco e nero, come nei più classici dei corpsepainting? Allora siamo difronte all’album giusto e alla band perfetta.
Apriamo or dunque la scatola, conoscendone già il contenuto, amiamolo sino in fondo, e gongoliamo per la nostra accorta scelta.

Tracklist
1. Sunset Glow
2. Devilry
3. The Idea of One-Ness
4. Black Lights from the Void
5. Amen Whores
6. The Fevered Lands
7. Nazarene Necrophilia
8. Apokalupsis Eschation
9. Panzerengel

Line-up
DezeptiCunt – Bass
Doedsadmiral – Vocals
Dominator – Drums
Destructhor – Guitars

NORDJEVEL – Facebook

Witching Hour – …and Silent Grief Shadows the Passing Moon

Un buon lavoro, consigliato agli ascoltatori dai gusti più tradizionali.

Arrivano al terzo lavoro sulla lunga distanza i tedeschi Witching Hour, ottima realtà di chiara ispirazione old school e legata indissolubilmente con la New Wave Of British Heavy Metal, leggendario genere a cui il gruppo deve tanto in termine di sound.

…and Silent Grief Shadows the Passing Moon, licenziato dalla Hells Headbangers Records ed accompagnato dalla suggestiva ed epica copertina creata dall’artista italiano Paolo Girardi, è infatti un lavoro vecchia scuola che amalgama l’irruenza e l’approccio diretto del thrash e del black metal a cavalcate strumentali di ispirazione heavy metal, in un contesto assolutamente ottantiano, dark ed epico.
La voce chiaramente ispirata al thrash metal d’annata di scuola teutonica rende il tutto marchiato da un alone estremo, anche se le armonie chitarristiche, i solos e l’atmosfera generale è classicamente heavy.
L’opener …and Silent Grief Shadows the Passing Moon / Once Lost Souls Return, con i suoi dieci minuti, risulta il sunto di quello che si trova tra lo spartito dei sei lunghi brani presenti, con il terzetto di Saarland che si presenta con una lunga parte strumentale dai rimandi metallici classici, prima che le ritmiche si trasformino in sferzate thrash ed entri violenta la voce.
Sorrow Blinds The Ghastly Eyes e The Fading Chime of a Graveyard Bell sono le due tracce che più avallano il sentore di essere al cospetto di un’ alchimia riuscita tra Iron Maiden, Destruction e Venom, quindi immersi nel bel mezzo degli anni ottanta .
…and Silent Grief Shadows the Passing Moon si rivela un buon lavoro , consigliato agli ascoltatori dai gusti più tradizionali.

Tracklist
01. …And Silent Grief Shadows the Passing Moon/Once Lost Souls Return
02. From Beyond They Came
03. Sorrow Blinds His Ghastly Eyes
04. Behold Those Distant Skies
05. The Fading Chime Of A Graveyard Bell
06. As I Walk Among Sepulchral Ruins

Line-up
Jan – Vocals/Guitar
Marco – Bass
Sascha – Drums

WITCHING HOUR – Facebook

ÆRA – The Craving Within

The Craving Within è un disco che tende a perdersi nella neve, a guardare verso l’infinito, grazie anche ad un suono potente e preciso che riporta alla prima epoca del balck metal, anche se non tutto l’impianto è ortodosso.

Questo duo di stanza in Norvegia riporta il black metal allo splendore delle proprie origini, di quando raccontava della potenza della terra e del paganesimo.

Negli anni il nero metallo si è evoluto e sta continuando a progredire e ormai ha una varietà incredibile di sottogeneri e di declinazioni. Nel necessario progresso fa piacere ascoltare un album così ben fatto e con solide radici nel passato. The Craving Within è un disco che tende a perdersi nella neve, a guardare verso l’infinito, grazie anche ad un suono potente e preciso che riporta alla prima epoca del black metal, anche se non tutto l’impianto è ortodosso. The Craving Within è il primo disco sulla lunga distanza per questo duo, che vede il centro nel cileno trapiantato in Norvegia Ulf Niklas Kveldulfsson, polistrumentista eccellente oltre che ottimo compositore, mentre alla voce troviamo il nuovo membro Stein Akslen, veterano della scena norvegese. Entrambi concorrono a creare un disco che punta in alto, come detto prima, volendo ricreare un preciso stato d’animo nell’ascoltatore per portarlo in una dimensione diversa. Non ci sono pause o pezzi riempitivi, o peggio assurde e vuote manifestazioni di potenza black, ma un disco ben composto e che ha tanti elementi che lo faranno amare fin dal primo ascolto a chi ama il black metal. Ci sono canzoni che sono jam, episodi più lisergici, ma a predominare nettamente è l’aspetto classico del genere che è sempre in evidenza. Gli Æra possono essere definiti un gruppo minimale, perché anche le tastiere sono accennate, ma l’insieme è molto magniloquente e poderoso,e si ha quella sensazione di completezza che si aveva ad ascoltare un certo black metal classico, con la sicurezza propria dei grandi gruppi. The Craving Within è una poetica che guarda alla tradizione come punto fermo e al passato come fonte di insegnamento.

Tracklist
1.Skaldens Død
2.Frost Within
3.Rite of Odin
4.Profetien
5.Join Me Tomorrow
6.Norrøn Magi

Line-up
Ulf – All Instruments, songwriting
S. Akslen – vocals

ÆRA – Facebook

Non Est Deus – There Is No God

Non siamo in presenza di un’opera che segnerà il genere negli anni a venire ma neppure di qualcosa da archiviare in fretta e furia, visto l’elevato tasso di gradevolezza di un album il cui ascolto di sicuro non delude.

