Kampfar – Ofidians Manifest

L’arte pura dei Kampfar rifulge ancora una volta; più black e meno viking, ma sempre potenti, feroci e personali.

Si parla sempre poco di questa band norvegese, o meglio, si cita il suo nome solo quando ci sono nuove release, ma quando si discute o si legge di Black Metal è raro che siano ricordati, eppure non parliamo di un gruppo anonimo o di scarsa forza e personalità.

I Kampfar sono attivi dal lontano 1995, con il promo e l’omonimo EP del 1996 (uscito per Season of Mist) hanno dato inizio alle danze pagane e viking dei musicisti, capitanati da sempre dal vocalist Dolk, compiendo nell’arco di otto full length, compreso questo, un percorso sempre più personale e pervaso di grande forza interpretativa. La band ha intrapreso un cammino evolutivo lento, mantenendo sempre una propria identità, passando dai primi dischi più dediti a un suono viking feroce e cattivo, ricordiamoci dell’esordio su lunga distanza Mellom Skogkledde Aaser con la sua meravigliosa e tematica cover, senza dimenticare le fredde distese di Kvass, ma ogni disco non può non colpire direttamente il freddo cuore di ogni sostenitore della materia viking e black. Ora, dopo l’ottimo Profan del 2015, ritornano con Ofidians Manifest,  un lavoro in cui si ricalca la purezza della loro ispirazione, anche se la band ora predilige più una personale visione black che viking. L’opera è molto varia nel suo incedere, è ispirata, non ricorre a nessun stratagemma manieristico, abbiamo fierezza, esaltazione con un suono energico ma allo stesso tempo dotato di una eleganza strumentale di prim’ordine. Dolk dimostra di saper colpire a fondo con il suo scream aspro ed espressivo, dove si richiamano oscurità e glacialità, mentre la capacità strumentale infiamma tutto il disco, inglobando al suo interno note pianistiche, tastieristiche e di cello che “colorano” di inedito il tutto. Un brano come Dominans colpisce per per il suo andamento ipnotico e conturbante ed è il punto di incontro tra le vocals di Dolk e di Agnete Kioslrud (singer rock norvegese, nota per vecchie collaborazioni con Dimmu Borgir) a creare un andamento maestoso. La forza evocativa di Natt, addolcita da note pianistiche, dimostra che i musicisti amano comunque sperimentare, mentre le note bathoriane di Eremitt ci ricordano quale potenza i musicisti siano in grado di sviluppare mentre il coro, in grado di far accapponare la pelle, ci inietta una grande dose di adrenalina e ci fa ulteriormente capire la grandezza dell’arte di questi musicisti. Non facciamo passare in secondo piano l’importante ritorno dei Kampfar, prestiamoci la giusta attenzione e godiamo dell’arte pura da loro espressa.

Tracklist
1. Syndefall
2. Ophidian
3. Dominans
4. Natt
5. Eremitt
6. Skamløs!
7. Det sorte

Line-up
Dolk Drums, Vocals
Jon Bakker Bass
Ask Drums, Vocals
Ole Hartvigsen Guitars

KAMPFAR – Facebook

Haunt – If Icarus Could Fly

Heavy metal old school, legato alla new wave of british heavy metal ed alle sonorità anni ottanta, mezzora di cavalcate maideniane, pregne di atmosfere epiche che faranno la gioia degli amnti del metal classico con qualche capello bianco sulla chioma sempre più rada.

La Shadow Kingdom colpisce ancora: la label statunitense licenzia il secondo lavoro su lunga distanza degli Haunt, quartetto californiano al debutto un paio d’anni fa con un ep, seguito dal primo full length uscito lo scorso anno (Burst Into Flame).

il 2019 vede il gruppo di Fresno sul mercato con un nuovo ep (Mosaic Vison) prima che If Icarus Could Fly arrivi a confermare l’ottima proposta della band californiana.
Heavy metal old school, legato alla new wave of british heavy metal ed alle sonorità anni ottanta, mezzora di cavalcate maideniane, pregne di atmosfere epiche che faranno la gioia degli amnti del metal classico con qualche capello bianco sulla chioma sempre più rada.
La band, nata come progetto solista del bassista, chitarrista e cantante Trevor William Church dei Beastmaker, vede tra le proprie fila il chitarrista John Tucker, compagno d’avventura di Church anche nel gruppo doom americano, il batterista Daniel “Wolfy” Wilson e Taylor Hollman al basso, per un combo che convince dalla prima all’ultima nota di questo gioiellino underground.
Un lavoro curato nel songwriting, a tratti davvero esaltante tra ritmiche che si trasformano in cavalcate che non conoscono passi falsi, refrain metallici perfetti per far drizzare le orecchie ai defenders duri e puri, grazie ad un lotto di brani che nelle varie Run And Hide, Cosmic Kiss e l’inno Defender trovano il sentiero giusto per arrivare sulla cima della montagna dove regna il dio metallo.
Le ispirazioni vanno dagli Iron Maiden agli Warlord, passando per una buona fetta della storia dell’heavy metal classico, puro come l’acqua che sgorga dalla fonte sulla cima dove regnano gli immortali.

Tracklist
1.Run and Hide
2.It’s in My Hands
3.Cosmic Kiss
4.Ghosts
5.Clarion
6.Winds of Destiny
7.If Icarus Could Fly
8.Defender

Line-up
Daniel “Wolfy” Wilson – Drums
Trevor William Church – Vocals, Guitar, Bass
Taylor Hollman – Bass (2018-present)
John Tucker – Guitars

HAUNT – Facebook

Reveal – Overlord

Il sound di Overlord ovviamente non si discosta dai parametri storici del genere con una serie di cavalcate potenti e melodiche, ispirate alla scena power tedesca, ma che tra lo spartito non mancano di richiamare il power scandinavo che affiancò quello tedesco negli anni di maggior successo.

Per gli amanti del power tedesco e nord europeo che ultimamente si sentono poco considerati dal mercato metallico, ecco che arriva in soccorso la nostrana Wormholedeath, che distribuisce il nuovo e secondo lavoro dei Reveal, band fondata dal chitarrista spagnolo Tino Hevia (Darksun, Nörthwind ), raggiunto in questa avventura dal singer svedese Rob Lundgren.

