Cemetery Winds – Unholy Ascensions

Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.

Con l’esordio dei Cemetery Winds si torna a respirare l’aria profondamente maligna del death metal old school, ispirato da un’attitudine black metal e valorizzato da bellissime melodie.

Atmosfere abissali, ritmiche potenti e melodie death/gothic si fondono in un sound che richiama a gran voce i primi fondamentali passi degli Amorphis (The Karelian Isthmus/Tales From The Thousand Lakes) ed Edge Of Sanity (Unorthodox) accompagnato dallo spirito malvagio dei Dissection di The Somberlain.
Mica male, direte voi, e infatti Unholy Ascensions è un gran bel lavoro, creato da questa sorta di one man band con a capo J. Lukka (Batteria e chitarra) aiutato da Kari Kankaanpää (Soluthus/Sepulchral Curse) e Marko Ala-Kleme (Nashorn) al microfono, e Juho Manninen (Curimus) al basso.
Prodotto molto bene ed illustrato ancora meglio dall’artista Juanjo Castellano, l’album si sviluppa su otto brani di death metal old school, tradizionalmente scandinavo, ottimamente ricamato da melodie chitarristiche, a tratti reso ancora più sinistro da tappeti di lugubri tastiere e carico di attitudine ed impatto melodic black metal.
Ne esce un’opera affascinante, d’altri tempi sicuramente, ma superlativa se si rimane nel campo atmosferico, il punto di forza di brani sepolcrali come Into The Breathless Slumber, Burials After Midnight o la title track.
Non un brano sotto una media molto alta, non una melodia o una sfuriata di black metal cattivissimo che non sia da portare in offerta sull’altare del genere, mentre il cimitero si popola di anime dannate, i vermi finiscono il lauto pasto e noi premiamo ancora il tasto play, finché che nella nostra stanza non comparirà ai nostri piedi una bocca spalancata e scarnificata, pronta a fare scempio del nostro corpo.
J.Lukka ha fatto davvero un gran lavoro, derivativo quanto si vuole, ma se siete amanti delle band menzionate, Unholy Ascensions è uno dei migliori album di quest’anno, con la benedizione (o maledizione, fate voi) di Jon Nodtveidt ed un plauso da chi la scena l’ha vissuta in tempo reale.

TRACKLIST
1.Dormant Darkness
2.Realm of the Open Tombs
3.Into the Breathless Slumber
4.When Death Descends
5.Burials After Midnight
6.The Storm of Impious Wrath
7.Unholy Ascensions / Outro

LINE-UP
J. Lukka – Drums, Guitar, additional instruments

Session members:
M. Ala-Kleme – Vocals
K. Kankaanpää – Vocals
J. Manninen – Bass

CEMETERY WINDS – Facebook

Wraith Rite – Awaken

La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non fa difetto ai Wraith Rite.

Demo d’esordio per gli spagnoli Wraith Rite, giovane band spagnola che riversa su questi cinque brani una carica incontenibile di entusiasmo ed esuberanza metallica.

D’accordo, da qui a riscrivere la storia dei generi estremi che i nostri cercano di fondere con foga e convinzione ce ne corre, anche perché il demo, in quanto tale, suona esattamente come ce lo si aspetta, ovvero sporco, molto diretto e pieno di approssimazioni quanto di irresistibile vitalità.
In fondo, quando si parla di musica, dipende sempre da quale punto di vista la si vuole approcciare: se dovessimo basarci su tecnica, produzione e sobrietà nell’espressione musicale e visiva, i Wraith Rite non avrebbero speranze; per fortuna c’è sempre un qualcosa di istintivo ed irrazionale che spinge uno naturalmente propenso alla lacrima ascoltando il proprio genere d’elezione (il doom) a prendere in simpatia questo manipolo di giovani madrileni, dei quali potrei (a anche vorrei, tutto sommato) essere il padre, perché intuisco in loro, oltre a una grande passione, delle potenzialità che per ora sono ancora sommerse da un suono ovattato e da scelte stilistiche opinabili.
Partiamo dalla voce della vocalist Dirge Inferno, che alterna uno screaming insufficiente ad un growl in stile brutal senz’altro più accettabile come resa ma che, comunque, c’entra poco con il thrash/black/death esibito con sufficiente proprietà e qualche buona idea nel corso delle prime quattro tracce, con nota di merito per la trascinante Eternal Hunt, mentre fa eccezione lo pseudo doom della conclusiva Hurt Yourself.
Qualche buono spunto chitarristico e sprazzi di di virulento killing instict fanno ritenere tutt’altro che superflua questa uscita, a patto che nelle prossime occasioni i Wraith Rite trovino un giusto compromesso nell’uso della voce e spingano in maniera più decisa sul versante death/black’n’roll che mi pare essere più naturalmente nelle loro corde.
La strada per ritagliarsi un po’ di spazio, anche a livello underground, è ancora  molto lunga e dagli esiti incerti, ma la voglia di provarci di sicuro non manca alla band e, per quanto mi riguarda, questo è sicuramente un dato sufficiente per incoraggiare questi giovani affinché realizzino le proprie aspirazioni.