Non Est Deus è l’ennesima one man band dedita ad un black metal melodico dai testi intrisi di critica nei confronti delle religioni: con tali indizi è difficile pronosticare per un album come There Is No God un esito brillante o un incedere avvincente, eppure…

Eppure succede che l’operato di questo ignoto musicista tedesco ribalti ogni giudizio precostituito, rivelandosi quanto mai gradevole ed interessante: il nostro riesce a fondere l’asprezza delle ritmiche con linee chitarristiche davvero notevoli, capace di agganciare anche un’ascoltatore dall’approccio distratto.
Del resto l’album ha tutte le caratteristiche per soddisfare un po’ tutte le frange degli amanti del black, in quanto qui troviamo il ruvido incedere del genere nelle sue vesti originarie così come il fluido e trascinante snodarsi della sua variante melodic/groove, prendendo quale ipotizzabile modello un’altra grande one man band come gli Arckanum, ma rivestendo il sound di una cura strumentale più al passo con i tempi pur senza snaturare il sound ripulendolo all’eccesso.
Fuckfest of Blood è una traccia emblematica in tal senso, evidenziando i tratti più catchy dell’offerta dei Non Est Deus dalla cui sponde non giungono istanze innovative ma niente più niente meno di un black metal molto godibile e inattaccabile per competenza e a capacità di coinvolgimento.
There Is No God è dominato da un bel lavoro chitarristico tramite il quale il nostro misterioso musicista mantiene elevato l’interesse in ogni frangente; ovviamente non siamo in presenza di un’opera che segnerà il genere negli anni a venire ma neppure di qualcosa da archiviare in fretta e furia, visto l’elevato tasso di gradevolezza di un album il cui ascolto di sicuro non delude.

Tracklist:
1. Poisonous Words
2. Fuckfest of Blood
3. Coffin of Shattered Dreams
4. Hobsons Choice
5. Godless

Stained Blood – Nyctosphere

I venti gelidi che da anni soffiano da nord formano tempeste che, spingendosi all’estrema propaggine sud occidentale dell’ Europa, provocano vortici depressionari death/black di notevole impatto come questo ultimo lavoro degli Stained Blood.

La scena estrema iberica è ricca di sorprese, dimostrandosi probabilmente una delle più sottovalutate pur essendo fucina di realtà interessanti come gli Stained Blood, quintetto originario della provincia catalana e dedito da un furioso esempio di metal estremo che ingloba death, black e melodic death metal.

Attiva dal 2005, la band arriva al terzo full length di una carriera che ha visto l’uscita del primo album solo da pochi anni, con il debutto One Last Warning nel 2013, il successivo Hadal nel 2015 e questo possente ritorno dopo quattro anni a titolo Nyctosphere.
Tutto è al suo posto: la copertina è old school così come l’attitudine e l’impatto, la produzione è soddisfacente quel tanto che basta per apprezzare il lavoro del gruppo, e la tempesta di suoni estremi fa risaltare il buon talento melodico tra ritmiche forsennate e di stampo black, atmosferiche parti oscure e maligne ed una potenza da death metal band.
Gli Stained Blood manipolano la materia a loro piacimento, ripartono veloci e cattivi, per poi fermarsi a contare i danni procurati da brani lunghi e devastanti come l’opener Avfall, The Lightless Walk e la tempestosa Winterflesh.
I venti gelidi che da anni soffiano da nord formano tempeste che, spingendosi all’estrema propaggine sud occidentale dell’ Europa, provocano vortici depressionari death/black di notevole impatto come questo ultimo lavoro degli Stained Blood.

Tracklist
1.Avfall
2.Century to Suffer
3.The Lightless Walk
4.Shrines of Loss
5.Winterflesh
6.Drowned

Line-up
Raul Urios – Bass
Salvador d’Horta – Drums
Miquel Pedragosa – Guitars
David Rodriguez – Guitars
Narcis Boter – Vocals

STAINED BLOOD – Facebook

À Répit / Inféren / Malauriu / Vultur – Teschi Ossa Morte

Teschi Ossa Morte si rivela uno split album di un certo pregio perché riesce a far convergere in un’unica opera realtà di diversa estrazione, esperienza e stile, restituendo un risultato di notevole interesse per chi segue in maniera assidua le gesta della scena black metal tricolore.

Teschi Ossa Morte è uno split album scaturito dalla sforzo congiunto di sette diverse etichette e capace di fornire uno spaccato della scena black metal nazionale, grazie alla partecipazione di quattro brand provenienti da diverse regioni del paese.

L’apertura del lavoro spetta ai valdostani À Répit, autori di un black cantato in italiano e dalle sfumature pagan folk, dalla buona impronta melodica che viene contrastata da uno screaming quanto mai arcigno: dei due brani, La Roccia Di Jean Grat si snoda più diretto ed incalzante ma non privo di spunti atmosferici che vengono maggiormente approfonditi nella più evocativa Ventre Di Lupo.
Arrivano dalla Lombardia gli Inféren , la cui interpretazione del genere è più essenziale ma ugualmente convincente: anche in questo caso liricamente si opta per la lingua italiana, con qualche spunto dialettale in Volti Di Pietra, traccia che assieme a Descensio Ad Inferos raffigura al meglio gli intenti di una band volta ad offrire un sound privo di fronzoli ma decisamente efficace.
La seconda parte dello split viene occupata da due gruppi isolani: prima i siciliani Malauriu ci portano su un terreno ancor meno propenso a squarci melodici o atmosferici, con il loro black metal claustrofobico ed incalzante, senz’altro più aderente ai dettami del genere nella sua primissima incarnazione; Narcotic Cult e Sacramentum sono brani trituranti che non lasciano spazio a divagazioni di alcun tipo.
Chiudono il lavoro i sardi Vultur, band che tra quelle presenti può vantare una storia già abbastanza consistente, essendo l’unica delle quattro formatasi nello scorso decennio; a differenza dei compagni di avventura il trio contribuisce con un solo brano che, per converso, è anche il più lungo del lotto.
Animas Dannadas è come consuetudine dei Vultur, cantata in lingua sarda e testimonia ampiamente di una band collaudata e di sicuro spessore, capace di interpretare il genere con padronanza dei propri mezzi per tutti i dodici minuti del brano, tra furiose accelerazioni, ottimi squarci di chitarra solista e un’inquietante chiusura ambient.
Teschi Ossa Morte si rivela così uno split album di un certo pregio perché riesce a far convergere in un’unica opera realtà di diversa estrazione, esperienza e stile, restituendo un risultato di notevole interesse per chi segue in maniera assidua le gesta della scena black metal tricolore.