Overlord non delude le aspettative dei fans del genere, a partire dagli ospiti che affiancano la band, dai nomi importanti almeno per chi si nutre di pane e power metal, come Marcos Rodriguez dei Rage, Tom Nauman dei Primal Fear e Marcus Siepen dei Blind Guardian.
Il sound di Overlord ovviamente non si discosta dai parametri storici del genere con una serie di cavalcate potenti e melodiche, ispirate come scritto alla scena power tedesca, ma che tra lo spartito non mancano di richiamare il power scandinavo che affiancò quello tedesco negli anni di maggior successo di molti gruppi diventati icone come Gamma Ray, Rage, Stratovarius e Blind Guardian.
Ottima la prestazione del quotato singer, vero animale heavy/power alle prese con una serie di brani lineari, dall’alto tasso melodico, magari fuori tempo massimo rispetto al volubile mercato, ma perfetto per scavare solchi nel cuore dei fans.
Si parte alla grande con le prime quattro tracce, tra cui spicca l’irresistibile appeal orientaleggiante dell’opener The Name of Ra e la graffiante The Crussaders: i Reveal mettono sul piatto la loro ricetta, magari poco personale ma assolutamente godibile, d’altronde il genere è questo e farsi avviluppare dalle ritmiche di Path Of Sorrow e dalle aperture melodiche che attraversano tutti i brani è un attimo.
It’s Only Show ha un tiro hard rock, quasi aor nel chorus, Road To Newerending ha un taglio progressivo, mentre siamo già alla fine di questo ottimo lavoro consigliato a tutti gli amanti dei suoni melodic power, suonato bene, prodotto ancora meglio e dotato di un grande appeal.

Tracklist
01. The Name Of Ra
02.- I’m Elric
03.- Master of Present and Past
04.-The Crussaders
05.- My Pain
06.- Metal Skin
07.- Path of Sorrow
08.- It’s only a Show
09.- Remember my Words
10.- Road of Never ending
11. (bonus track) It’s only a Show (ft. Saeko)

Line-up
Rob Lundgraen – Vocals
Tino Hevia -Guitars
David Figuer – Lead Guitars
Jorge Ruiz -Bass
Elena Pinto – Keyboards
Dani Cabal – Drums

REVEAL – Facebook

Redwolves – Future Becomes Past

L’album ha un sapore particolare, sempre in bilico fra passato, presente e futuro, innovando ma anche inserendosi nella via nordica al rock pesante.

La Danimarca è sempre stata una terra fertile per quanto riguarda la musica heavy rock, ed è infatti la casa dei Redwolves.

Il loro debutto sulla lunga distanza, Future Becomes Past è un disco impressionante per quanto riguarda il suono, un heavy psych rock che porta questa tendenza musicale nel futuro, con un groove molto coinvolgente ed incalzante. I danesi possiedono in gran misura le stimmate del gruppo heavy rock di classe, riescono a macinare riff di grande sostanza che sono la colonna portante del loro disco fondendosi con la particolare voce di Rasmus Cundell, vera e sofferta. Qui dobbiamo aprire un capitolo a parte, poiché proprio Rasmus è stato vittima di un violento pestaggio la notte dell’ultimo dell’anno del 2016, e i testi e la sua voce riportano le tracce profonde che ciò ha lasciato su di lui, perché non è facile rimettere tutto a posto. Infatti la musica dei Redwolves possiede un’immanente senso di malinconia verso il mondo, come se solo il vibrare deille chitarre e della batteria potesse salvarci, anche solo per i pochi minuti di una canzone. Questo disco è un bel balsamo per l’anima ma anche per il corpo perché con questi ritmi non è facile stare fermi, grazie anche a ritornelli che rimangono impressi nella mente e nelle gambe.
L’album ha un sapore particolare, sempre in bilico fra passato, presente e futuro, innovando ma anche inserendosi nella via nordica al rock pesante. I Redwolves possiedono molte soluzioni e le usano tutte, confezionando un prodotto molto al di sopra della media, ben strutturato ed altamente godibile. Certamente nel loro suono è presente anche la tradizione americana all’hard rock, ma viene rielaborata qui in maniera diversa, integrandola con quella scandinava alla quale i danesi sono contigui. Ci sono momenti di luce e momenti di ombre, ma il messaggio globale e di godersi la vita fin che si può, perchè i casini sono dietro l’angolo. Future Becomes Past è un lavoro che piacerà ad ascoltatori di aree diverse oltre a chi apprezza il il rock, perché questa è musica alla quale bisogna solo dare una possibilità, anche per testi profondi e mai scontati.

Tracklist
1. Plutocracy
2. Rigid Generation
3. The Abyss
4. Fenris
5. The Pioneer
6. Voyagers
7. Farthest From Heaven
8. Temple Of Dreams

Line-up
Rasmus Cundell – vocals
Simon Stenbæk – guitar
Nicholas Randy Tesla – bass
Kasper Rebien – drums

REDWOLVES – Facebook

Satan Takes A Holiday – A New Sensation

A loro modo originali, i Satan Takes A Holiday non deludono neanche questa volta: A New Sensation smuove montagne e agita mari con la sua altalena, su e giù per il rock’n’roll che, partendo dagli anni sessanta, arriva elaborato e manipolato dal gruppo fino al nuovo millennio.

Sono arrivati al quinto lavoro i rockers svedesi Satan Takes A Holiday, trio che unisce al rock’n’roll di matrice scandinava un mix di garage, alternative e groove rock per un risultato esplosivo.

La band svedese torna con A New Sensation, l’ennesima mezz’ora di potente e a tratti scanzonato sound, irresistibile e pregno di umori vintage, ma perfettamente bilanciato con un appeal moderno e divertente che li accompagna nelle prove live, dimensione ottimale per la musica del gruppo.
A loro modo originali, i Satan Takes A Holiday non deludono neanche questa volta: A New Sensation smuove montagne e agita mari con la sua altalena, su e giù per il rock’n’roll che, partendo dagli anni sessanta, arriva elaborato e manipolato dal gruppo fino al nuovo millennio.
Registrato al Dustward studio di Stoccolma con il produttore Stefan Brändström e licenziato dalla Despotz records, l’album risulta una bomba rock che deflagra ogni volta che si schiaccia il tasto play, un arcobaleno di colori garage/punk/alternative rock che vi indicherà la via per la dannazione sotto i colpi inesorabili delle varie Set Me On Fire, Hell Is Here, Girls e l’irresistibile Blow.
Divertimento, irriverenza, ironia, energia, non mancate all’appuntamento con i Satan Takes A Holiday ed il loro nuovo lavoro.