Tracklist:
1.Eternal Hunt
2.Werewolf’s Moon
3.Beheaded Rider
4.Crown of Bones
5.Hurt Yourself

Line-up:
Vocals: Dirge Inferno
Guitars: Yandros and Soulbutcher
Bass: Schizo
Drums: Morgul

WRAITH RITE – Facebook

Arallu – Six

Gli israeliani Arallu proseguono la loro opera di distruzione a base di un black/death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.

Etichetta : Transcending Obscurity Records
Anno : 2017
Titolo (autore + titolo) :

Quando arrivano proposte di matrice estrema dal Medio Oriente si tende spesso a pensare a band di nuovo conio, visto che, a parte Orphaned Land e Melechesh non è che siano poi molte altre le realtà capaci di guadagnarsi nel recente passato una certa notorietà.

Molte volte, però, il fatto di appartenere ad una scena lontana da quelle canoniche finisce per trarre in inganno come avviene per gli Arallu,  la cui genesi musicale risale addirittura alla fine del secolo scorso.
Six, come è facile intuire, rappresenta appunto il sesto full length del gruppo guidato dal bassista/cantante Butchered (con un passato da live session nei già citati Melechesh), che prosegue così la propria opera di distruzione a base di un black death naturalmente contaminato da pulsioni etniche.
Degli Arallu si apprezzano senz’altro la padronanza della materia ed un approccio abbastanza ruvido e diretto, anche se ogni tanto, quest’ultimo aspetto rende il lavoro un po’ caotico.
In ogni caso diversi brani si rivelano piacevoli mazzate intrise di umori mediorientali che, anche se non sorprendono più come un tempo, si rivelano pur sempre un valore aggiunto in opere di questo tipo, andando a spezzare opportunamente un incedere che, altrimenti, risulterebbe piuttosto monolitico.
Avviene così che episodi come Adonay e Victims of Despair rendano al meglio il potenziale di una band di sicuro spessore,  nei confronti della quale, per chi apprezza la commistione tra metal estremo e musica etnica orientale, potrebbe rivelarsi quanto mai opportuno rivisitare anche la ricca produzione del passato.

Tracklist:
1. Desert Moonlight Spells
2. Only One Truth
3. Adonay
4. Possessed by the Sleep
5. Subordinate of the Devil
6. The Universe Secrets (Six)
7. Victims of Despair
8. Oiled Machine of Hate
9. Philosophers view
10. Soulless Soldier

Line up:
Butchered (Genie King) – Vocals, Bass
Gal Pixel – Guitar and Backing Vocals
Omri Yagen – Guitar and Backing Vocals
Assaf Kasimov – Drums
Eylon Bart – Saz, Darbuka and Backing Vocals

ARALLU – Facebook

Dusius – Memory Of A Man

Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

I Dusius approdano al loro primo disco sulla lunga distanza dopo il demo Slainte del 2013.