Tracklist:
SIDE A:
1.à Répit – La Roccia Di Jean Grat
2.à Répit – Ventre Di Lupo
3.Inféren – Volti Di Pietra
4.Inféren – Descensio Ad Inferos
SIDE B:
1.Malauriu – Narcotic Cult
2.Malauriu – Sacramentum
3.Vultur – Animas Dannadas

Line-up:
À Répit
Gypaetus – Guitars/Bass/Lyrics
Skarn – Vocals, Synth, Drums

Inféren
Enyalios – Vocals
Al Azif – Guitars
Eihort – Bass
Schins – Drums

Malauriu
A. Schizoid – Guitars
A. Venor – Vocals
S.T. – Bass
R.C. Drums
Felis Catus – Keyboards

Vultur
Attalzu – Vocals, Guitars
Luxferre – Bass
Vorago – Guitars
L.B. – Drums

MALAURIU – Facebook

INFEREN – Facebook

VULTUR – Facebook

À REPIT – Facebook

Sadness – Rain

Come sanno fare solo i più bei dischi di black metal altro, Rain trasfigura completamente la nostra realtà, dato che ci si perde in questo muro sonoro, in questa cascata di suoni ed immagini, dove si viene portati in cielo e da lì nello spazio profondo, ma dove ci dovrebbe essere solo silenzio e buio troviamo prati di vita e fiori di morte.

Sadness è il progetto solista di Elisa, polistrumentista messicana che vive in Illinois, dove ha registrato questa sua seconda opera.

Rain è un disco che porta in un’altra dimensione, con uno spettacolare suono che parte dall’atmospheric black metal per arrivare al blackgaze e al depressive black metal, sottogenere di cui è uno dei migliori esemplari. Ci sono trame e sottotrame in queste canzoni, ognuna fa storia a sé ed insieme ci rendono un bellissimo dipinto che pulsa al ritmo di questa musica. Per esempio Pure Dream, la seconda traccia del disco, è un esempio perfetto di cosa sia Rain, un sogno, una sorta di filtro attraverso il quale vedere la vita in maniera diversa, una sospensione del tempo che ci permette di rallentare e di capire meglio. Elisa suona come se fosse al comando di un magma, con gli strumenti che si fondono per arrivare ad un certo risultato, dove ogni cosa è fondamentale ma mai come il tutto che concorre a formare. Sogno, estasi, paura della perdita e superamento della morte, ci sono tantissime cose in questo disco. Come sanno fare solo i più bei dischi di black metal altro, Rain trasfigura completamente la nostra realtà, dato che ci si perde in questo muro sonoro, in questa cascata di suoni ed immagini, dove si viene portati in cielo e da lì nello spazio profondo, ma dove ci dovrebbe essere solo silenzio e buio troviamo prati di vita e fiori di morte. Sintesi di purezza e corruzione, è davvero difficile catalogare questo disco come una mera opera musicale, perché è molto di più. Innanzitutto esplora le parti più nuove ed ancora parzialmente inesplorate dell’universo black metal, e chi si poteva aspettare che dai primi ruggiti norvegesi a distanza di molti anni sarebbero poi potute nascere opere come Rain? Ciò è possibile perché il black metal è come un codice sorgente dal quale possiamo prendere e sviluppare ciò che ci interessa, ed è proprio ciò che ha fatto Elisa. Un disco molto toccante, bello ed etereo, blackgaze di ottima fattura.

Tracklist
1.Lay
2.Pure Dream
3.Absolution
4.River
5.Rain
6.Teal

Line-up
Elisa – All instruments and vocals

SADNESS – Facebook

Afraid of Destiny – S.I.G.H.S.

S.I.G.H.S. può rappresentare per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.

Il depressive black in Italia è un sottogenere magari non diffusissimo ma sicuramente esibito a livello per lo più ottimo dai suoi interpreti, tra i quali rinveniamo gli Afraid of Destiny, tipico esempio di band nata come progetto solista e poi evolutasi nel corso del tempo in una realtà più composita e, soprattutto, in grado di proporre anche  dal vivo la propria musica.