Tracklist
01. A New Sensation
02. Unicorn
03. Set Me On Fire
04. Hell Is Here feat Tess De La Cour
05. Sessions And Cash
06. Pilot
07. Girls
08. I Believe What I See (If I See In My Feed)
09. Kingslayer
10. BLow

Line-up
Fred Burman – guitar, lead vocals
Johannes Lindsjöö – bass guitar, vocals
Danne McKenzie – drums, backing vocals

SATAN TAKES A HOLIDAY – Facebook

Imminence – Turn The LIght On

Un disco che avrà sicuramente un buon riscontro commerciale, ma che in eredità non lascia niente, anzi in alcuni momenti persino irrita per la ripetitività delle sue strutture sonore.

Il terzo disco degli svedesi Imminence può essere considerato come il punto di partenza di chi voglia addentrarsi nelle sonorità metalcore maggiormente vicine all’alternative e alle cose più melodiche.

In Turn The Light On troviamo tutti gli stereotipi più commerciali e glamour del metalcore : melodie accattivanti, cori da concerto e tanto pop, tanto al punto che sarebbe meglio definire questo genere pop metal, più che metalcore. Dischi come questo sono super prodotti, e dal vivo non sono facili da replicare, ma visto il successo dei concerti degli svedesi si può affermare che vi riescano. Turn The LIght On ha ogni cosa al suo posto, le canzoni scorrono bene, ma è tutto diretto ad uso esclusivo di un pubblico giovane. Questo suono è molto vicino ad essere il nuovo emo, nel senso di emotional, prendendo come esempio gli inglesi Bring Me The Horizon e le loro schiere di ragazzine adoranti. Nulla di male in ciò, ma gruppi come loro e gli Imminence sono davvero difficili da accostare al metal, eppure sono una delle cose che tengono in piedi il mercato della musica dura. Infatti la sussidiaria della Nuclear Blast Records, la Arising Empire, pubblica questo album, ma nel suo catalogo c’è di molto meglio e soprattutto di maggiormente accattivante. Per chi cerca la durezza e il groove del metalcore questo è il posto sbagliato, mentre chi cerca il pop metal fatto bene potrebbe trovare ciò che cerca, anche se si potrebbe fare molto meglio. Un disco che avrà sicuramente un buon riscontro commerciale, ma che in eredità non lascia niente, anzi in alcuni momenti persino irrita per la ripetitività delle sue strutture sonore.

Tracklist
1. Erase
2. Paralyzed
3. Room To Breathe
4. Saturated Soul
5. Infectious
6. The Sickness
7. Death of You
8. Scars
9. Disconnected
10. Wake Me Up
11. Don’t Tell a Soul
12. Lighthouse
13. Love & Grace

Line-up
Eddie Berg – vocals/violin
Harald Barrett – guitars
Christian Höijer – bass
Peter Hanström – drums

IMMINENCE – Facebook/

Hexvessel – All Tree

All Tree, grazie alla sua forte matrice esoterica, ci fa toccare con mano delle cose che stanno morendo perché noi ci stiamo allontanando in maniera oramai irrimediabile dal nostro vero baricentro.

Tornano gli Hexvessel, uno dei gruppi più interessanti che abbiamo in Europa, e lo fanno con un disco struggente che riporta il progetto al neofolk.

La creatura finlandese, fondata da Mat “Kvohst” McNerney nel 2009, fa da sempre una musica esoterica, una fuga pressoché totale dalla modernità, con una approfondita ricerca nella tradizione e nell’esoterismo. Negli ultimi episodi Hexvessel si era allontanato dal neofolk e dal dark folk, per addentrarsi in maniera risoluta in territori più psichedelici, e nonostante molti seguaci del gruppo non lo avessero apprezzato la qualità era buona. Con questa ultima opera si torna a casa, trattando delle fiabe celtiche e di un mondo ben preciso che si colloca nel nord Europa, anche se ci sono varie scorribande verso sud come Journey To Carnac, che parla della spettacolare e per noi enigmatica località della Bretagna, dove vi sono moltissimi menhir e dolmen, silenti testimoni della nostra antichità. All Tree è un gran bel disco di folk tenebroso, affascinante, suonato molto bene e con una splendida attitudine. Il ritorno al folk, che comunque non era mai stato completamente bandito dal progetto, è attestato anche nella ripresa della collaborazione con il musicista e discografico inglese Andrew McIvor, con cui in pratica era cominciato tutto con il primo disco Dawnbearer. L’album è come un sogno, una frequenza che proviene direttamente dall’antichità, un respirare un’aria antica prettamente celtica, una cultura imbevuta di natura e di antichi contatti con altre dimensioni. Qui tutto ciò è reso molto bene, anche grazie all’adeguato uso di molti strumenti, che giostrano in maniera sapiente attraverso una composizione ben studiata. Ogni particolare è curato e nulla è lasciato al caso, ed il risultato è un disco fra i migliori nel genere neofolk e dark folk degli ultimi anni. Oltre a sognare e a viaggiare in territori lontani All Tree, grazie alla sua forte matrice esoterica, ci fa toccare con mano delle cose che stanno morendo perché noi ci stiamo allontanando in maniera oramai irrimediabile dal nostro vero baricentro. Dischi come questo ribilanciano il tutto, riportandoci dolcezza, bellezza e cose preziose.

Tracklist
1 Blessing
2 Son Of The Sky
3 Old Tree
4 Changeling
5 Ancient Astronaut
6 Visions Of A.O.S.
7 Sylvan Sign
8 Wilderness Spirit
9 Otherworld Envoy
10 Birthmark
11 Journey To Carnac
12 Liminal Night
13 Closing Circles

HEXVESSEL – Facebook

Nocturnus AD – The Paradox

Lo straordinario ritorno di una band che ha fatto la storia, non solo del death floridiano e mondiale, con un album che definire strepitoso e magistrale è dire poco.

Il ritorno dei Maestri. Non ci sono altre parole.