I Dusius fanno un folk metal molto veloce e tirato, prepotentemente in zona viking, ben composto e prodotto finemente. Memory Of A Man è un album con un’elaborata storia al suo interno, narrando le avventure di un uomo in epoca antica, che fa molti errori e viene maledetto dagli dei, ma non vi anticipiamo altro perché è molto interessante scoprire l’intera storia. Tutto ciò viene narrato attraverso il potente viking metal dei Dusius, con una doppia voce che funziona molto bene e riesce a dare tonalità diverse a momenti che necessitano di narrazioni diverse. Quello che colpisce è la compattezza del gruppo, la forza collettiva che riesce a scatenare, e anche la brillantezza del suono che, pur essendo cupo, riesce ad elevarsi e ad elevare l’ascoltatore. Notevole anche la visione d’insieme del disco e della missione che si pone il gruppo: i parmigiani hanno un notevole tasso di epicità nella loro musica, e riescono a coniugare molto bene durezza ed aulicità, intessendo una storia classica ma molto attuale, sulla dannazione dell’uomo e sul libero arbitrio, che a volte può essere pesantemente influenzato da potenti fattori esterni. Il lavoro entra di diritto nelle miglior opere del folk viking italiano, e merita diversi ascolti per riuscirne a cogliere tutti gli aspetti e le diverse sfaccettature. Un disco potente sia nella musica che nell’immaginario che suscita, dando l’impressione che il viking folk metal sia il genere preferito dei Dusius, che con queste doti avrebbero fatto bene comunque in qualsiasi ambito.

Tracklist
1. Funeral March
2. Siante
3. Desecrate
4. The Rage of the Gods
5. Worried
6. One More Pain
7. Dear Elle
8. Dead-End Cave
9. Hope
10. The Betrayal
11. Coldsong
12. Funeral March II
13. Hierogamy (Hidden Track)

Line-up
Manuel Greco – Vocals
Rocco Tridici – Guitar
Manuele Quintiero – Guitar
Erik Pasini – Bass
Alessandro Vecchio – Keyboards
Davide Migliari – Flute / Bagpipes
Fabien Squarza – Drums

DUSIUS – Facebook

Urn – The Burning

The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che possiede sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone.

I finlandesi Urn pubblicano il loro quarto album ed è subito massacro, ossa che volano, sangue ovunque e tutto ciò è bellissimo.

Il loro stile musicale è pressoché unico, ma se si devono dare delle coordinate, allora siamo nei pressi black e death, comunque morte e distruzione. Nati nel 1994, gli Urn sono uno dei gruppi da scoprire, perché i loro dischi sono molto belli, ma non se ne parla granché, anche se la risposta per The Burning è già buona, nonostante sia uscito da pochi giorni. Il suono è il frutto della libera rielaborazione di cose già sentite nel metal, ma il loro speed black death è veramente qualcosa di unico. Nel loro maelstorm si posso ascoltare echi dei connazionali Impaled Nazarene, soprattutto per le parti più veloci e furiose, anche per quel retrogusto punk hardcore che accomuna le due realtà finniche. The Burning è un disco che riassume i motivi per cui siamo metallari, poiché la velocità, la cattiveria e l’adrenalina che ha questo disco sono in gran parte i motivi per cui ascoltiamo la musica del caprone. Gli Urn vanno a mille, ma sanno anche fare stop and go, con quella cadenza vocale che ricorda il metal anni ottanta e novanta. La produzione è accurata ma non troppo, perché un’alta fedeltà troppo elevata pregiudicherebbe il tutto. L’ascolto di The Burning diventa compulsivo, come una dipendenza da crack, e anche in questa era di fruizione molto veloce di ogni prodotto fonografico si può sentire e risentire un disco con avidità. Consiglio l’ascolto del disco abbinato al fumetto Lobo della Dc Comics, massacri galattici e metal ovunque.

Tracklist
01 INTRO – RESURRECTION
02 CELESTIAL LIGHT
03 HAIL THE KING
04 MORBID BLACK SORROW
05 SONS OF THE NORTHERN STAR
06 NOCTURNAL DEMONS
07 WOLVES OF RADIATION
08 ALL WILL END IN FIRE
09 FALLING PARADISE
10 THE BURNING

Line-up:
Sulphur Bass, Vocals
Axeleratörr- Lead Guitar
Tooloud- Guitar
Revenant- Drums

URN – Facebook

Fractal Generator – Apotheosynthesis

Questo disco è un’esperienza sonora estrema, nella quale la velocità e la potenza sono notevoli, ma la vera bravura dei canadesi è quella di riuscire a mantenere intatta la melodia nonostante tutto voli intorno a loro, perché le linee melodiche del disco sono in evidenza e davvero particolari.