L’attività degli Afraid of Destiny è stata piuttosto intensa in questi sei anni decorsi dal demo d’esordio, così, oltre a diverse uscite minori, troviamo tre full length dei quali l’ultimo è questo S.I.G.H.S., uscito per Talheim Records, anche se di fatto il lavoro comprende per buona parte la rivisitazione di brani composti dal fondatore Adimere quando era ancora neppure maggiorenne.
In effetti, le prime tracce dell’album sembrerebbero mostrare più un gruppo dedito ad un black atmosferico e ragionato, per quanto cupo, ben rappresentato dalla buonissima Shells, sulla quale offre un gran bel contributo chitarristico Thomas Major dei Deadspace, ma è nella seconda metà del lavoro che prende campo un incedere più malinconico e ripiegato su una negatività di fondo, che vede quale suo ideale prologo Tutto Ciò che Sento, un dialogo tratto dal film “Lei” sul quale si incastonano struggenti note pianistiche.
Il lungo strumentale I’m Crying (proveniente dal primo full length Tears Of Solitude, così come la conclusiva Killed By Life) rappresenta un bellissimo intermezzo ricco di atmosfere e melodie che mostrano un volto più malinconico e struggente che non disperato, introducendo al meglio il dolente sentire acustico di Cursed and Alone e l’interludio pianistico Malinconica Venezia, prima che la già citata Killed By Life, traccia molto lunga (ancor più di quanto non lo fosse nella sua prima stesura grazie ad un’appendice strumentale) quanto intensa, chiuda in maniera ottimale l’album descrivendo il vortice di sensazioni disseminate lungo il percorso che conduce ad un’ineluttabile quanto tragica conclusione.
S.I.G.H.S. (che è peraltro l’acronimo di Still I Gently Hide Sadness) è un’opera che si snoda lungo vari sentieri stilistici come è  prevedibile quando i brani in esso contenuti sono stati composti in diverse epoche e quindi a qualche anno di distanza l’uno dall’altro: troviamo così episodi di black tout court come Take Me Home, Death assieme a malinconici affreschi acustici che riconducono a sonorità di matrice dark doom, ma il tutto comunque convive senza troppe forzature; almeno in quest’occasione il sentire depressivo viene veicolato musicalmente (e anche a livello di interpretazione vocale da parte di R.F. Sinister)  più con un senso di rassegnazione che non di rabbia impotente: questo consente agli Afraid Of Destiny di risultare graditi, oltre agli ascoltatori gravitanti in ambito black, anche da chi ama farsi cullare da sonorità cupe e a tratti intimiste.
Considerando che un po’ tutta la storia della band è stata, fino ad oggi, caratterizzata da uscite volte anche al riassemblaggio o al recupero di brani dalla genesi più datata e che il compositore principale Adimere è ancora molto giovane, mi piace pensare che S.I.G.H.S. possa essere per gli Afraid Of Destiny una sorta di compendio definitivo dei primi 5-6 anni di carriera, propedeutico alla creazione di nuovo materiale inedito in grado di consolidare il nome di questa realtà dal grande potenziale non ancora del tutto espresso.

Tracklist:
1 – Timor Mortis
2 – Take Me Home, Death
3 – Shells
4 – Tutto Ciò che Sento
5 – I’m Crying (Tears of Solitude MMXIX)
6 – Cursed and Alone
7 – Malinconica Venezia
8 – Killed by Life

Line-up:
R.F. Sinister: vocals
Adimere: rhythm guitars, bass, laments on ‘Shells’

M.S. (ex member): solo guitars
N. (Blaze of Sorrow): session drums
B.M. (Skyforest, ex Annorkoth): session piano
Thomas Major (Deadspace): guest solo on Track 3
Laura Zaccagnini: guest lyrics on Track 6

AFRAID OF DESTINY – Facebook

Svartelder – Pits

Underground sempre in fermento creativo con gli Svartelder,che con personalità ci immergono in un trip multidimensionale offrendoci un’ulteriore sfaccettatura del suono norvegese.

Underground sempre in fermento creativo con i norvegesi Svartelder, che giungono al loro secondo full dopo Pyres del 2016; black, sempre black, ma con una decisa personalità, trattandosi di band composta da musicisti non alle prime armi e attivi in molte altre band.

Malethoth, il bassista e compositore di tutte le musiche, ha un passato nei Den Saakaltde e un presente in act interessanti, come Horizon Ablaze e Pantheon I, mentre il singer Doedsadmiral lancia il suo scream sinistro e luciferino nei più noti Nordjevel, senza dimenticare Enepsigos e Doedsvangr. Non sono da meno Spektre, drummer nei Gaahls Wyrd, prossimi al debutto discografico, e Renton alle keyboards nei Trollfest. La band non suona live ma si concentra solo sul lavoro in studio e considera la propria musica “as a painting”, dove si riversano tutte le idee che non trovano spazio nelle altre avventure sonore; non ci sono barriere nello sviluppo creativo e l’ascolto dei sette brani di Pits dimostra la veridicità di tale affermazione. Black, memore si della old school, del resto siamo in Norvegia, ma ricco di sfumature dovute sia al lavoro chitarristico spesso “weird” alternato a momenti più suadenti, sia al drumming molto articolato soprattutto nei midtempo, mentre le tastiere sullo sfondo caricano la struttura con melodie scure e apocalittiche. Lo scream “accarezza” come una tagliente lama, le atmosfere malate create dal bassista a formare un tutt’uno particolare e dal sicuro fascino. La band non si lascia andare a sterili dimostrazioni tecniche o ad avanguardismi inutili, i brani sono compatti e come in tutte le opere di qualità necessitano di molteplici ascolti per un grande appagamento; la parte oscuramente melodica non è in primo piano ma è intessuta nelle trame fitte che accompagnano tutti i brani, immergendoci in un trip multidimensionale personale creato da musicisti liberi da schemi prefissati e con una grande voglia di suonare musica per offrirci un altro lato del suono norvegese. Ottima proposta per ascoltatori “open minded”.

Tracklist
1. Part I
2. Part II
3. Part III
4. Part IV
5. Part V
6. Part VI
7. Part VII

Line-up
Doedsadmiral – Vocals
Maletoth – Guitars, Bass
Spektre – Drums
Renton – Keyboards

SVARTELDER – Facebook

Rotting Christ – The Heretics

The Heretics è tutt’altro che un lavoro scialbo e trascurabile , perché in più di un brano si riconoscono i tratti avvolgenti e corrosivi dei tempi migliori, abbinati ad altre tracce gradevoli ma di maniera, rese comunque interessanti dal ricorso a voci salmodianti o recitanti e da riferimenti lirici mai banali.

Tornano con il loro tredicesimo album su lunga distanza i Rotting Christ, icona del metal ellenico la cui storia ormai ultratrentennale è costellata da alcuni capolavori, da ottimi dischi e da altri buoni ma certo non epocali.