I Nocturnus solcarono i cieli del death metal durante gli anni Ottanta (due demo storici e pionieristici) e Novanta (la trilogia costituita da The Key del ’91, Thresholds del 1992 e dal mini omonimo del ’93, senza dimenticare Ethereal Tomb, uscito nel ’99 su Season of Mist). Il loro approccio all’estremo era personale, e particolarissimo: abbinavano infatti ai classici e più puri canoni del death made in Florida tastiere e sintetizzatori, con un taglio – anche in sede di liriche, coltissime ed ispirate a Asimov e Crowley, tra gli altri – fantascientifico e dalla resa sonora tanto splendida, quanto maestosa. Nel corso del decennio successivo, la band fu ribattezzata After Death: di nuovo altri demo, ri-registrati poi nel 2007 in occasione del lovecraftiano e stupendo Retronomicon, pubblicato dalla benemerita Iron Pegasus, un capolavoro di articolata magnificenza, il cui messaggio trova, ora, perfetto compimento con questo The Paradox, uscito a nome Nocturnus AD. Le nove composizioni del disco – definirle canzoni sarebbe sia ingiusto sia riduttivo, così come sceglierne alcune – materializzano un discorso compositivo ed esecutivo di impressionante maturità artistico-musicale, con trame che risultano varie e concettuali, senza perdere un’oncia dell’essenza di matrice tradizionalmente death. L’interplay chitarre-tastiere, supportate da una sezione ritmica alla Atheist-Cynic, trascina l’ascoltatore in un vortice siderale di evoluzioni strabilianti: l’ideale punto di incontro fra techno-death e progressive. I Voivod del death – ma, anche qui, la definizione ci appare un po’ semplicistica e non rende piena giustizia al quintetto americano – continuano pertanto la loro originalissima e creativa esplorazione di territori sonori rimasti troppo a lungo vergini: riff di marca Dark Angel-Slayer vengono implementati da soluzioni virtuosistiche e magniloquenti che riprendono il discorso dello space rock per estremizzarlo in una chiave futuristica e iper-tecnologica, elettronica e sinfonica nel medesimo tempo. Scale minori, cambi di tempo, complessità armonica, precisione e violenza, costruzione di architetture labirintiche e complesse (eppure fruibili, sia pure con la dovuta attenzione e ripetuti ascolti), rimandi alla narrativa orrorifica del grande Howard Phillips Lovecraft (Aeon of the Ancient Ones), richiami al passato (Paleolithic, The Return of the Lost Key), poliritmi crimsoniani e scrittura stratificata: sono questi i gioielli della corona, che i Nocturnus AD meritano di cingere sul capo. Precession of the Equinoxes è dedicata all’astronomia, segnamente al fenomeno celeste definito anticamente aberrazione delle stelle fisse e studiato scientificamente dal newtoniano James Bradley, nel primo Settecento inglese. Un’ulteriore conferma della superiore, raffinata statura intellettuale dei cinque di Tampa. Per chi scrive – e, si badi bene, al di là di generi e stili – uno dei più grandi dischi degli ultimi quindici anni almeno. Arte oscura per anime nere, veramente. O, il che è lo stesso, fantascienza esoterico-occulta resa con i segreti alchemici del pentagramma.

Tracklist
1- Seizing the Throne
2- The Bandar Sign
3- Paleolithic
4- Precession of the Equinoxes
5- The Antechamber
6- The Return of the Lost Key
7- Apotheosis
8- Aeon of the Ancient Ones
9- Number 9

Line-up
Belial Koblak – Guitars
Demian Heftel – Guitars
Daniel Tucker – Bass
Josh Holdren – Keyboards
Mike Browning – Drums / Vocals

NOCTURNUS AD – Facebook

Vale Of Pnath – Accursed

Accursed regala momenti esaltanti, non si contorce in inutili e stucchevoli perizie tecniche fini a se stesse, ma si destreggia tra il bombardamento a tappeto di note con una disinvoltura che ha del sorprendente.

Tornano gli statunitensi Vale Of Pnath, quintetto del Colorado che con Accursed, nuovo ep licenziato dalla Willowtip Records, mostra il lato più melodico del technical death metal.

La band di Denver, infatti, accomuna la bravura strumentale con un talento melodico ed una sagacia compositiva davvero sopra le righe e queste sei tracce ne confermano tutta la bravura.
Ventotto minuti, durata che per molti vuol dire full length, dove i Vale Of Pnath ci investono con ondate di death metal tecnico e melodico, suonato a velocità proibitiva ma perfettamente leggibile nel suo sali e scendi tra appeal melodico e devastanti parti ultra tecniche.
Growl che si pazza perfettamente nel campo del melodic death metal, ed un lavoro ritmico e chitarristico di categoria superiore fanno di The Darkest Gate e degli altri brani (splendidamente devastante Obsidian Realm) gemme estreme di assoluto valore. Accursed regala momenti esaltanti, non si contorce in inutili e stucchevoli perizie tecniche fini a se stesse, ma si destreggia tra il bombardamento a tappeto di note con una disinvoltura che ha del sorprendente.Un ep che non lascia scampo, perfetto per saggiare la forma del gruppo in attesa di nuovi sviluppi.

Tracklist
1.Shadow and Agony
2.The Darkest Gate
3.Skin Turned Soil
4.Accursed
5.Audient Void
6.Obsidian Realm
7.Spectre of Bone

Line-up
Vance Valenzuela – Guitars
Harrison Patuto – Guitars
Reece Deeter – Vocals
Andy Torres – Bass

VALE OF PNATH – Facebook

Banco del Mutuo Soccorso – Transiberiana

Transiberiana ci riporta virtualmente indietro di mezzo secolo ai capolavori dei primi anni settanta non tanto per le sonorità, il cui legame è comunque evidente pur se inserito in un contesto del tutto moderno, ma soprattutto perché proprio come in quei tempi aurei il disco, per arrivare alla sua naturale destinazione che sono le corde più intime dell’animo, non può essere trattato come un qualsiasi prodotto di veloce ed effimero consumo.

Premetto che, per commentare in maniera più equilibrata e meno condizionata questo ritorno del Banco del Mutuo Soccorso a 25 anni dall’ultimo full length, forse il compito dovrebbe essere idealmente affidato ad un soggetto più giovane, per il quale l’opera della band capitolina rivesta un significato meno intimo, non avendone potuto vivere l’epopea in tempo reale come è accaduto invece al sottoscritto.

