Ulvegr – Titahion: Kaos Manifest

Titahion: Kaos Manifest è un altro disco dedicato agli amanti del black metal, quelli che di certo non si stufano di ascoltare certe sonorità, specialmente se offerte con l’attitudine e le capacità mostrate dagli Ulvegr.

Nella categoria degli ottimi dischi, inevitabilmente compressi da una concorrenza affollata, troviamo questo quarto full length degli ucraini Ulvegr.

Il duo di Kharkiv interpreta il black metal in maniera senza dubbio intensa e comunque abbastanza personale, offrendo brani dal grande impatto ritmico intervallati da qualche episodio più rarefatto e sperimentale (Sol In Signo Sagittarii, Countless Aeons In Transcedent Abyss, U-tuk-ku Lim-nu, Bloodcult. Initiation), e il tutto assume comunque le sembianze di un rituale attraverso il quale vengono evocate le ben note divinità lovecraftiane (Yog-Sothoth è destinato a palesarsi, prima o poi, vista la forza di un brano come Throne Among The Void).
Il duo formato da Helg (chitarra, basso e voce) e Odalv (batteria) si dimostra decisamente affiatato, e per non lasciare nulla d’intentato si avvale dell’aiuto di diversi ospiti afferenti alla florida scena black metal locale gravitante attorno a nomi pesanti come Nokturnal Mortuum e Drudkh: tutto questo rende il sound molto più pieno e definito e va detto, in tal senso, che poter usufruire di un bel martello in carne ed ossa alla batteria invece di ricorrere ad un’asettica drum machine fa sempre tutta la differenza del mondo.
Oltra alla già citata Throne Among The Void, anche When Stars Will Turn To Ashes, She, Who Grants Sufferings, Manifestations Of Havoc e la conclusiva Black Light Of A Dying Sun si dimostrano tracce trascinanti, devote ad un black metal tradizionale ma con una decisiva punta di epico furore ben trasmesso, senza che il tutto scada mai in un parossistico caos senza capo né coda.
Titahion: Kaos Manifest è un altro disco dedicato agli amanti del black metal, quelli che di certo non si stufano di ascoltare certe sonorità, specialmente se offerte con l’attitudine e le capacità mostrate dagli Ulvegr.

Tracklist:
1. Sol In Signo Sagittarii
2. Throne Among The Void
3. Countless Aeons In Transcedent Abyss
4. When Stars Will Turn To Ashes
5. She, Who Grants Sufferings
6. U-tuk-ku Lim-nu
7. Manifestations Of Havoc
8. Bloodcult. Initiation.
9. Black Light Of A Dying Sun

Line-up
Helg – guitars, bass and vocals
Odalv – drums

Guests:
Astargh – lead and rhythm guitars and vocals
Hyozt – keys and samples
Zhoth – vocals and voices on “She, Who Grants Sufferings”, ” U-tuk-ku Lim-nu” and “Countless Aeons In Transcedent Abyss”

ULVEGR – Facebook

Fleurety – The White Death

I Fleurety continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere nelle sole occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo.

Un disco dei Fleurety è un qualcosa destinato a produrre reazioni contraddittorie: così troveremo chi ne esalterà il coraggio e la vis sperimentale e chi, invece, lo derubricherà ad una meno nobile “cagata pazzesca” di fantozziana memoria.

Normalmente, nell’affrontare opere di questo genere, tendo a non assumere una posizione definita, in un senso o nell’altro, non tanto per rifugiarmi in un comodo cerchiobottismo, quanto perché spesso, a spunti effettivamente geniali, fanno da contraltare momenti sinceramente difficili da digerire.
The White Death è il terzo full lenght degli avanguardisti norvegesi, ed arriva ben diciassette anni dopo il precedente: uno spazio temporale che equivale ad una vita, discograficamente parlando, riempita parzialmente da diversi ep confluiti poi nella compilation Inquietum, uscita qualche mese fa.
Passati ai servizi della Peaceville, Svein Egil Hatlevik e Alexander Nordgaren continuano bellamente a fregarsene di ogni convenzione e riversano sull’ascoltatore un groviglio di suoni che trovano una loro effettiva ragione d’essere solo quando esibiscono una vena poetica vicina al migliore Tony Wakeford (stonature incluse), nelle uniche due occasioni in cui la forma canzone prende realmente corpo (The Ballad of Copernicus e Future Day, oggettivamente entrambe molto belle); il resto è un susseguirsi di dissonanze inframmezzate talvolta dalla viziosa voce di Linn Nystadnes (interessante specialmente in Ambitions of the Dead) , approdando in quella scomoda terra di nessuno nella quale è davvero difficile capire se il risultato che ne scaturisce sia frutto di un’irrefrenabile genialità o di semplice mancanza di idee e di talento.
Personalmente, pur essendo propenso ad ascolti che esulano dai normali canoni, fatico non poco ad entrare in sintonia con il duo norvegese, anche perché, come dimostrano ampiamente i brani citati, la capacità di produrre musica tutt’altro che convenzionale ma di grande impatto, anche emozionale, è senz’altro nelle corde dei Fleurety; nonostante ciò i nostri, invece, continuano pervicacemente a cercare forzature con il solo risultato di annoiare o, comunque, a rendere The White Death un ascolto tutt’altro che agevole, probabilmente anche per gli stessi propugnatori del “famolo strano”, al di là delle dichiarazioni di facciata.
Detto questo, ognuno faccia le proprie valutazioni al riguardo: la mia, semplicemente, è che questo nuovo lavoro dei dei Fleurety ripasserà di rado nel mio lettore.

Tracklist:
1. The White Death
2. The Ballad of Copernicus
3. Lament of the Optimist
4. Trauma
5. The Science of Normality
6. Future Day
7. Ambitions of the Dead
8. Ritual of Light and Taxidermy

Line-up
Svein Egil Hatlevik – Drums, Vocals (lead)
Alexander Nordgaren – Guitars

Guests:
Krizla – Flute
Flipz – Vocals (backing)
Carl-Michael Eide – Bass, Vocals
Linn Nystadnes – Vocals

FLEURETY – Facebook

Sojouner – Empires of Ash

Un lavoro valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.

Empires of Ash è il full length d’esordio dei Sojourner, una band piuttosto anomala per composizione, visto che è formata da due neozelandesi, da un’inglese ed uno spagnolo, con l’aggiunta di un batterista italiano entrato in organico dopo l’uscita del disco.