A questo novero appartengano sostanzialmente tutti i lavori sopraggiunti dopo Theogonia, quello che almeno personalmente ritengo il vero ultimo e indiscutibile squillo discografico della band dei fratelli Tolis.
Negli anni Sakis ha lodevolmente provato a rendere più vario il sound inserendovi elementi etnici o ricorrendo anche ad ardite sperimentazioni (vedi la collaborazione con Diamanda Galas in Aealo), ma questo ha fatto smarrire d’altro canto quel dono della sintesi esibito di norma tramite il caratteristico riffing, essenziale ma assolutamente trascinante nel suo crescendo.
E così era più che lecito pensare che anche The Heretics fosse soprattutto il pretesto per i Rotting Christ per intraprendere un nuovo tour, in compagnia degli altri campioni del metal sudeuropeo come i Moonspell, con il rischio di una frettolosa archiviazione a favore dei grandi lavori incisi a cavallo tra i due secoli.
Ma The Heretics, in realtà, è tutt’altro che un lavoro scialbo e trascurabile, perché in più di un brano si riconoscono i tratti avvolgenti e corrosivi dei tempi migliori, abbinati ad altre tracce gradevoli ma di maniera rese comunque interessanti dal ricorso a voci salmodianti o recitanti e da riferimenti lirici mai banali; se è vero che la freschezza compositiva degli anni migliori è ormai un ricordo e che i momenti rimarchevoli del disco, alla fin fine, riconducono a quegli schemi che chi ama i Rotting Christ conosce a menadito, non si può negare che canzoni come In The Name of God, Heaven and Hell and Fire, Fire God And Fear e The Raven siano efficaci, coinvolgenti e sicuramente in grado di surriscaldare adeguatamente l’atmosfera dei locali che vedranno prossimamente la band greca esibirsi dal vivo.
Considerando le voci che avevano anticipato l’uscita del lavoro definendolo fiacco e privo di motivi di interesse, unito al fatto che, almeno per certa critica, vi sono band di nome (in compagnia dei nostri citerei per esempio i Dream Theater) che oggi, anche che riscrivessero la bibbia del metal riceverebbero delle stroncature a prescindere, sono stato piacevolmente sorpreso da The Heretics, che non è certo reato considerare un’opera degna della fama di Sakis e soci a condizione di non attendersi che ogni volta venga pubblicato un nuovo Non Serviam.
D’altra parte l’album tende a crescere dopo ogni ascolto, un sintomo che spesso si rivela indicativo dell’effettivo valore di un disco, e francamente, se quella manciata di brani che ho citato fossero stati scritti da una band all’esordio se ne parlerebbe con ben altra enfasi; per cui, a fronte della contrapposizione tra chi riterrà The Heretics una delusione ed altri che ne canteranno le lodi in eterno, senza voler fare un facile esercizio di “cerchiobottismo” mai come questa volta si può tranquillamente affermare che la verità sta esattamente nel mezzo.

Tracklist:
1. In The Name of God
2. Vetry Zlye (Ветры злые)
3. Heaven and Hell and Fire
4. Hallowed Be Thy Name
5. Dies Irae
6. I Believe (ΠΙΣΤΕΥΩ)
7. Fire God And Fear
8. The Voice of the Universe
9. The New Messiah
10. The Raven

Line-up:
Sakis Tolis: vocals, guitar
Themis Tolis: drums
Vangelis Karzis: bass
George Emmanuel: guitar

Guest Musicians:
Irina Zybina (GRAI): Vocals on ‘Vetry Zlye’
Dayal Patterson: Intoning on ‘Fire God and Fear’
Ashmedi (MELECHESH): Vocals on ‘The Voice of the Universe’
Stratis Steele: Intoning on ‘The Raven’

ROTTING CHRIST – Facebook

Innero – ChaosWolf

Il black metal offerto dagli Innero è offerto in maniera piuttosto tradizionale senza aderire però pedissequamente ai modelli nordici orientandosi, piuttosto, verso un approccio più epico e melodico.

Dalle note biografiche degli Innero salta subito all’occhio il fatto che la band è stata fondata da tre ex membri dei Màlnatt, il che potrebbe indurre in errore pensando di poter ritrovare nel black metal offerto dal gruppo bolognese parte della dissacrante e folle inventiva che ha sempre contraddistinto l’operato della creatura di Porz.

In realtà gli Innero, per assurdo, sorprendono semmai in virtù di una certa ortodossia perché qui il genere è offerto in maniera piuttosto tradizionale senza aderire però pedissequamente ai modelli nordici orientandosi, piuttosto, verso un approccio più epico e melodico.
In tal senso, appare eloquente una taccia come Durum in Armis Genus, dai connotati che riportano con decisione ai Primordial, con tanto di voce stentorea in stile Averill utilizzata al posto dello screaming evidenziato nei primi tre brani; d’altra parte, se un modello si doveva scegliere, quello della band irlandese è senz’altro di grande spessore e il fatto che non siano moltissimi i gruppi che l’hanno eletta quale punto di riferimento contribuisce a rendere il sound non troppo inflazionato.
In effetti, è proprio nella seconda metà dell’album che gli Innero paiono esplorare con maggiore profondità ed efficacia questo versante sonoro che interpretano sicuramente in modo coinvolgente, conferendo al tutto anche un’aura drammatica riscontrabile in Open Eyes, traccia che beneficia di una splendida introduzione per poi snodarsi nervosa con l’alternanza di accelerazioni e passaggi evocativi dalla notevole enfasi epica.
Questo è senza dubbio il volto migliore degli Innero, i quali dovrebbero spingere ancor più in questa direzione senza temere d’essere considerati poco originali perché, come già detto in più occasioni, chiunque suoni oggi black metal ha un suo punto di riferimento riscontrabile in maniera più o meno esplicita, per cui la differenza la fa il saperne reinterpretare la lezione introducendovi il giusto livello di pathos e convinzione.