Transiberiana è anche il primo lavoro, ovviamente, nel quale la voce che ascoltiamo non appartiene all’immenso Francesco di Giacomo; del resto l’ultimo decennio è stato quanto mai difficile per una delle band più iconiche del prog italiano, prima con la morte del vocalist, poi la malattia dello stesso Nocenzi, per finire con la scomparsa dell’altro membro storico Rodolfo Maltese.
Sarebbe bastato molto meno per chiudere definitivamente la storia di un gruppo che la “Storia”, peraltro, l’aveva già ampiamente scritta, ma Nocenzi, come in qualche modo ci fa capire con il brano L’imprevisto, proprio dalle avversità ha tratto la forza per ripartire con una band che oggi è un perfetto mix tra musicisti di grande esperienza ed altri relativamente più giovani, senza che in alcun modo ne vengano intaccati i tratti peculiari.
E chiaro che, fatto salvo l’intatto talento strumentale e compositivo del leader (coadiuvato in quest’ultimo aspetto dal figlio Michelangelo), lo snodo era proprio quello di capire come se la sarebbe cavata il buon Tony D’Alessio alle prese con il pesante confronto rappresentato dall’eredità di Di Giacomo.
Detto subito che il nuovo cantante si tiene alla larga da qualsiasi tentativo di imitazione esibendo un timbro proprio e ben definito, non si può fare a meno di notare come talvolta abbia dovuto fare i salti mortali per adattare i bellissimi testi all’interno della struttura musicale; questo perché Transiberiana è un album complesso, nervoso, dai misurati benché fulgidi slanci melodici (esibiti per lo più nella magistrale Eterna Transiberiana e soprattutto nella commovente Campi di Fragole) e dominato ovviamente dal sempre magistrale tocco tastieristico di un Nocenzi coadiuvato da un supporting cast di primissimo ordine.
Il ricorso a brani di lunghezza non eccessiva (mai oltre i sette minuti) al contrario di quanto accadeva in passato, favorisce solo in parte un’assimilazione che, come è giusto e normale che sia in questo ambito, si concretizza solo dopo diversi attenti ascolti.
Questa allegoria esistenziale che è il viaggio lungo la Transiberiana è ricco di sorprese, di passaggi trascinanti e di intuizioni folgoranti sia a livello musicale che lirico, aspetto questo che riveste un ruolo di grande importanza tra struggenti slanci poetici e passaggi che, per chi vuole ricercarne il vero significato, celano una critica feroce a quelli che sono i tempi in cui viviamo (anche e soprattutto nel nostro “bel paese”, con L’Assalto dei Lupi e I Ruderi del Gulag che sembrano più delle sentenze che non semplici presagi).
Ecco perché Transiberiana ci riporta virtualmente indietro di mezzo secolo ai capolavori dei primi anni settanta non tanto per le sonorità, il cui legame è comunque evidente pur se inserito in un contesto del tutto moderno, ma soprattutto perché proprio come in quei tempi aurei il disco, per arrivare alla sua naturale destinazione che sono le corde più intime dell’animo, non può essere trattato come un qualsiasi prodotto di veloce ed effimero consumo.
La descrizione musicale nei dettagli la lascio volentieri a chi ne possiede in tutto e per tutto le competenze (al riguardo consiglio di reperire l’esauriente e del tutto condivisibile articolo scritto da Fabio Zuffanti per La Stampa}, mentre per quanto mi concerne posso soltanto affermare senza alcun pudore che un musicista come Vittorio Nocenzi, in un paese normale, troverebbe posto nei libri di storia, perché tra un “salvadanaio” e l’altro in copertina sono trascorsi quasi cinquant’anni e, probabilmente, solo chi questa cifra l’ha superata anche anagraficamente riesce effettivamente a comprendere la portata di un simile dato.
L’album viene chiuso da due bonus track (Metamorfosi e Il Ragno) registrate dal vivo al Festival di Veruno nel 2018: nulla più di un gradito cadeau che ha però la duplice funzione di farci capire sia quanto Tony D’Alessio possieda la necessaria caratura anche per reintepretare le immortali tracce della band, sia quanto del Banco del Mutuo Soccorso ce ne sia sempre bisogno, dal vivo o su disco, anche nell’anno domini 2019.

Tracklist:
1. Stelle sulla terra
2. L’imprevisto
3. La discesa dal treno
4. L’assalto dei lupi
5. Campi di Fragole
6. Lo sciamano
7. Eterna Transiberiana
8. I ruderi del gulag
9. Lasciando alle spalle
10. Il grande bianco
11. Oceano: Strade di sale
12. Metamorfosi (Live at Festival Prog di Veruno 2018)
13. Il ragno (Live at Festival Prog di Veruno 2018)

Line-up:
Vittorio Nocenzi – piano, keyboards and voice
Filippo Marcheggiani – guitar
Nicola Di Già – rhythm guitar
Marco Capozi – bass
Fabio Moresco – drums
Tony D’Alessio – lead vocal

BANCO DEL MUTUO SOCCORSO – Facebook

The Mute Gods – Atheists And Believers

Atheists And Believers è un album apprezzabile per gli amanti di un rock progressivo, ormai sempre più elaborato in una fusione tra sonorità classiche e nuovi impulsi elettrici.

Tornano i progsters The Mute Gods, creatura del polistrumentista e cantante Nick Beggs, a lungo collaboratore di Steve Hackett e di altri mostri sacri del genere come Steve Wilson, John Paul Jones, Rick Wakeman, Steve Howe e Gary Numan, tra gli altri.

Atheists And Believers è il terzo lavoro del gruppo, dopo Do Nothing Till You Hear from Me del 2016 e Tardigrades Will Inherit the Earth del 2017, segno di una vena creativa tutt’altro che in procinto di estinguersi.
Impreziosito da ospiti di primo piano come Alex Lifeson, Craid Blundell e Rob Townsend, Atheists And Believers risulta un album progressive di tutto rispetto, lineare e piacevole nell’ascolto, molto vario anche nelle tematiche incentrate su un’aspra critica del genere umano ed il suo devastante rapportarsi al mondo circostante e alla sua quotidianità.
Progressive rock d’autore quindi, tanta melodia al servizio di una raccolta di tracce che mettono in evidenza il mestiere e la personalità dei musicisti coinvolti, che suggellano con la loro presenza l’ottima musica proposta.
La title track e la bellissima One Day costituiscono l’ottimo biglietto da visita del lavoro, Envy The Dead, Old Men, ballad progressiva che sa tanto di primi King Crimson, la più moderna Iridium Heart, sono i momenti più importanti di questo Atheists And Believers, album apprezzabile per gli amanti di un rock progressivo, ormai sempre più elaborato in una fusione tra sonorità classiche e nuovi impulsi elettrici.

Tracklist
1. Atheists and Believers
2. One Day
3. Knucklehed
4. Envy the Dead
5. Sonic Boom
6. Old Men
7. The House Where Love Once Lived
8. Iridium Heart
9. Twisted World Godless Universe
10. I Think of You

Line-up
Nick Beggs – Basses, guitars, Chapman Stick, programming, keyboards and vocals
Roger King – keyboards, programming, guitars, backing vocals, production and mastering
Marco Minnemann – drums, additional guitars

Alex Lifeson – assorted stringed instruments
Craig Blundell – drums
Rob Townsend – flute, soprano
saxophone, bass clarinet
Lula Beggs – backing vocals

THE MUTE GODS – Facebook

Absolute Valentine – Omega

Un grande album di elettronica che parte dalla synthwave per andare molto oltre.