È vero però che il nucleo della band è rinvenibile a Dunedine, in quell’emisfero australe dove risiedono abitualmente Mike Wilson e Mike Lamb, che assieme compongono l’interessante progetto doom Lisythea, raggiunti dalla britannica Chloe Bray che di Lamb è la consorte; probabilmente senza averlo costretto ad estenuanti trasvolate oceaniche, i tre hanno ingaggiato un vocalist piuttosto noto in ambiente doom come lo spagnolo Emilio Crespo (Nangilima) e da questo incontro è nato un lavoro davvero valido, basato su un black metal epico e atmosferico, che non stravolge le gerarchie del genere rivelandosi, però, degno di ascolto e di attenzione per chi apprezza simili sonorità.
Empires of Ash, in effetti, è uscito più di un anno fa per Avantgarde Music ed è stato rimesso in circolazione nello scorso mese di marzo, da parte della Fólkvangr Records, nel sempre più diffuso ed appetibile formato in musicassetta: viene fornita quindi una buona occasione per riascoltare brani dal notevole impatto evocativo come Heritage of the Natural Realm, Aeons of Valor e la lunghissima title track, chiusura degna di un’opera interessante e di buona fruibilità.

Tracklist:
Side A
1. Bound by Blood
2. Heritage of the Natural Realm
3. Aeons of Valor
4. The Pale Host
Side B
5. Homeward
6. Trails of the Earth
7. Empires of Ash

Line-up
Mike Wilson – Bass
Mike Lamb – Drums, Guitars, Piano, Synth
Chloe Bray – Guitars, Tin whistle, Vocals (female)
Emilio Crespo – Vocals

SOJOURNER – Facebook

Craven Idol – The Shackles Of Mammon

I Craven Idol hanno imparato la lezione dei vecchi e blasfemi maestri in giro per l’Europa negli anni ottanta e novanta, assorbendo il più possibile dai vari generi per vomitarli in un sound demoniaco ed oscuro, legato tanto al metal tradizionale quanto a quello di ispirazione estrema.

Nel Regno Unito la scena metal classica è più incline a mantenere inalterata la tradizione, concedendo poco alle moderne soluzioni e mantenendo un approccio old school.

Se poi guardiamo al lato più estremo della nostra musica preferita la cosa si intensifica ancor di più, con i gruppi più giovani a rinverdire e mantenere l’approccio delle band storiche nel death come nel thrash e nelle varie forme che di volta in volta assume il metal.
I Craven Idol hanno imparato la lezione dei vecchi e blasfemi maestri in giro per l’Europa negli anni ottanta e novanta, assorbendo il più possibile dai vari generi per vomitarli in un sound demoniaco ed oscuro, legato tanto al metal tradizionale quanto a quello di ispirazione estrema.
Una dozzina d’anni di vita, due demo ed un primo full length uscito quattro anni fa e seguito da The Shackles of Mammon, nuovo massacro senza compromessi, epico come potrebbe esserlo il sound dei Venom fuso con quello dei Bathory.
Ne esce un vulcano di riff scolpiti nelle chiese sconsacrate di una Londra devastata da peste e dai peccati di un’umanità ormai persa tra le spire del demonio, malati terminali che si scambiano virus e bubboni in vicoli dove dominano famelici topi, divoratori di cadaveri e portatori di apocalisse.
Il cielo sopra la città che brucia non può che essere oscuro, la luce non filtra così come il sound concede poche aperture melodiche e tanto metallo che passa abilmente tra cavalcate black/thrash a tempi medi di doom/heavy metal primordiale.
Pyromancer apre questa finestra sull’inferno, mentre A Ripping Strike, epica, evocativa ed oscura ci scaraventa negli angoli più bui di vicoli putrescenti, seguita dalle ritmiche black di Black Flame Divination.
I quattro untori inglesi picchiano sugli strumenti come forsennati, mentre The Trudge torna all’epicità evocativa in un lungo viaggio verso la dannazione.
Non perde un grammo di pesantezza ed atmosfera The Shackles Of Mammon, continuando la sua panoramica sull’orrore fino alla conclusiva Tottering Cities Of Man, altro brano dove l’atmosfera cadenzata accentua la vena black doom del quartetto.
Un album affascinate nella sua impronta tradizionale, nel genere uno dei più interessanti dell’anno.

Tracklist
1. Pyromancer
2. A Ripping Strike
3. Black Flame Divination
4. The Trudge
5. Dashed To Death
6. Mammon Est
7. Hunger
8. Tottering Cities of Men

Line-up
Sadistik Vrath – Vocals, Guitar
Suspiral – Bass
Heretic Blades – Drums
Obscenitor – Guitar

CRAVEN IDOL – Facebook

Párodos – Catharsis

La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Anche se il monicker Párodos è una novità nella scena metal italiana, si tratta in realtà del prodotto dell’unione di musicisti già attivi in diverse band dell’area salernitana.

Catharsis dimostra in ogni passaggio d’essere frutto di un lavoro di squadra nel quale nulla è stato lasciato al caso, partendo dal pregevole songwriting per arrivare alla realizzazione curata da Marco Mastrobuono ai Kick Recordings Studio di Roma, in quella che si può considerare la fucina sonora per eccellenza del metal italiano centro-meridionale.
L’etichetta di avantgarde/post black attribuita ai Párodos può starci anche se, come spesso accade, vuol dire tutto e niente, visto che qui troviamo certamente qualche accelerazione di matrice black, ma anche una ricerca melodica che spinge spesso il sound su versanti heavy progressive, mantenendo quale tratto comune un’oscurità di fondo che ben si addice ai contenuti lirici dell’album.
Catharsis, infattiscaturisce dall’elaborazione di un lutto entrando a far parte di quella categoria di dischi che, oltre ad essere riusciti da un punto di vista prettamente artistico, racchiudono quella scintilla di creatività derivante dalla volontà di omaggiare qualcuno che non c’è più ottenendo, appunto, il desiderato effetto “catartico”.
L’album è brillante in ogni sua parte, a partir dall’interpretazione vocale versatile di Marco Alfieri, per arrivare all’elegante ed  incisivo lavoro tastieristico di Giovanni Costabile, passando per la puntualità ritmica della coppia Gianpiero “Orion” Sica (basso) ed Alessandro Martellone (batteria), e per il sobrio ed efficace lavoro chitarristico di Francesco Del Vecchio: è notevole l’equilibrio che i Párodos riescono a mantenere tra la tensione drammatica e l’impatto melodico, che sovente squarcia con decisione il velo di oscurità che attanaglia un album di grande intensità emotiva.
Space Omega, la title track e Metamorphosis sono i brani che spiccano in un contesto di spessore talvolta sorprendente, e gli ospiti illustri nelle persone dello stesso Marco Mastrobuono (Hour Of penance), Massimiliano Pagliuso (Novembre) e Francesco Ferrini (Fleshgod Apocalyspe) arricchiscono del loro personale marchio di qualità un’opera che si dimostra già dopo pochi ascolti ben superiore alla media.
La speranza è che questo, per i Párodos, sia solo il primo passo del brillante cammino intrapreso da una nuova band formata da musicisti che, forse proprio in quest’ambito, paiono aver trovato la loro ideale dimensione.