I Fractal Generator fanno metal davvero estremo, sono super tecnici e non penso siano nemmeno umani.

Prendete i Meshuggah, fondeteli con i Behemoth più veloci, e poi mille deviazioni e fughe. Il suono dei canadesi è volutamente inumano, perché il titolo in greco del disco illustra bene ciò che sono, dato che Apotheosynthesis è il punto rappresentante l’evoluzione dell’umanità attraverso l’integrazione tecnologica, a partire dal quale la stessa non può più considerarsi umana. I Fractal Generator hanno abbondantemente superato questo punto di non ritorno. Questo disco è un’esperienza sonora estrema, nella quale la velocità e la potenza sono notevoli, ma la vera bravura dei canadesi è quella di riuscire a mantenere intatta la melodia nonostante tutto voli intorno a loro, perché le linee melodiche del disco sono in evidenza e davvero particolari. I Fractal Generator compongono le loro canzoni in maniera progressiva, non si torna indietro per fare un ritornello, anche se alcune fasi canore vengono riproposte in diversi momenti. Se ci si concentra un po’, si comprende subito che questo suono non è assolutamente solo caos, ma che, come la vera teoria del caos, ha un ordine insito in sé stesso. Un altro aspetto notevole del disco è che anche se è sonicamente estremo non stufa od obbliga a posare le cuffie, e questo grazie all’alta qualità del tutto. Apotheosynthesis è un album estremamente affascinante, che nasconde innumerevoli tesori e motivi per ascoltarlo e per guardare nei suoi frattali. E il nome del gruppo è molto esplicativo così come il titolo, poiché la loro musica fa nascere figure aliene nel nostro cervello. Grande ristampa del disco precedentemente uscito nel 2015, e recuperato dalla Everlasting Spew Records, alla quale dobbiamo un doveroso ringrazmento. A un centimetro dalla fredda Terra aspettando la dolorosa fine. Dimenticavo : sono in tre, e il disco è anche in download libero sul loro bandcamp.

Tracklist
1.Cycle
2.Face Of The Apocalypse
3.Abandon Earth
4.Into The Unknown
5.Paragon
6.Human
7.The Singularity
8.Synthetic Symbiosis
9.Reflections

Line-up
040118180514
102119200914
040114090512

FRACTAL GENERATOR – Facebook

Rimruna – Der Hatz Entronnen

Algido, solenne ed epico, Der Hatz Entronnen non è affatto un album malleabile, ma riesce ugualmente ad essere avvolgente.

Dopo aver parlato qualche giorno fa dei Farsot, eccoci alle prese con un’altra band tedesca dedita al black metal, i Rimruna.

Il duo berlinese è al suo secondo full length e, tutto sommato, mostra un’altra faccia della stessa medaglia rispetto alla già citata band della Turingia, in quanto  i nostri esplorano invece il lato più tradizionale del genere, anche se si potrebbe definire più di altri orientato alla scuola scandinava: il deciso ricorso alla lingua madre però spazza via ogni dubbio al riguardo, se non bastasse una certa vicinanza ai Lunar Aurora per un suono asciutto ed essenziale, capace d’essere corrosivo e allo stesso tempo sognante, essendo strutturato per lo più su mid tempo in cui la fanno da padroni arpeggi chitarristici minimali ma di notevole efficacia.
Algido, solenne ed epico, con linee melodiche guidate da un tipico tremolo, Der Hatz Entronnen, si snoda lungo quattro lunghe tracce principali, più intro ed outro acustiche, rivelandosi un prodotto in linea con il black di casa Naturmacht, laddove viene preferito un approccio oscuro, dalla registrazione lo-fi che però non ostacola l’ascolto di un lavoro intriso di tematiche naturalistiche.
Der Hatz Entronnen non è affatto un album malleabile, ma riesce ugualmente ad essere avvolgente, con una magnifica title track che racchiude idealmente le migliori caratteristiche dei Rimruna, ennesimi portabandiera di un black metal tedesco il cui livello qualitativo medio non può costituire più una sorpresa.