A testimoniare il buon successo di cui sta godendo la scena synthwave e retrowave negli ultimi anni, ecco tornare uno dei maggiori nomi della scena, il francese Absolute Valentine con il suo nuovo lavoro Omega.

Il precedente disco, Police Heartbreaker, era arrivato fino al numero della classifica Eletronic di Itunes e al numero 39 delle charts di Beatport per quanto riguarda i generi Indie e Nu Electro. Con Omega, Johann da Marsiglia, aka Absolute Valentine, si supera ed arriva a produrre un disco che detterà le linee guida per la synthwave e retrowave degli anni che verranno. Omega opera una decisa mutazione in un campo che rischiava di diventare stagnante pur rimanendo molto piacevole da ascoltare. Absolute Valentine ha il talento ed il coraggio per portare avanti il discorso stilistico di questo genere, attraverso una riformulazione dei suoi codici. I bassi rimangono sempre importanti, ma qui sono assai tenebrosi e minacciosi. Vengono anche abbassati i batti al minuto, per contribuire a dare un’ambientazione più apocalittica e priva di speranza. L’immaginario è sempre quello giapponese anni ottanta, fin dalla copertina si capisce dove si andrà a parare, e come al solito l’artwork è molto ben curato, come per ogni uscita della Lazerdiscs Records. Si può affermare che qui i temi diventano maggiormente intimistici rispetto ai lavori precedenti di Absolute Valentine, anche se rimane preponderante l’escapismo retro futuristico. L’uso sapiente dei sintetizzatori resta il fulcro saliente di Omega, ce n’è per tutti i gusti e la qualità è molto alta. Molto interessante ed intricata è la storia che sta dietro al concept dell’album, che si sviluppa canzone dopo canzone. Un grande album di elettronica che parte dalla synthwave per andare molto oltre.

Tracklist
1.Resurrect
2.Spitfire
3.Panther
4.Paramount Glamour Myth
5.Omega
6.Your Passenger Forever
7.Powertrust
8.The Impossible
9.Bad Power
10.Strange Hope

ABSOLUTE VALENTINE – Facebook

Soulline – The Deep

The Deep vive di un’insieme di ispirazioni e dettagli che fanno di questa tracklist uno degli esempi migliori del genere, sbaragliando i lavori precedenti e confermando i Soulline come gruppo di notevole levatura tra quelli di seconda fascia, in un genere ancora in grado di regalare grosse soddisfazioni.

Con qualche mese di ritardo sull’uscita parliamo dell’ultimo album degli svizzeri Soulline, già apparsi sulla nostra webzine in occasione dell’uscita di Welcome My Sun, precedente lavoro del gruppo che vedeva Dan Swanö alla produzione, così come Peter Tägtgren, altro guru del metal estremo scandinavo, si era occupato di quella di We Curse, We Trust, terza fatica licenziata nel 2012.

Il melodic death metal, genere che offre ormai poco in termini di originalità, ma come tutti i generi che gravitano nel mondo metal, sa regalare opere di spessore quando il songwriting è di altissimo livello come in questo caso.
La band svizzera, d’altronde, ha l’esperienza necessaria per sapere quali corde toccare per non passare inosservata agli amanti di queste sonorità: grandi melodie, cascate di note metalliche, appeal al massimo per la musica prodotta che rimane legata a doppia mandata con il Gothenburg sound e ali gruppi che ne hanno decretato il successo.
Grazie all’ottima tecnica e a belle canzoni ci si dimentica che gli anni novanta sono passati da un pezzo, con gli In Flames che hanno cambiato la loro carta d’identità svedese con quella americana e a difendere l’onore del death metal melodico scandinavo sono rimasti i soli Soilwork ed At The Gates.
The Deep vive di un’insieme di ispirazioni e dettagli che fanno di questa tracklist uno degli esempi migliori del genere, sbaragliando i lavori precedenti e confermando i Soulline come gruppo di notevole levatura tra quelli di seconda fascia, in un genere ancora in grado di regalare grosse soddisfazioni.

Tracklist
01.Leviathan
02.Cool Breeze
03.Nightmare
04.The Fall
05.Filthy Reality
06.Into Life
07.The Game
08.Deepest Me
09.The Deep End
10.Still Mind

Line-up
Ghebro – Vocals
Lore – Guitars
Marco – Guitars
Miles – Bass
Matt – Drums

SOULLINE – Facebook

The Mustangs – Watertown

Watertown non è il “solito” album blues, ma un’opera rock che di queste sonorità si nutre, rivelandosi un disco d’autore, fuori dalle solite sonorità alle quali siamo normalmente abituati, ma che certamente ognuno troverà straordinarie.

Che splendida realtà i britannici The Mustangs: la loro storia nel mondo del rock blues inizia nel 2001 e due anni dopo esce Let It Roll, primo di una serie di album uno più bello dell’altro.

Siamo arrivati al decimo lavoro, il secondo creato come un concept, dopo il precedente Just Passing Through uscito un paio d’anni fa, questa volta incentrato sull’inquinamento ambientale, ma è la musica di livello altissimo che si prende la scena, divisa in undici brani che racchiudono l’essenza del blues pur contaminandolo con altri generi, dal progressive al rock, dal folk al country.
I The Mustangs, capitanati dal cantante e chitarrista Adam Norsworthy, colorano di note blues rock il cielo del paese immaginario di Watertown, e nello spartito delle varie King Of The Green Fields e Kings Of Light accolgono splendide trame country, accenni al new prog inglese e di quel blues animato da sfumature folk che tanto sa di Waterboys del guru Mike Scott.
Watertown, come avrete capito, non è il “solito” album blues, ma un’opera rock che di queste sonorità si nutre, rivelandosi un disco d’autore, fuori dalle solite sonorità alle quali siamo normalmente abituati, ma che certamente ognuno troverà straordinarie.
Quando poi il rock blues puro prende il sopravvento, ecco che in un attimo l’aria si fa elettrica, l’armonica urla tra le chitarre rock’n’roll di Swimming With The Devil, lasciando poi spazio alla conclusiva beatlesiana Looking For Old England, e l’album, nel suo genere un piccolo capolavoro, vola verso vette ai più irraggiungibili.