Tracklist:
1. Prologue
2. Space Omega
3. Catharsis
4. Heart of Darkness
5. Stasima
6. Black Cross
7. Evocazione
8. Metamorphosis
9. Exodus

Line-up:
Marco “M.” Alfieri – Vocals
Giovanni “Hybris” Costabile – Synth & Keyboards
Francesco “Oudeis” Del Vecchio – Guitars
Gianpiero “Orion” Sica – Bass
Alessandro “Okeanos” Martellone – Drums & Percussions

Special Guests :
Marco Mastrobuono – fretless bass in “Space Omega”, “Black Cross”, “Evocazione”
Massimiliano Pagliuso – guitar solo in “Black Cross”
Francesco Ferrini – “Stasima”, fully arranged and composed

PARODOS – Facebook

Grima – Tales of the Enchanted Woods

Un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza.

Uno degli aspetti negativi dell’essere più o meno sommersi da materiale proveniente da ogni parte del globo è quello di rischiare di trascurare dischi di enorme valore: ecco perché ci ritroviamo a parlare di questo secondo album dei russi Grima a ben otto mesi dalla sua uscita nonostante si riveli, alla prova dei fatti, uno dei migliori album di black metal atmosferici usciti nel corso dell’anno.

Del resto bisognerebbe anche fidarsi delle etichette che promuovono questi lavori, in questo caso la Naturmacht che di colpi, oggettivamente, ne sbaglia ben pochi: qui però il centro è pieno, perché Tales of the Enchanted Woods è una delle espressioni più fresche ed entusiasmanti del genere che ci sia stato dato modo di ascoltare in tempi recenti.
I Grima sono un duo siberiano formato dai gemelli Gleb e Maxim Sysoev (membri anche degli Ultar), qui con i nickname Vilhelm e Morbius, i quali annichiliscono ed emozionano con il loro black metal epico e maestoso, capace di prendere il meglio dalla scena scandinava e tedesca, iniettandovi una sognante componente cascadiana, splendide venature folk grazie all’inserimento della fisarmonica ed un velenoso screaming che rimanda parzialmente ai Cradle Of Filth.
Tutte queste componenti si amalgamano alla perfezione dando vita ad un lavoro che si sviluppa su cinque tracce portanti più tre strumentali; se l’ascolto, come a volte accade, inizia in maniera un po’ distratta, i Grima impiegano poco per catalizzare l’attenzione con un brano ottimo come The Moon And Its Shadows e, successivamente, con il capolavoro Ritual, grazie al suo enorme carico evocativo dovuto ad una stupefacente capacitò del duo di creare melodie di rara solennità. Never Get Off The Trail , The Grief (con trame chitarristiche che ne illuminano il finale), The Shepherds Of The sono altre perle che trasportano l’ascoltatore all’interno delle maestose e gelide foreste siberiane, protette da uno spirito che ne tutela gli abitanti e che punisce severamente chi non ne rispetta le forme di vita animale e vegetale (forse è l’unico tipo di divinità della quale ci sarebbe veramente bisogno …).
I Grima regalano quasi tre quarti d’ora di magnificenza oscura ed atmosferica, con un ispirazione ed una freschezza che fanno passare sopra a qualche piccola sbavatura esecutiva e l’assenza di un batterista in carne ed ossa.
Inezie, se rapportate al valore complessivo di un lavoro che squarcia il velo sul talento di questi due ragazzi, per i quali mi piace pensare che il comune sentire causato dalla loro condizione gemellare abbia realmente fatto la differenza

Tracklist:
1. The Sentry Peak
2. The Moon And Its Shadows
3. Ritual
4. Wolfberry
5. Never Get Off The Trail
6. The Grief
7. The Shepherds Of The
8. The Sorrow Bringer

Line-up
Morbius – Guitars
Vilhelm – Vocals, Guitars, Programming

GRIMA – Facebook

Omega – Eve

Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo.

Eve degli Omega è un disco che va ben oltre le emozioni che da un supporto fonografico, fa vedere orizzonti lontani.

Il disco è composto da vari livelli, quello più immediato può essere descrivibile come un tenebroso disco di black metal misto a doom ed un pizzico di death, con stacchi dark ambient. Un altro livello di lettura è chiudere gli occhi e sentire cosa fa veramente questa musica, cosa provoca nelle nostre sinapsi: in codesta maniera si potrà scoprire un mondo, una raccolta di emozioni e stati d’animo come in un’ipnosi, perché questo disco è concepito per farci viaggiare alla ricerca del nostro io, della nostra volontà su questo pianeta, ma anche e soprattutto oltre questo pianeta e questi limiti che ci imponiamo. Le tracce sono quattro, il disco va sentito come un continuum sonoro, una lunga suite di musica estrema. Eve è ispirato dal manoscritto Voynich, forse il libro più misterioso mai scritto, o forse soltanto un tentativo di oltrepassare la realtà andando oltre i sensi, in un flusso che lega tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà. Lo stile musicale è pienamente narrativo, veniamo trasportati in una storia dall’architettura profonda con l’uomo al centro, ed intorno un universo che vortica. Il black metal qui è un punto di partenza, perché il suono di questo disco ne ha molti elementi, ma è un’opera nuova ed originale. Nel nuovo splendido libro Black Metal Compendium Volume II – Europa e Regno Unito – di Vavalà e Ottolenghi per i tipi della Tsunami Edizioni, gli autori spiegano molto bene cosa sia il black metal per noi mediterranei, ed in particolare per noi italiani, ovvero un codice da far evolvere, un punto di partenza per profonde esplorazioni, e Eve ne è la spiegazione perfetta: un manoscritto Voynich che ognuno deve decifrare, perché parla di noi stessi, della nostra storia, e della cosmogonia che abbiamo dentro. Un’esperienza, molto più di un disco.