Tracklist:
1. Unrast
2. Tor der Zeit
3. Wirren
4. Der Hatz entronnen
5. In Ewigkeit versunken
6. Erwacht aus leerem Schlummer

Line-up:
Hiverfroid – Drums
Wintergrimm – Guitars, Vocals

RIMRUNA – Facebook

Tchornobog – Tchornobog

La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.

Assolutamente in linea con la non convenzionalità di tutte le uscite targate I, Voidhanger, Tchornobog è il passo d’esordio dell’omonimo progetto solista di Markov Soroka, relativamente già noto per il suo operato con altri due monicker di sua esclusiva competenza, Aureole e Slow (quest’ultimo ovviamente da non confondersi con l’omonima creatura di Déhà).

Tchornobog è una traslitterazione di Chernobog, misconosciuta divinità slava, la cui unica testimonianza va ricercata nelle Chronica Slavorum, scritte nel XII secolo dal religioso tedesco Helmold: al riguardo pare che le popolazioni “devote” a tale culto fossero solite mettersi in cerchio e passarsi una sorta di calice, all’interno del quale venivano scagliate le maledizioni che sarebbe state appunto convogliate ed indirizzate nella giusta direzione da questo misterioso “dio nero”.
La musica che Soroka riversa in questo lavoro rappresenta il suo personale calice, un contenitore al cui interno trovano spazio tutte lo forme di metal estremo avvinghiate tra loro in un mortale abbraccio e rese in maniera convulsa, dissonante, ossessiva e, in definitiva, terribilmente inquietante.
In quattro brani che superano abbondantemente l’ora di durata come fatturato complessivo il giovane musicista di origine ucraine, ma di stanza negli Stati Uniti, esibisce senza troppe mediazioni una forma di doom che poggia su basi funeral, sferzata da brusche accelerazioni di stampo black death, e quasi del tutto priva di qualsiasi parvenza melodica, stante l’ossessivo incedere della strumentazione, in gran parte ad opera di Soroka che, saggiamente, si fa aiutare da diversi ospiti tra i quali spiccano l’ottimo Magnús Skúlason alla batteria ed il guru del doom più oscuro e temibile Greg Chandeler, alla voce in The Vomiting Tchornobog e Non-existence’s Warmth. Proprio quest’ultima traccia pare offrire un minimo di tregua all’incessante evocazione del dolore e del male che gli strumenti e le voci minacciose paiono lanciare senza soluzione di continuità, e ciò è appunto il cardine del lavoro: un’inesorabile opera di erosione psichica che, mai come in questo caso, vive in simbiosi con uno stile musicale difficilmente definibile.
Tchornobog è un’opera di intensità spasmodica, che annichilisce e percuote, attraendo fatalmente quando con la mente si cerca invece, razionalmente, di sottrarsi al suo letale abbraccio: un ascolto complesso e che chiaramente non riscuoterà favori in maniera univoca, ma non c’è dubbio che il bravo Markov abbia messo sul piatto un lavoro che non potrà lasciare indifferenti.

Tracklist:
1.I: The Vomiting Tchornobog (Slithering Gods of Cognitive Dissonance)
2.II: Hallucinatory Black Breath of Possession (Mountain-Eye Amalgamation) 12:32
3.III: Non-existence’s Warmth (Infinite Natality Psychosis)
4.IIII: Here, At The Disposition of Time (Inverting A Solar Giant)

Line-up:
Markov Soroka – all instruments, concepts and vocals
Magnús Skúlason – percussion & acoustic drums

With:
Greg Chandler – additional vocals on I & III
Sofia Hedman – saxophone on III
Hannar Gretarson – trumpet and cello
Lillian Liu – grand piano on III
Elizabeth Barreca & Markov Soroka – the Vomiting Choir

TCHORNOBOG – Facebook

Farsot – Fail-Lure

Destinati a restare comunque una band di nicchia,  i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.

I Farsot appartengono al nutrito sottobosco di gruppi tedeschi capaci di fornire un’interpretazione del black metal in linea con le sonorità tipiche in voga nella loro nazione.