Tracklist:
1.Among Wolves
2.The Shaman
3.Unbowed, Unbent, Unbroken
4.Durum in Armis Genus
5.Alone
6.Open Eyes
7.Under the Moon We Gather

Line-up:
Fuscus – Bass
Crassodon – Drums
Arctos – Guitars
Alces – Vocals

INNERO – Facebook

The Scars In Pneuma – The Paths Of Seven Sorrows

Un debutto potente e che marca in maniera possente il territorio e soprattutto un buon disco di black metal melodico con intarsi death ed epic.

Epico, mastodontico, un monolite sonoro che possiede bellissime trame sonore, esaltando il senso più autentico del black metal.

Saturazione dello spazio, l’aria si restringe mentre esce dalle casse il debutto dei bresciani The Scars In Pneuma. Da più parti questo suono è definito melodic black metal, ed in un certo qual senso è una definizione azzeccata, perché qui la melodia ha uno spazio importante, ma non aspettatevi un qualcosa di melenso, anzi. La melodia ed il black metal qui si incontrano per dare vita ad una proposizione molto epica del nero metallo e il pathos raggiunge alti livelli. I The Scars In Pneuma non sono più giovanissimi e, grazie all’esperienza, condensano in questo lavoro molte delle loro idee musicali e delle loro influenze sonore. The Paths Of Seven Sorrows è un disco molto ben bilanciato e con canzoni notevoli, lo spirito dell’amante del black metal viene appagato in maniera esaustiva grazie anche ad alcuni momenti che si avvicinano al death metal. Il progetto nacque nel dicembre 2019 come esercizio solista del chitarrista, bassista e cantante Lorenzo Marchello e durante il 2017 sono entrati gli altri due validi elementi come Francesco Lupi e Daniele Valseriati. Da quel momento si è lavorato per scrivere ed incidere il presente lavoro, hanno impiegato il tempo necessario ed il risultato è qui fra noi. Grazie a questo lavoro si possono vivere varie e vive emozioni, e si sente in maniera molto distinta che chi ha scritto questo album ha un grande amore per il metal e per il black in particolare, oltre che molte storie da raccontare. Una opus molto densa ed appagante, che ci mostra come la nostra vita sia sia epica che molto fragile, ed in questa forbice ci stiamo noi. Un debutto potente e che marca in maniera possente il territorio e soprattutto un buon disco di black metal melodico con intarsi death ed epic.

Tracklist
1.Devotion
2.Souls Are Burning
3.Spark To Fire To Sun
4.All The Secrets That We Keep
5.Dark Horizons Ahead
6.The Glorious Empire Of Sand
7.Constellations

Line-up
Lorenzo Marchello – vocals, guitars, bass
Francesco Lupi – guitars, keyboards
Daniele Valseriati – drums

THE SCARS IN PNEUMA – Facebook

Phobonoid – La Caduta Di Phobos

La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

A quattro anni dal primo full length omonimo, e a sei dall’ep di esordio Orbita, si rifà vivo il progetto Phobonoid, interessante realtà creata da Lord Phobos.

La più grande delle due lune di Marte è un riferimento costante in tutto l’immaginario poetico e musicale creato dal musicista trentino e non sorprende, quindi, che il concept continui a seguire quelle coordinate accompagnato da un sound in cui convergono pulsioni industrial, black e doom. Come nei lavori precedenti il contributo della voce viene confinato sullo sfondo dalla produzione ma, fondamentalmente, il fulcro dell’operato di Lord Phobos risiede in una parte musicale che è sempre contraddistinta da un naturale incedere cosmico che, volendo esemplificare al massimo, riporta ai Mechina sul versante industrial black e ai Monolithe per quanto riguarda quello doom.
Tutto ciò contribuisce a rendere il sound nervoso, solenne e al contempo minaccioso, del tutto adeguato al racconto di un viaggio interstellare che il protagonista intraprende per trovare rifugio dopo la distruzione di Phobos; proprio il suo essere sorretto da un’idea ben precisa, anche dal punto di vista concettuale, rende il sound decisamente personale e in grado di emanare un suo oscuro fascino, distribuito in maniera equa lungo tutte le dieci tracce presenti nell’album, nel corso delle quali il passaggio tra le varie sfumature sonore avviene in maniera quanto mai fluida.
La peculiarità delle opere targate Phobonoid era già in pectore nei lavori precedenti, ma qui trova una sua importante conferma e se l’unica difficoltà nell’ascolto de La Caduta di Phobos risiede nel suo fluire come se si trattasse di una sola traccia, non c’è dubbio che i quaranta minuti necessari per ascoltare l’intero lavoro si riveleranno decisamente ben spesi.

Tracklist:
1.26.000 al
2.La Caduta di Phobos
3.Titano
4.TrES-2b
5.CoRot-7b
6.GU Psc b
7.KOI-1843 b
8.WASP-17b
9.MOA-192b
10.A-Crono

Line-up:
Lord Phobos

PHOBONOID – Facebook

Saor – Forgotten Paths

Forgotten Paths rafforza lo status acquisito dai Saor senza apportare particolari novità, se non per la presenza di ospiti importanti, ma effettivamente non c’era alcuna necessità di modificare uno schema compositivo che sta continuando a dare ottimi frutti.

Ci ritroviamo a parlare di questo interessante progetto solista proveniente dalla Scozia, ad un anno di distanza dal precedente full length Guardians.