Tracklist
1.Arboreis
2.Sidera
3.Mater
4.Laudanum

Line-up
Alexios Ciancio – Vocals
Mike Crinella – Guitars, Synths, Samples
Fabio Arcangeli – Bass
Marco Ceccarelli – Drums

DUSKTONE – Facebook

Inconcessus Lux Lucis – The Crowning Quietus

Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

La I, Voidhanger è una label alla quale si associa in maniera automatica l’ascolto dischi tutt’altro che banali, se non talvolta cervellotici o di complessa decrittazione, a seconda dei punti di vista.

Tanto per togliere qualsiasi dubbio all’audience sulla qualità e la varietà del proprio roster, l’attiva etichetta italiana consegna alle stampe questo sismico The Crowning Quietus, secondo full length dei britannici Inconcessus Lux Lucis, che poi a ben vedere sarebbe il terzo, tenendo condo anche di quello inciso nella prima parte della loro storia con il monicker Whorethorn.
Baal e Malphas fanno coppia artisticamente da oltre un decennio e credo che la loro comunione d’intenti si evinca fin dalle prime note dell’album: il duo, infatti, offre un black metal senza orpelli di alcun tipo, stante una pesante propensione per il rock’n’roll che rende questi sei brani una piacevole ed inarrestabile galoppata verso gli inferi, un luogo ameno nel quale, visto che ci si dovrà trascorrere un po’ di tempo, è forse meglio accedere con il giusto piglio, e direi che, all’uopo, farsi precedere dal sound degli Inconcessus Lux Lucis sia il modo più indicato per rendersi simpatici ai padroni di casa.
The Crowning Quietus parte sparato, con le sue pesanti iniezioni di hard ‘n’heavy d’autore, ed arriva altrettanto forte, con l’unica anomalia di chiudersi con tre brani piuttosto lunghi per il genere, comunque ben lontani dal rischio di apparire tediosi, visto che proprio grazie al loro protrarsi sono anche quelli che presentano le maggiori variazioni ritmiche nonché apprezzabili spunti di chitarra solista, con il brano di chiusura Fever Upon The Firmament che, nel finale, diventa una vera e propria cavalcata maideniana.
Trascinante e adrenalinico, The Crowning Quietus è l’ascolto ideale per ripulirsi dalle scorie della quotidianità e combattere efficacemente “il logorio della vita moderna”, parafrasando una famosa pubblicità di altri tempi …

Tracklist:
1. With Leaden Hooks And Chains
2. Amour Rides Upon Midnight
3. At The Behest Of The Sinister Impulse
4. To Satiate Silence
5. The Crowning Quietus
6. Fever Upon The Firmament

Line-up:
W. Malphas – Guitars/Drums/Vocals
A. Baal – Bass Guitar

INCONCESSUS LUX LUCIS – Facebook

Profundum – Come, Holy Death

Ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare.

I Profundum sono una di quelle misteriose band che periodicamente sbucano da qualche oscuro anfratto esibendo in maniera magnifica sonorità disperatamente malsane e funeree.

Come spesso avviene in questi casi, tra l’altro, le uniche notizie certe sono la provenienza statunitense (San Antonio), il fatto che Come, Holy Death sia il loro full length d’esordio che segue l’ep dello scorso anno What No Eye Has Seen, e che si tratta di un duo formato dai misteriosi LR e R, anche se diversi indizi mi fanno ragionevolmente ritenere che quest’ultimo sia, in effetti, il Ryan Wilson titolare del pregevole monicker The Howling Void.
Inoltre, le note promozionali ci fanno sapere che i Profundum traggono la loro ispirazione dai fondamentali primi lavori degli Emperor per poi sviluppare un’idea di musica oscura, ferale e nel contempo maestosa.
Indubbiamente, chi ha ben presente le sonorità di In The Nightside Eclipse può trovarsi d’accordo con tale affermazione, fermo restando che il sound dei californiani propende in maniera decisiva verso il funeral doom, lasciando che le sfuriate di matrice black siano solo una delle componenti del sound e non quella preponderante.
Fatte le debite premesse, si può tranquillamente dichiarare Come, Holy Death come una delle sorprese dell’anno quando si parla di sonorità in grado di evocare un senso di struggimento misto ad angoscia e ottundente dolore: mi spingo oltre, affermando che forse mai nessuno, almeno nell’ultimo decennio, è riuscito a realizzare con tale efficacia il connubio atmosferico tra il black metal ed il funeral.
L’album non è particolarmente lungo, con i suoi otto brani dalla durata media di cinque minuti ciascuno che vanno a creare, però, un flusso unico nel corso del quale soffocanti rallentamenti si legano in un abbraccio mortale alle repentine accelerazioni grazie alla solennità delle tastiere: la voce di LR è un growl che sovente si tramuta in uno screaming mai troppo esasperato, comunque restando sempre nei limiti di una certa intelligibilità.
Come, Holy Death, proprio per tutte queste caratteristiche,  non possiede picchi né punti deboli, perché non c’è un solo secondo sprecato indugiando in passaggi interlocutori: qui ogni attimo è finalizzato al completamento di un percorso che porta verso una fine più invocata che temuta, con la tensione che non viene mai lasciata scemare. Obbligato a scegliere un brano emblematico, opto per Unmoved Mover, abbellito da un misurato tocco pianistico, ma ribadisco che anche le altre sette tracce non sono affatto da meno.
Profundum è un altro nome da segnare con il circoletto rosso in egual misura, sia per per gli appassionati di black atmosferico sia per quelli di funeral doom.

Tracklist:
1. Sentient Shadows
2. Unmoved Mover
3. Antithesis
4. Tunnels to the Void
5. Storms of Uncreation
6. Into Silences Ever More Profound
7. I Have Cast A Fire Upon The World
8. Illuminating The Abyss

Line-up:
LR – vocals
R – all instruments

PROFUNDUM – Facebook

Raventale – Planetarium

Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodico/atmosferica spinta al suo massimo livello.

Quello dei Raventale non è certo un nome sconosciuto per gli osservatori più attenti della scena estrema dell’est europeo.