Tracklist
01 – King Of The Green Fields
02 – Field And Factory
03 – An Easy Place
04 – Love Will Pass You By
05 – Going Into Town
06 – Inter-Machine
07 – Kings Of Light
08 – Watertown
09 – She Didn’t Get Into The Water
10 – Swimming With The Devil
11 – Looking For Old England

Line-up
Adam Norsworthy – Lead Guitar, Vocals
Derek Kingaby – Blues Harp
Jon Bartley – Drums, Backing Vocals
Ben McKeown – Bass, Backing Vocals

THE MUSTANGS – Facebook

Shallow Grave – Threshold Between Worlds

In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.

Quello dei neozelandesi Shallow Grave è uno sludge doom portato alle sue estreme conseguenze.

La band di Auckland, in questa sua seconda fatica risalente allo scorso autunno e successiva di circa cinque anni rispetto all’esordio omonimo, esibisce il volto meno suadente (ammesso che ve ne sia uno} del genere optando per un’esplorazione nel suo ambito più rumoristico e sperimentale.
In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.
Anche nella lontana Auckland si vuole rovistare i meandri più profondi dell’esistenza fino a rivoltarne le viscere, e questo gli Shallow Grave lo fanno molto meglio della gran parte delle band affini per approccio e modus operandi. Un motivo che basta e avanza per dare una chance a questo ottimo Threshold Between Worlds.

Tracklist:
1. The Horrendous Abyss
2. Garden of Blood
3. Master of Cruelty
4. Threshold Between Worlds

Line-up:
Brent Bidlake – Bass
James Bakker – Drums
Tim Leth – Guitars, Vocals
Michael Rothwell – Guitars, Vocals

SHALLOW GRAVE – Facebook

West of Hell – Blood of the Infidel

Blood of the Infidel è una colata di acciaio fuso, un lavoro che risulta un tagliente e massiccio esempio di heavy metal statunitense, pregno di iniezioni thrash.

Centrano il bersaglio al secondo colpo gli West of Hell, quintetto canadese che offre quasi cinquanta minuti di puro esaltamento metallico per tutti i true defenders sparsi per il globo.

La band in verità non è sicuramente una laboriosa fabbrica di musica metallica, risultando attiva dall’alba del nuovo millennio ma arrivata solo ora al secondo full length, sette anni dopo il debutto intitolato Spiral Empire.
Licenziato dalla Reversed Records, Blood of the Infidel è una colata di acciaio fuso, un lavoro che risulta un tagliente e massiccio esempio di heavy metal statunitense, pregno di iniezioni thrash.
I cliché ci sono tutti, e tutti impegnati a solleticare i pruriti metallici dei fans di Judas Priest, Iced Earth e Sanctuary in qualche sfumatura progressiva, tragicamente drammatica come nella migliore tradizione U.S. power.
I brani, dal minutaggio medio lungo, vivono di refrain heavy, fughe thrash metal devastanti ed aperture melodiche dall’appeal ottimo per un’atmosfera che rimane tesissima per tutti i cinquanta minuti di durata, divisi in sette brani che, dall’opener Hammer And Hand, passando per Infidels e la semi ballad in crescendo Dying Tomorrow, mettono in mostra un cantante che risulta un animale metallico in forma smagliante, un gran lavoro delle chitarre ed una sezione ritmica chirurgica.
Per gli amanti dell’heavy metal vecchia scuola di matrice statunitense, Blood of the Infidel è un album da non trascurare assolutamente.

Tracklist
1.Hammer and Hand
2.Chrome Eternal
3.Infidels
4.The Machine
5.Dying Tomorrow
6.The Dark Turn
7.Mankind Commands

Line-up
Chris ”The Heathen” Valagao – Vocals
Sean Parkinson – Lead Guitar
Kris Shulz – Lead Guitar
Jordan Kemp – Bass
Paul Drummond – Drums

WEST OF HELL – Facebook

Dun Ringill – Welcome

Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Gran bel disco di stoner doom da parte di veterani della scena underground svedese di Gothenburg.

La sezione ritmica degli Order Of Israfel, ottimo gruppo con suoni simili, il bassista Patrik Andersson Winberg e il batterista Hans Lilja, decide di radunare un po’ di amici per suonare, durante l’anno sabbatico che si è preso il gruppo. Nasce così questa avventura, nella quale il primo ad essere chiamato è il cantante dalla possente voce Tomas Eriksson, militante negli Intoxicate ed ex membro dei Grotesque. A seguire arrivano i tre chitarristi, perché i Dun Ringill hanno tre chitarre che gli danno un suono unico, Tommy Stegemann dei Silverhorse, Jens Florén dei Lommi e un passato da chitarrista dal vivo per i Dark Tranquillity, e Patric Grammann, SFT, Neon Leon. Il risultato è un disco con un groove bellissimo ed avvolgente, una dimostrazione molto valida di come si possa fare musica pesante con gusto ed eleganza, creando qualcosa di nuovo in generi e sottogeneri molto inflazionati, ma Welcome è un piccolo gioiello. Molto forte nella musica, ma soprattutto nell’immaginario della tradizione folkloristica svedese, ma dimenticate i vichinghi perché qui siamo dal 1600 in giù, tra fate, folletti e foreste. Anche l’horror ha la sua importanza ed il tutto concorre a creare un disco che si fa ascoltare molto volentieri, con un importante peso specifico, in bilico fra doom, stoner e metal. La musica dei Dun Ringill è insieme affascinante, eterea e fisica, composta e suonata da musicisti appassionati e di alta levatura tecnica. Le tre chitarre fanno la loro parte, creando un suono davvero incredibile, e tutto il gruppo è più che all’altezza. Le canzoni hanno un ritmo che fondendosi con la metrica delle parole ottiene un ritmo che non ti fa scappare. Anche la produzione è notevole (Julien Fabré ha fatto un ottimo lavoro) e a curare l’artwork troviamo il loro amico Niklas Sundin, autore davvero di un ottimo lavoro. Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Tracklist
1. Welcome To The Fun Fair Horror Time Machine
(feat. Emil Rolof on Piano + Björn Johansson on Flute)
2. Black Eyed Kids (feat. Emil Rolof on Mellotron)
3. Open Your Eyes (And See The Happiness And Truth)
4. The Door
5. Snow Of Ashes
6. The Demon Within (feat. Per Wiberg on Hammond + Matilda Winberg on Intro Vocals)

Line-up
Thomas Eriksson – Vocals
Hans Lilja – Drums
Patrik Andersson Winberg – Bass
Jens Florén – Guitar
Tommy Stegemann – Guitar
Patric Grammann – Guitar

DUN RINGILL – Facebook

Geezer – Spiral Fires

Tradizione americana ma anche tanto altro per una band che possiede un groove piacevole e che ben si sposa con la forma dell’uscita discografica dell’ep, attraverso il quale riesce a comporre musica notevole senza dispersioni, facendo concentrare l’ascoltatore sul risultato.