Andy Marshall è riuscito meritatamente a costruirsi un buon seguito, essendo sostanzialmente uno dei principali fautori della commistione tra il folk scozzese ed il black metal.
Forgotten Paths, quarto lavoro su lunga distanza con il marchio Saor, rafforza lo status acquisito dal musicista di Glasgow senza apportare particolari novità, se non per la presenza di ospiti importanti, tra i quali Neige, ma effettivamente non c’era alcuna necessità di modificare uno schema compositivo che sta continuando a dare ottimi frutti.
Infatti, nei tre lunghi brani più lo strumentale posto in chiusura, rinveniamo le atmosfere epiche ed ariose alle quali Marshall ci ha piacevolmente abituato in passato e delle quali, francamente, non ci si stanca quando sono proposte con tale maestria. Se vogliamo, l’unica zavorra che non è ancora stata eliminata dal contesto Saor è la voce, perché tra le molte doti riconosciute al nostro di sicuro non c’è quella di uno screaming efficace ed interpretativo, ma in fondo la cosa appare non così rilevante alla luce dell’approccio stilistico che privilegia di gran lunga le parti strumentali.
Se la title track è un brano valido ma nella media, nonostante l’ospitata di Neige che, inconsapevolmente o meno, contribuisce ad “alcestizzare” il tutto, è la successiva è sognante Monadh ad offrire il volto migliore dei Saor, ovvero quello capace di emozionare evocando i tipici scenari naturalistici della terra scozzese.
Bròn è invece una traccia che alterna sfuriate sempre sorrette da un’impalcatura melodica e passaggi più rarefatti, tra i quali fa la sua comparsa la voce femminile fornita dalla meravigliosa Sophie Rogers.
Il più breve episodio acustico Exile chiude un album che non fa gridare al miracolo ma che convince, comunque, in ogni sua parte, grazie alla consolidata capacità dimostrata da Marshall nel far convivere al meglio le due componenti fondamentali del sound dei Saor.

Tracklist:
1. Forgotten Paths
2. Monadh
3. Bròn
4. Exile

Line-up:
Andy Marshall – All instruments, Vocals

Guests:
Carlos Vivas – Drums
Neige – Vocals (additional, track 1)
Kevin Murphy – Bagpipes (track 3)
Lambert Segura – Violin
Sophie Rogers – Vocals (female, track 3)
Glorya Lyr – Everything (track 4)

SAOR – Facebook

Lucifera – La Caceria De Brujas

I Lucifera non tradiscono chi aveva apprezzato i precedenti lavori, ed anche quest’ultimo album risulta impedibile per gli amanti della vecchia scuola estrema.

Tornano con un nuovo album i Lucifera, duo colombiano composto da David HellRazor e la strega Alejandra Blasfemia.

Archiviato il precedente e bellissimo Preludio Del Mal, uscito due anni fa, la band con La Caceria De Brujas conferma in toto le ottime impressioni suscitate in passato ripresentandosi sul mercato con un altro ottimo esempio di black/thrash old school.
La formula è la stessa dei gruppi dediti al genere, ma con un marcato talento per le cavalcate heavy/thrash che, unite ad un’attitudine blasfema e fortemente black, non lascia prigionieri sul campo, infestato dai corvi che banchettano in un clima infernale.
La cantante, come sul disco precedente, è una delle armi in più del duo sudamericano, una maligna signora della morte dalla voce che entra come un coltello nel burro nell’anima dell’ascoltatore.
La Caceria De Brujas viene licenziato dalla label tedesca Dunkelheit Produktionen ed è composto da otto inni alla distruzione totale, una colonna sonora putrida e maligna che esprime tutta la sua morbosa bellezza nel suo intero svolgimento, ma che ha nell’opener Arde En Llamas e in Sortilegio e Brujeria tre motivi più che validi per non perdere questo inno al male di matrice black/thrash.
I Lucifera non tradiscono chi aveva apprezzato i precedenti lavori, ed anche quest’ultimo album risulta impedibile per gli amanti della vecchia scuola estrema.

Tracklist
1.Arde en llamas
2.Sigillum Diaboli
3.Sortilegio
4.Ceremonia secular
5.Pacto pagano
6.Conjuro
7.Brujeria
8.Evocación del caos

Line-up
A. Blasfemia – Vocals, Arrangements
D. HellRazor – All instruments, Songwriting

LUCIFERA – Facebook

Sanguinary Trance – Wine, Song and Sacrifice

Wine, Song and Sacrifice è un primo passo senz’altro utile a far sì che il nome dei Sanguinary Trance venga annotato tra quelli da tenere sotto la lente d’ingrandimento nel prossimo futuro.

I Sanguinary Trance sono una nuova realtà black metal proveniente dalla vicina Austria.

L’esordio di quello che è il progetto solista di un musicista dall’identità ignota consiste in un ep di tre tracce dal minutaggio comunque consistente, con il genere che viene interpretato nelle sue vesti più tradizionali e con buona convinzione e intensità.
L’iniziale title track, che supera i tredici minuti di durata, è sufficientemente esaustiva riguardo al modus operandi dei Sanguinary Trance i quali si muovono lungo il solco tracciato in Norvegia nei primi anni novanta, facendone proprio specialmente il versante più ruvido e al contempo epico di un black che vede quali punti di riferimento Burzum et similia.
La produzione, tutt’altro che limpida, favorisce anch’essa un ideale collocazione temporale in quell’epoca, ma ciò non deve comunque sminuire il buon valore di questo ep che si rivela interessante e coinvolgente in più frangenti, anche nelle due tracce più brevi, Carvings e The Dionysos Whip, in cui emergono spunti dissonanti che offrono una certa discontinuità rispetto agli iniziali modelli di riferimento.
Wine, Song and Sacrifice è un primo passo senz’altro utile a far sì che il nome dei Sanguinary Trance venga annotato tra quelli da tenere sotto la lente d’ingrandimento nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Wine, Song and Sacrifice
2. Carvings
3. The Dionysos Whip

SANGUINARY TRANCE – Facebook

Hænesy / Moondweller – Earth and Space

Trattandosi dell’operato di due realtà ancora sconosciute ai più, Earth and Space si rivela sicuramente una graditissima sorpresa per chi non disdegna il black metal nella sua veste più sognante ed atmosferica.

Earth and Space è ancora un altro notevole split album questa volta ad opera della label Black Mourning Productions che riunisce due realtà di genesi recente come gli ungheresi Hænesy ed i russi Moondweller .