La one man band ucraina, il cui titolare è Astaroth Merc, con Planetarium arriva all’ottavo full length in una dozzina d’anni di attività contraddistinta da una qualità media elevatissima, offrendo una personale interpretazione del black metal che, a mio avviso, con questo ultimo album trova la sua sublimazione.
Planetarium contiene quattro tracce splendide, nelle quali la componente estrema è brillantemente stemperata da un’ispirazione melodica spinta al suo massimo livello, come si può facilmente evincere dall’ascolto dell’iniziale Gemini – Behind Two Black Moons, traccia talmente ariosa che talvolta finisce per lambire il post black e persino il progressive, nel momento in cui si palesa uno struggente assolo di chitarra.
Del resto non si scopre oggi il fatto che Astaroth Merc sia un musicista di classe cristallina ed ogni strumento che passa per le sue mani è trattato con maestria, lasciando come di consueto ad un ospite (in questo caso l’ottimo Atahamas, suo compagno anche nei Balfor e nei Deferum Sacrum) il compito di interpretare le linee vocali.
Dopo la splendida prima traccia, il sound si fa ancor più solenne e maestoso con il capolavoro Bringer Of Celestial Anomalies, brano più aspro e ritmato ma trascinante come di rado accade ascoltare: un furioso blast beat viene per lo più sovrastato da pennellate tastieristiche che conferiscono al tutto una magica aura cosmica capace in questi casi di fare la differenza.
Dopo tanta bellezza è oggettivamente difficile fare meglio, e At The Halls Of The Pleiades offre un volto più arcigno, con il suo riffing profondo che non penalizza però una componente atmosferica la quale, anzi, si riprende ampio spazio nelle fase centrale del brano; la chiusura è invece affidata a New World Planetarium, altro episodio che supera i dieci minuti, complessivamente più compassato senza che venga meno il mood che ha contraddistinto l’album lungo la precedente mezz’ora.
Volendo fare un parallelismo magari audace, Planetarium potrebbe rappresentare l’ideale prosecuzione del discorso che gli Arcturus portarono avanti inizialmente con Constellation e poi con Aspera Hiems Simfonia, prima di abbandonare tale vena prog/atmosferica per virare su sonorità avanguardiste, visto che di quelle pietre miliari l’opera targata Raventale possiede lo stesso suggestivo respiro cosmico. A questo quadro va aggiunto che il black metal proposto da Astaroth Merc è anche contraddistinto da una componente doom, forse oggi più attitudinale che non espressa con particolari rallentamenti: ma non è un caso, però, il fatto che il musicista ucraino sia stato chiamato ad esibire le doti della sua creatura al recente Doom Over Kiev, festival che ha visto all’opera la massima espressione del doom death atmosferico europeo con Saturnus, Swallow the Sun, Clouds e Eye Of Solitude. Tutto ciò rende l’idea di quale considerazione godano i Raventale in patria e, alla luce di questo, non sarebbe male che gran parte degli estimatori del black/doom al di fuori di quei confini desse il giusto risalto ad un progetto guidato da un musicista che, come pochi altri, è riuscito a produrre con una tale continuità album di assoluto valore.

Tracklist:
1 Gemini – Behind Two Black Moons
2 Bringer Of Celestial Anomalies
3 At The Halls Of The Pleiades
4 New World Planetarium

Line-up:
Astaroth Merc – All Isntruments
Athamas – Vocals

RAVENTALE – Facebook

Thyrgrim -Vermächtnis

L’ascolto di Vermächtnis si rivela una piacevole passeggiata su sentieri già percorsi più volte, ma sempre forieri di belle sensazioni, ammirando paesaggi ben conosciuti ma ogni volta in grado di arricchire lo spirito.

Dei Thyrgrim, blacksters di lungo corso tedeschi, avevo già parlato due anni fa in occasione dell’uscita di Dekaden, che avevo collocato nella categoria degli album che non cambiano né peggiorano la vita di chi li ascolta.

Direi che lo stesso si può tranquillamente affermare per questa nuova fatica intitolata Vermächtnis, la sesta su lunga distanza per la band fondata nel 2005 dal vocalist Kain, anche se a mio avviso i brani appaiono ancora più intrisi nel loro complesso di un’aura solenne e gradevolmente epica.
I Thyrgrim, in fondo, appartengono a quello zoccolo duro di band che comunque non deludono mai, e pur senza strabiliare, offrono un’interpretazione del black metal talmente competente e devota alle sue linee guida che non si può non apprezzare se si è autentici amanti del genere.
Kain e soci non propongono solo una serie di piacevoli brani contraddistinti da ritmi stabilizzati sul mid tempo, ma dimostrano anche di saper rallentare ed infiorettare il loro operato come dimostrano nella splendida Die Ewige Suche, che non a caso è una delle tracce più assimilabili ai dettami della scuola tedesca, oppure centrando malinconiche linee melodiche come in Gefangen im Wandel.
In buona sostanza, il black metal nell’interpretazione dei Thyrgim conserva e rinforza la sua funzione primaria di genere il cui substrato misantropico non impedisce l’emergere di una componente emotiva, che diviene poi decisiva per la sua fruibilità.
Quello che ne consegue è che l’ascolto di Vermächtnis si rivela una piacevole passeggiata su sentieri già percorsi più volte, ma sempre forieri di belle sensazioni, ammirando paesaggi ben conosciuti ma ogni volta in grado di arricchire lo spirito.

Tracklist:
1. Die Heilung dieser Welt
2. Frühlingsdämmerung
3. Die Ewige Suche
4. Das Dunkel meiner Seele
5. Ich sehe euch brennen
6. Sklaven eines toten Gottes
7. Pfade der Vergänglichkeit
8. Gefangen im Wandel
9. Sterbend 3
10. Das Ende einer

Line-up:
Kain – Vocals
Berath – Bass
Irrsinn – Guitar
Morbus – Session Guitar
Non Serviam – Session Drums

THYRGRIM – Facebook

Sanguine Pluit – There Is a Goddess in the Forest

Nell’insieme, il tutto acquista un suo esecrabile fascino purché l’ascoltatore non anteponga la resa sonora di un lavoro ai suoi contenuti, visto che There Is a Goddess in the Forest soffre di una produzione che ne preserva una certa purezza di intenti ma, d’altra parte, finisce per inficiarne non poco la fruizione.

There Is a Goddess in the Forest è la riedizione, a cura della This Winter Will Last Forever, del demo pubblicato dalla one man band italiana Sanguine Pluit, contenente per l’occasione anche le sei tracce presenti nell’ep Never Ending Winter, uscito quello stesso anno.