Il trio statunitense Geezer è uno di quei gruppi che ad ogni nuova pubblicazione alza lo standard del proprio genere, in questo caso lo stoner con forti influenze blues e psych.

In questo nuovo ep la band fa quello che le riesce meglio, ovvero musica pesante con un groove importante. La miscela sonica dei Geezer raccoglie vari elementi dagli ultimi cinquant’anni di musica psichedelica americana, a partire dalle visioni sonore degli anni sessanta e settanta, arrivando ad un certo doom degli anni ottanta, scarno e molto vicino al blues. Tutto ciò ed altro ancora lo possiamo ritrovare in questo disco, che nasconde molte sorprese. Spiral Fires ha degli uncini che vi trascineranno lontano, le distorsioni sono tutte al loro posto e hanno un gran bell’effetto sulle nostre menti assetate di viaggi psichedelici. Non a caso questo disco esce per Kozmik Artifactz, un’etichetta che ha sempre prodotto psichedelia pesante in molte declinazioni diverse. Rispetto all’ultimo disco del 2017, Psycchoriffadelia, le atmosfere sono simili ma c’è una presenza inferiore della componente blues, anche se mantengono sempre una struttura musicale fortemente debitrice al suono del delta del Mississipi. Le frequenze dei Geezer non appartengono tutte a questa dimensione e vi porteranno oltre i vostri sensi. Nell’ambito underground i Geezer rappresentano una sicurezza, un gruppo che non sbaglia mai un disco, essendo animati da sincera passione per la musica ma anche baciati da una capacità di composizione non comune. Tradizione americana ma anche tanto altro per una band che possiede un groove piacevole e che ben si sposa con la forma dell’uscita discografica dell’ep, attraverso il quale riesce a comporre musica notevole senza dispersioni, facendo concentrare l’ascoltatore sul risultato.

Tracklist
1.Spiral Fires Part 1
2.Spiral Fires Part 2
3.Darkworld
4.Charley Reefer

Line-up
Richie
Turco
Pat

GEEZER – Facebook

Hellraiser – Heritage

Heritage è un lavoro riuscito, imperdibile per i fans dell’heavy metal di ispirazione maideniana.

Nel segno dell’heavy metal più classico gli umbri Hellraiser pubblicano il loro secondo full length per Underground Symphony.

La band, che affonda le sue origini all’alba del nuovo millennio, dà un seguito a quello che fino ad ora era il suo unico lavoro, il debutto Revenge Of The Phoenix, uscito cinque anni fa.
Heritage è una sorta di concept in cui ogni brano è una storia proveniente da diversi luoghi e da epoche diverse, un’eredità culturale che l’uomo si tramanda da secoli e che di fatto è la storia di tutti i popoli della terra.
L’album è stato registrato da Cesare Capaccioni ai Barfly Studio, mixato da Ronny Milianowicz agli Studio Seven e masterizzato da Tony Lindgren ai Fascination Street Studios, una squadra che ha valorizzato il gran lavoro del quintetto.
L’album è composto da undici brani di heavy metal ispirati dal sound maideniano, una serie di cavalcate metalliche old school, assolutamente classiche sia nell’impatto che in un sound magari non originale, ma perfetto nel suo seguire i dettami del leggendario gruppo inglese in opere come Powerslave ed in parte il bellissimo Brave New World.
I musicisti forniscono prestazioni eccellenti e Heritage corre verso la sua conclusione senza stancare, tra cavalcate heavy, solos taglienti e mid tempo da brividi come la robusta ed evocativa Delvcaem.
Ancora le ottime Plagues Of The North, Fairy Veil e la conclusiva Lady In White spiccano in una tracklist che non trova ostacoli, rendendo Heritage un lavoro riuscito, imperdibile per i fans dell’heavy metal di ispirazione maideniana.

Tracklist
1.Heritage
2.Plagues of the North
3.Ritual of the Stars
4.Fairy Veil
5.Mother Holle
6.Preludio
7.Delvcaem
8.Balance of the Universe
9.Voice in the Wind
10.Zephyr’s Palace
11.Lady in White

Line-up
Cesare Capaccioni – Vocal
Michele Brozzi – Guitar
Marco Tanzi – Guitar
Francesco Foti – Bass
Riccardo Perugini – Drums

HELLRAISER – Facebook

Altar Of Oblivion – The Seven Spirits

L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica.

Per gli amanti della musica del destino di stampo classico, il ritorno dei danesi Altar Of Oblivion non può che essere un appuntamento imperdibile in questa prima metà dell’anno.

Gruppo di culto nella scena epic doom, il quintetto torna sul mercato tramite la Shadow Kingdom Records (label che di sonorità classiche se ne intende) a distanza di tre anni dall’ep Barren Grounds e a sette dall’ultimo lavoro su lunga distanza, Grand Gesture of Defiance.
Con il suo heavy doom metal dal piglio epico, anche questo nuovo The Seven Spirits non delude le aspettative grazie a sette capitoli che, come da tradizione, si rivelano impregnate della pesante atmosfera del doom ed esaltate da sfumature epiche.
L’ottima prova del singer Mik Mentor, teatrale ed ispirato dai cantanti che hanno fatto la storia del genere, è assecondata da un buon songwriting che permette a brani come Solemn Messiah, Gathering At The Wake e Grand Gesture Of Defiance di farsi ricordare positivamente dall’ascoltatore.
L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica: la band danese riesce nell’intento di regalare agli amanti del genere un album piacevole e senza sbavature, portando nel nuovo millennio le sonorità dei vari Candlemass, Count Raven, Atlantean Codex e Solitude Aeturnus.

Tracklist
1.Created in the Fires of Holiness
2.No One Left
3.Gathering at the Wake
4.The Seven Spirits
5.Language of the Dead
6.Solemn Messiah
7.Grand Gesture of Defiance

Line-up
Mik Mentor – Lead & backing Vocals
Martin Meyer Sparvath – Guitars, backing Vocals & additional Keyboards
Jeppe Campradt – Guitars and Keyboards
Cristian Nørgaard – Bass
Danny Woe – Drums

ALTAR OF OBLIVION – Facebook