Due brani a testa per un totale di quasi mezzora di bellissimo black metal atmosferico è quanto bisogna attendersi da questo lavoro, che ha il solo difetto nel suo formato ridotto, vista il potenziale evocativo esibito da entrambi i gruppi coinvolti.
Gli Hænesy offrono un post black quanto mai arioso e melodico e vanno a puntellare le buone impressioni destate con il full length Katruzsa del 2018; il sound fluisce coinvolgente e convincente, sia in Eternal Rest sia An Onthology of Void, in un ambito in cui il solo gracchiante screaming riconduce il tutto ad una matrice estrema, a fronte di spunti melodici di prim’ordine che rendono questo gruppo magiaro una magnifica realtà .
Sono senz’altro maggiori gli aspetti più tradizionalmente black nel sound dei Moondweller, anche se l’elemento atmosferico recita una parte importante anche in Worlds Entwined e Unknown Signals: qui però il tutto viene spinto su un versante più cosmico in particolare nell’incalzante e splendido finale del secondo dei due brani.
Trattandosi dell’operato di due realtà ancora sconosciute ai più, Earth and Space si rivela sicuramente una graditissima sorpresa per chi non disdegna il black metal nella sua veste più sognante ed atmosferica.

Tracklist:
1. Hænesy – Eternal Rest
2. Hænesy – An Onthology of Void
3. Moondweller – Worlds Entwined
4. Moondweller – Unknown Signals

HAENESY – Facebook

MOONDWELLER – Facebook

Gorgon – Elegy

Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.

I Gorgon sono una band transalpina attiva da una manciata d’anni e con un debutto alle spalle uscito tre anni fa (Titanomachy).

Capitanati dal polistrumentista Paul Thureau, arrivano al loro secondo lavoro con Elegy, un’opera che al metal estremo aggiunge parti sinfoniche ed atmosfere melodiche orientali.
Ne esce un buon esempio di quel lato sinfonico del death/black portato agli onori da Bal Sagoth e Dimmu Borgir, anche se l’anima esotica del sound differenzia la band dai loro più illustri colleghi.
In un opera del genere è forte un approccio progressivo che si evince tra le trame di brani dal piglio magniloquente come Nemesis o The Plague, con il concept che venera la donna come creatrice di vita dedicando a Eva e Pandora, a Ecate e Maria Vergine alcune delle tracce dell’album.
Ottimo è il lavoro vocale di Safa Heraghi (Dark Fortress, Devin Townsend Project, Schammasch) e di Felipe Munoz (Finntroll, Frosttide): la voce eterea della cantante, presente su tutti i brani, dona crea un’atmosfera ancora più epica e sognante all’album che non teme lo scorrere dei minuti ed arriva alla sua conclusione tra sinfonie e cavalcate metalliche dal buon impatto emotivo.
Un lavoro riuscito questo Elegy, il cui sound ripropone i cliché usati a suo tempo dai gruppi più famosi, ma non manca di regalare momenti pregni di epiche sinfonie perfettamente incastonate tra le trame estreme del gruppo parigino.

Tracklist
1.Origins
2. Under a Bleeding Moon
3. Nemesis
4.The Plagues
5.Into The Abyss
6.Ishassara
7.Of Divinity and Flesh
8.Elegy

Line-up
Aurel Hamoniaux – Bass, Vocals (backing)
Julien Amiot – Guitars
Paul Thureau – Vocals, Guitars, Bouzouki, Orchestrations
Charles Phily – Drums, Vocals (choirs)

GORGON – Facebook

Hiss From The Moat – The Harrier

The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.

Tornano con un nuovo devastante lavoro gli Hiss From The Moat, band che vede l’ex Vital Remains e Hour Of Penance James Payne insieme ad un trio di musicisti nostrani (Carlo Cremascoli al basso, Giacomo “Jack” Poli alla chitarra ed il neo arrivato Massimiliano Cirelli alla chitarra e alla voce).

Un gruppo dal taglio internazionale a tutti gli effetti, tornato dopo sei anni dal precedente Misanthropy, album che ne vedeva il debutto sulla lunga distanza, ed ora sul mercato estremo con The Harrier, opera che continua la crescita del gruppo in una notevole realtà death/black metal.
Registrato, mixato e masterizzato allo SPVN Studio di Milano con Stefano Orkid Santi, The Harrier è di fatto un bombardamento sonoro dove tradizione e sfumature moderne trovano la loro perfetta alchimia, in un metal estremo di matrice death/black, derivativo quanto si vuole ma che lascia comunque una sensazione di forte personalità in chi l’ha creato e suonato.
Un gruppo che sa quel che vuole e trasmette questa sensazione di convincente sicurezza in chi ascolta: non male davvero per questi paladini del death/black devastante e nero come la pece.
Politica, religione ed altre piaghe che nei secoli hanno distrutto l’umanità e la sua storia, vengono raccontate attraverso un metal estremo appesantito da uno strato di catrame musicale, nero, viscido ed impermeabile a qualsivoglia forma di pentimento, in una corsa verso l’abisso a colpi di violento metallo che se continua ad ispirarsi alla scena dell’est europeo trova una sua precisa identità in brani apocalittici come la title track, nella nera epicità smossa dall’epica Slaves To War e nel black metal alla Behemoth di God Nephasto.
In conclusione, un ritorno assolutamente da non perdere che conferma le buone qualità del gruppo transcontinentale, una delle più convincenti realtà della scena estrema degli ultimi anni.

Tracklist
1.The Badial Despondency
2.The Harrier
3.I Will Rise
4.The Passage to Hell
5.Slaves to War
6.Sine Animvs
7.The Abandonment
8.The Allegory of Upheaval
9.God Nephasto
10.Unperishing
11.The Decay of Lies

Line-up
Max Cirelli – Vocals/Guitar
James Payne – Drums
Jack Poli – Guitar
Carlo Cremascoli – Bass

HISS FROM THE MOAT – Facebook