Il tutto viene presentato come un ambient raw black metal e direi che la definizione non fa una piega: infatti, le frequenti aperture atmosferiche si alternano ad un’interpretazione del black quanto mai minimale, mostrando due volti decisamente differenti dell’approccio alla materia da parte di Polus, musicista pavese alle prese con questo progetto da circa in decennio nel corso del quale ha prodotto diverse uscite di minutaggio ridotto.
L’immersione in un lavoro di questo tipo non è affatto semplice, perché i primi tentativi di ascolto sono fallimentari a causa di un espressione così ruvida ed integralista da apparire quasi irritante: un drumming dai ritmi pressoché immutabili punteggia sovente un rumorismo al quale si mescolano degli inquietanti rantoli, un insieme che viene stemperato a tratti da spunti di ambient “cosmica” (Nature Rising, Transcendent Forest, Magnetic Pathways), questo almeno per quanto riguarda i brani appartenenti al demo dal quale il lavoro prende il titolo. Le tracce provenienti da Never Eding Winter aumentano, se possibile, il livello dell’incomunicabilità manifestata da Polus, andando talvolta a valicare i confini della cacofonia.
Detto questo potrebbe sembrare che tale operazione sia assolutamente fallimentare o comunque da evitare accuratamente, ma in fondo così non è perché, nell’insieme, il tutto acquista un suo esecrabile fascino purché l’ascoltatore non anteponga la resa sonora di un lavoro ai suoi contenuti, visto che There Is a Goddess in the Forest soffre di una produzione che ne preserva una certa purezza di intenti ma, d’altra parte, finisce per inficiarne non poco la fruizione.
Probabilmente, smussando qualche asperità e migliorando sensibilmente la resa sonora, il progetto Sanguine Pluit potrebbe fare un buon balzo in avanti, ma francamente non so se questo sia poi l’intento di Polus, anche alla luce del fatto che un sound di questo tipo, per quanto lo si possa tirare a lucido, non è che possa divenire appetibile alle masse. Per cui, questo è There Is a Goddess in the Forest, e chi apprezza il black/ambient lo ascolti e faccia le proprie opportune valutazioni.

Tracklist:
1. Nature Rising
2. In Silent Astonishment
3. Vibrant Mist
4. Aural Enchantment
5. Transcendent Forest
6. Aural Enchantment 2
7. Magnetic Pathways
8. Elements In Sync
9. Fields
10. Never Ending Winter
11. The Secret Oath
12. Fall
13. Winter Passage 2
14. Astral Sorrow
15. Raw Darkness

Line up:
Polus

SANGUINE PLUIT – Facebook

Sombre Croisade – Balancier des Âmes

I Sombre Croisade difficilmente vedranno mutare il loro status di band di nicchia, ma sono anch’essi annoverabili tra i molti interpreti di un’ortodossia stilistica non sempre foriera di esiti indimenticabili ma che, nella maggioranza dei casi, garantisce la fruizione di lavori ugualmente interessanti.

Ancora dalla fertile scena black metal francese ecco giungere il secondo full length dei Sombre Croisade, duo provenzale formato da Malsain (chitarra e batteria) e Alrinack (voce e basso), musicisti attivi anche in diverse altre band.

Balancier des Âmes non è caratterizzato da spinte sperimentali, come sovente accade a chi approccia il genere in terra d’oltralpe, ma offre uno spaccato abbastanza fedele della materia, con un substrato malinconico che funge da linea guida per un andamento ritmico lineare e di buono spessore, anche se complessivamente privo di sussulti particolari.
Tra i sei lunghi brani offerti, la cui matrice appare fedele ai dettami scandinavi, vanno citati i due episodi centrali (Don Ténébreux e Midiane), che si rivelano leggermente più intensi rispetto alla media, con il primo che si ammanta di una certa tensione dopo un’introduzione acustica, mentre il secondo spicca grazie ad una linea melodica molto bella e relativamente memorizzabile.
I Sombre Croisade difficilmente vedranno mutare il loro status di band di nicchia, ma sono anch’essi annoverabili tra i molti interpreti di un’ortodossia stilistica non sempre foriera di esiti indimenticabili ma che, nella maggioranza dei casi, garantisce la fruizione di lavori ugualmente interessanti e tutt’altro che spiacevoli, come è appunto il caso di Balancier des Âmes.

Tracklist:
1. Renaissance
2. Balancier des âmes
3. Don ténébreux
4. Midiane
5. Voeux illusoires
6. Souffles d’ailleurs

Line-up:
Malsain – Guitars, Drums
Alrinack – Vocals, Bass

SOMBRE CROISADE – Facebook

Howls of Ebb / Khthoniik Cerviiks – With Gangrene Edges ​/​ Voiidwarp

Musica che risulta estrema anche per chi non disdegna abitualmente l’ascolto di generi come il death o il black metal: cacofonica, difficile, blasfema, violenta ma affascinante.

Uno split album che ci presenta due mostruose realtà: il duo statunitense Howls Of Ebb e i death/black metallers tedeschi Khthoniik Cerviiks, alle prese rispettivamente con tre e cinque brani.

With Gangrene Edges e Voiidwarp, così si intitolano le due sezioni dell’opera, insieme formano un occulto e cacofonico inno al male oscuro e senza compromessi, con il duo statunitense che invita ad un rito estremo, un morboso e allucinante esempio di musica malvagia.
Attivi dal 2012, gli  Howls Of Ebb hanno consegnato ai loro seguaci due full length ed un ep, prima di questa alleanza blasfema con la band tedesca, tornando con queste tre visioni di morte e demoni, mostri creati da visionari sacerdoti che racchiudono il tutto in un sound claustrofobico e fuori dagli schemi.
Più in linea con il black/thrash dai rimandi al death metal primigenio è, invece, la proposta dei Khthoniik Cerviiks, una spirale di morte e dolore imprigionata in un sound feroce, violento e diabolico.
Puro male in musica che ha il suo epicentro nei tredici minuti della destabilizzante Spiiral Spiire Stiigmata, suite infernale che racchiude Mercury Deluge e con l’altra lunga Come To The Subeth forma il fulcro malefico della proposta dell’ apocalittico trio.
Musica che risulta estrema anche per chi non disdegna abitualmente l’ascolto di generi come il death o il black metal: cacofonica, difficile, blasfema, violenta ma affascinante.

Tracklist
HOWLS OF EBB – With Gangrene Edges
1. Babel’s Catechism
2. With Gangrene Edges…
3. Bellowed

KHTHONIIK CERVIIKS – Voiidwarp
4. Ketoniik Katechesiis (KC Exhalement 3.0)
5. Spiiral Spiire Stiigmata (including Mercury Deluge)
6. Traumantra
7. Come to the Subeth
8. Paralaxiis (KC Inhalement 3.0)

Line-up
HOWLS OF EBB
RoTn’kbLisK – Drums
zELeVthaND – Vocals, Guitars

KHTHONIIK CERVIIKS
Okkhulus Siirs – Bass, Vocals
Ohourobohortiik Ssphäross – Drums
Khraâl Vri*ïl – Guitars, Vocals

KHTHONIIK CERVIIKS – Facebook

Descrizione Breve

Mork – Eremittens Dal

Eremittens Dal non può essere considerato fondamentale ma neppure derubricato come rappresentazione esclusivamente derivativa: aderente ai codici del genere forse anche più degli stessi padri fondatori, Mork è la fotografia in bianco e nero di un genere che mantiene una sua funzione sia quando espresso tramite spinte innovative, sia quando chi lo suona si pone quale sorta di guardiano e garante della sua ortodossia.

Con il terzo lavoro targato Mork, progetto solista del norvegese Thomas Eriksen, il black metal torna alla casa natia riprendendo le sue sembianze originarie.

Il discorso si potrebbe anche chiudere qui, perché con tali premesse non è certo arduo intuire cosa ci si debba attendere da Eremittens Dal, resta solo da provare a capire quale valenza attribuire a un lavoro di questo tipo e se possa valere la pena di immergersi nel suo ascolto.
La risposta a quest’ultimo quesito è affermativa, perché a fronte di un’originalità pari a zero abbiamo anche a che fare con un musicista che conosce alla perfezione la materia ed opta per esibirne la forma più ortodossa, non per mera convenienza o scarsa ispirazione, ma esclusivamente perché è ciò che corrisponde al suo sentire.
Da tutto questo scaturisce un album a suo modo prevedibile, con un’alternanza regolare tra rallentamenti ed accelerazioni, ma con alcune tracce notevoli come la title track, intrisa da un’austera solennità, e Hedningens Spisse Brodder e Forsteinet I Hat, trascinanti episodi in quota Darkthrone.
Eremittens Dal non può essere considerato fondamentale ma neppure derubricato come rappresentazione esclusivamente derivativa: aderente ai codici del genere forse anche più degli stessi padri fondatori, Mork è la fotografia in bianco e nero di un genere che mantiene una sua funzione sia quando espresso tramite spinte innovative, sia quando chi lo suona si pone quale sorta di guardiano e garante della sua ortodossia.
Tutto ciò finisce per erigere un muro difficilmente valicabile all’interno della cerchia dei potenziali fruitori, collocando da un lato chi accetta l’esistenza del black metal solo se pervaso da spinte avanguardiste o sperimentali, e dall’altra chi ritiene che il compito del genere sia quello di veicolare senza mediazioni il senso di misantropica malinconia che è comune a chi lo suona e a chi lo ascolta: personalmente mi colloco da quest’ultima parte, e ciò mi fa apprezzare non poco l’operato di Thomas Eriksen.

Tracklist:
1. Hedningens Spisse Brodder
2. Holdere Av Fortet
3. Forsteinet I Hat
4. Eremittens Dal
5. I Hornenes Bilde
6. Likfølget
7. Et Rike I Nord
8. I Enden Av Tauet
9. Mørkets Alter
10. Gravøl

Line-up:
Thomas Eriksen

MORK – Facebook

Arckanum – Den Förstfödde

Den Förstfödde chiude degnamente una parabola artistica lunga e qualitativa, e non si sa se il termine di un ciclo possa essere propedeutico all’inizio di un’altra stimolante vicenda musicale; vada come vada, resta solo da attribuire il doveroso plauso a Shamaatae per quanto offerto in tutti questi anni.

Nono full length per Shamaatae e la sua creatura Arckanum, un traguardo importante ed ulteriore tassello posto in quasi un quarto di secolo di storia.

Il musicista svedese ha trovato il suo momento di massimo fulgore nello scorso decennio, in particolare con un album eccellente come ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ, nel quale era riuscito a mettere insieme una sequenza di brani trascinanti con il loro connubio tra la ruvidezza del black e le incisive linee melodiche.
Den Förstfödde dovrebbe essere, secondo quanto dichiarato dallo stesso Shamaatae, l’ultimo atto targato Arckanum e, pur con un certo dispiacere per tale decisione, è innegabile che migliore epilogo non ci sarebbe potuto  essere.
L’album, che liricamente continua a sviscerare un immaginario pagano ed occulto, con riferimenti ampi e mai banali all’affascinante mitologia nordica, mostra una freschezza compositiva che era venuta leggermente meno in lavori come Sviga læ, Helvítismyrkr e Fenris kindir, ai quali sono seguiti quattro anni di silenzio interrotto, appunto, da Den Förstfödde.
La title track apre il lavoro in maniera impressionante, rivelandosi quale sorta di colonna sonora di un arcaico rituale pagano che poi sfocia in un finale pesantemente intriso di doom psichedelico; da ciò si può già intuire che questi tre quarti d’ora non saranno basati esclusivamente sull’ortodossia black metal, ma lasceranno sfogare diversi rivoli creativi di Shamaatae, anche se, dopo l’intenso strumentale Nedom Etterböljorna, si torna ai fasti di ÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞÞ con l’inarrestabile crescendo di Likt Utgårds Himmel, primo dei quattro brani che vedono, proprio come avvenne anche in quell’album, il fondamentale contributo chitarristico di Set Teitan (già nei Dissection e negli Aborym, oltre chitarrista live dei Watain), nostro connazionale ma ormai svedese d’adozione.
Ofjättrad, canzone dotata di un chorus micidiale, incrementa il valore ed il pathos del disco nel quale l’inquieto  intermezzo Ginnmors Drott prepara il terreno alla deflagrante Låt Fjalarr Gala, altra traccia killer di un album che si avvia purtroppo verso la fine a grandi passi, prima con il disturbato black’n’roll di Du Grymme Smed e poi con l’epico incedere della lunga traccia Kittelns Beska, suggello conclusivo dell’opera e (salvo ripensamenti da parte di Johan “Shamaatae” Lahger) di una storia musicale come quella degli Arckanum, nome fondamentale per lo sviluppo della scena black metal svedese, nonostante non abbia mai raggiunto, anche a causa di una minore esposizione mediatica derivante dalla sua natura di one man band, la fama di gruppi quali Dark Funeral, Marduk e Watain, senza tenere conto ovviamente degli inarrivabili Dissection.
Den Förstfödde chiude degnamente una parabola artistica lunga e qualitativa, e non è dato sapere se il termine di un ciclo possa essere propedeutico all’inizio di un’altra stimolante vicenda musicale; vada come vada, resta solo da attribuire il doveroso plauso a Shamaatae per quanto offerto in tutti questi anni.

Tracklist:
1. Den Förstfödde
2. Nedom Etterböljorna
3. Likt Utgårds Himmel
4. Ofjättrad
5. Ginnmors Drott
6. Låt Fjalarr Gala
7. Du Grymme Smed
8. Kittelns Beska

Line-up:
Shamaatae

Guests:
Set Teitan – Guitar in 3. 4. 6. 7.
Darby Laghe – Birch Trumpet in 8.
Ljuder Stefan Westberg – Violin in 5.

ARCKANUM – Facebook/

Onirism – Sun

La ragion d’essere di Sun risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci.

Eccoci alle prese con un nuovo progetto solista, denominato Onirism, appartenente alla scuderia Naturmacht Productions.

Come gran parte del roster della label tedesca, anche la creatura del canadese Antoine Guibert va ad esplorare territori contigui al black metal, nello specifico quelli maggiormente imparentati con sonorità ambient ed atmosferiche.
In tal senso, questo ep intitolato Sun, che arriva dopo un full length ed un altro ep, non apporta particolari novità e la sua ragion d’essere risiede essenzialmente nel suo buon gusto melodico, esaltato da un bel suono di chitarra ed attraversato da tastiere che non sempre paiono essere altrettanto efficaci, apparendo talvolta un po’ “plastificate”.
Nel complesso Sun è comunque un lavoro valido, specie se si apprezzano scelte stilistiche di questo tipo, la cui essenza è basata su tenui melodie appena sporcate dallo screaming e da qualche accelerazione: in effetti la manifestazione d’intenti esibita con un simile monicker viene ampiamente realizzata nei fatti, mettendo sul piatto una mezz’ora abbondante di musica sognante e talvolta dal sentore cinematografico.
Dallo scrigno della Naturmacht negli ultimi tempi è uscito decisamente di meglio, ma il confronto risulta sfavorevole al bravo Antoine più per meriti altrui che per demeriti propri: To The Unknown e la title track sono per esempio due ottimi brani, dalle atmosfere ariose impreziosite da ottimi spunti solisti che depongono a favore delle doti di questo musicista del Quebec, al quale fa difetto forse solo qualche punto in più di “cattiveria”.
Sun è un’opera senz’altro gradevole e a tratti gratificante, ma l’eccellenza dista ancora diversi gradini.

Tracklist:
01.Floating
02.To the Unknown
03.Heart of Everything
04.Attraction
05.Sun

Line-up: Vrath

ONIRISM – Facebook

Enslaved – E

E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza.

Attesissimo ritorno degli Enslaved, uno dei più interessanti gruppi metal degli ultimi anni e non solo, un combo che sta cambiando dalle fondamenta la musica pesante: E è la migliore testimonianza di ciò.

Non sembra, ma sono già passati venticinque anni dal loro esordio Vikingligr Veldi, black metal puro e norvegese, per poi arrivare al secondo Frost, un inno all’orgoglio di essere norvegesi e pagani. Da quel momento gli Enslaved hanno cominciato ad esplorare un orizzonte musicale più vasto di quello originario, che era comunque splendido, arrivando a toccare vette molto alte, mantenendo un percorso artistico molto originale e personale. Tutti i tredici album precedenti degli Enslaved sono meritevoli di attenzione ma, dal disco del 2015, In Times, le cose sono cambiate ulteriormente, poiché per loro quello è stato uno spartiacque, nel senso che può essere considerato un punto di rottura importante, una pietra miliare che ha segnato un prima ed un dopo. In Times è un album di metal estremo progressivo, se si dovesse dare una definizione, nato dall’esigenza di dover chiudere una parte della carriera, unendo il vecchio ed il nuovo per dare poi vita a qualcosa di ancora diverso. E quel qualcosa di nuovo si intitola E: il quattordicesimo disco della più che ventennale carriera di questi musicisti di Bergen può essere considerato quello della libertà totale, nel quale si sono espressi senza aver aver nessun obbligo, se non quello di fare ciò che volevano. Si è parlato e scritto molto intorno alla genesi di questo disco, al cambio operato con In Times che ha fatto perdere parte dei propri fans, dei lunghissimi tour, ma di fronte a questo lavoro tutto viene spazzato. E è uno dei capolavori del genere musicale chiamato metal, è un avanzamento della specie, un immenso universo fatto di note, tenebre, colori e gusti, che va gustato ad occhi rigorosamente chiusi per poter viaggiare nella sua interezza. Fin dalla prima lunga suite Storm Son si rimane affascinati dalla costruzione sonora, pura psichedelia tenebrosa, sempre pienamente e fieramente nordica, come se i vichinghi avessero suonato con i Pink Floyd e Syd Barrett, perché di quest’ultimo qui c’è l’assolutezza di certe soluzioni sonore, un gusto per il surrealismo ed una grazia davvero fuori dal comune. Non volendo assolutamente fare nessuna polemica, posso affermare che avevo apprezzato il precedente In Times solo dopo un po’ di tempo, avendo bisogno di qualche indizio in più per poter assaporare ciò che vi era contenuto. Qui invece è stato amore a prima vista, folgorazione totale, si scappa da Midgard per arrivare direttamente a sentir suonare gli Enslaved in Asgard. La ricchezza strutturale di questo disco è scioccante, in sei pezzi si viene catapultati in quella che a tutti gli effetti un’opera teatrale che travalica la musica, un inno all’unione tra natura e uomo, che è un po’ il sotto testo di tutta la poetica degli Enslaved. E ha al suo interno momenti black metal, cavalcate death, tanta psichedelia, incredibili momenti di organo e sax, in una ricerca totale di un suono altro. Ogni canzone contiene un mondo di generi e sottogeneri al suo interno, tutti legati da un’opera immane di cesellatura perfettamente compiuta. Ascoltando E si apprezza la compiutezza di una visione musicale inedita, perché questo è un disco più estremo anche dei loro esordi black metal, nel quale si osa dalla prima all’ultima nota spingendo la musica estrema in un futuro ancora tutto da costruire, ma che prima non c’era. Magnificenza assoluta per un capolavoro del metal, che potrà non piacere a chi è rimasto tenacemente ancorato alla prima parte della carriera del gruppo di Bergen, e sui gusti non si può davvero discutere, anche perché uno dei motivi della grandezza degli Enslaved è che la loro discografia copre tutta la gamma del metal estremo ed oltre, per cui ognuno può scegliere ciò che gli aggrada maggiormente.
Set the controls for the heart of the sun.

Tracklist
1. Storm Son
2. The River’s Mouth
3. Sacred Horse
4. Axis Of The Worlds
5. Feathers Of Eolh
6. Hiindsiight

Line-up
Ivar Bjørnson | guitars.
Grutle Kjellson | vocals & bass.
Håkon Vinje | vocals & keys.
Cato Bekkevold |drums.
Ice Dale | lead guitar.

ENSLAVED – Facebook