Fail-Lure e solo il terzo full length all’interno di una storia iniziata addirittura alla fine del secolo scorso, un dato che la dice lunga sulla relativa prolificità unita ad un approccio, anche visivo, sicuramente fuori dagli schemi da parte della band della Turingia. Per il resto sorprende affatto ascoltare un lavoro che mantiene al meglio le attese, con il suo sound austero, essenziale, intriso di spinte avanguardiste ma anche di notevoli spunti melodici.
Personalmente ho ricevuto ben poche delusioni dai gruppi tedeschi dediti al black in questi anni, e i Farsot non fanno certo eccezione con questa raccolta di brani mediamente piuttosto lunghi ma sufficientemente ricchi di cambi di forma e ritmo per mantenere desta l’attenzione dell’ascoltatore.
Il settimo ed ultimo di questi, A Hundred to Nothing,  fa storia a sé, offrendo oltre venti minuti di musica ambient inquieta e dalle interessanti  pulsioni elettroniche nella sua parte centrale.
Destinati a restare comunque una band di nicchia,  i Farsot con il loro operato sottolineano con forza la solidità e la profondità dell’intera scena black germanica.

Tracklist:
1.Vitriolic
2.Circular Stains
3.With Obsidian Hands
4.Undercurrents
5.The Antagonist
6.A Hundred to Nothing

Line-up:
v.03/170 – Bass, Keyboards
R 215k – Drums
Pi: 1T 5r – Guitars
3818.w – Guitars
10.XIXt – Vocals

FARSOT – Facebook

Antichrist – Sinful Birth

L’album ha il pregio di non annoiare, investendo l’ascoltatore con una tempesta estrema dall’impatto di un uragano sulla costa, mentre le raggelanti note su cui si basa Sinful Birth si insinuano in noi come virus infetti e mortali.

Il maligno questa volta preferisce usare il thrash metal per divulgare il suo verbo tramite il quintetto svedese Antichrist.

Il gruppo nordico licenzia tramite la I Hate il suo secondo lavoro , successore dell’ormai lontano Forbidden World, uscito sei anni fa: thrash metal old school, estremizzato da furia distruttrice di stampo black è il sound offerto da questi devoti al signore oscuro e portatori di violenza, morte e male in musica.
Venom, Possessed e primi Slayer, irrobustiti da cattiveria ed attitudine black metal alla primi Darkthrone ed il gioco è fatto: un gioco mortale e pericolosissimo, un assalto ed un’aggressione al bene e a tutte le sue forme, mentre l’odio vince e la presa di potere da parte delle forze oscure è vicina.
Nel suo genere l’album funziona, l’assalto senza compromessi e l’impatto sono da gruppo che nel male ci sguazza, la velocità è da infarto e le atmosfere gelide creano momenti di puro disfacimento concettuale e sonoro.
Poi, tra violenza, velocità e perfidia, si arriva al momento clou di questo lavoro, lo strumentale Chernobyl 1986, dieci minuti di angosciante e violenta colonna sonora del disastro nucleare più devastante della storia, raccontato tramite il metal estremo degli Antichrist.
E’ indubbio che un brano del genere da solo alzi il livello di un album che dalla sua ha il merito di non annoiare, investendo l’ascoltatore con una tempesta estrema dall’impatto di un uragano sulla costa, mentre le raggelanti note su cui si basa Sinful Birth si insinuano in noi come virus infetti e mortali.

TRACKLIST
1.Instruments of Sadism
2.Savage Mutilations
3.The Entity
4.Under the Cross
5.The Black Pharaoh
6.Sinful Birth
7.Burned Beyond Recognition
8.Chernobyl 1986
9.Fall of the Temple of Solomon

LINE-UP
Sven Nilsson – Drums
Filip Runesson – Guitars
Steken – Vocals
Gabriel Forslund – Guitars
Gobbe Henningsson – Bass

ANTICHRIST – Facebook

Suicide Forest – Descend Into Despair

Come da ragione sociale e titolo dell’album, la materia qui trattata è un depressive black dal buon impatto melodico ed atmosferico e contaminato da una altrettanto gradita componente ambient.

Suicide Forest è il progetto solista dello statunitense A. Kruger, che con Descend Into Despair giunge alla sua prima prova su lunga distanza, di fatto costituita, però, dall’unione edita in cassetta dalla Folkvangr di due precedenti ep.

Come da ragione sociale e titolo dell’album, la materia qui trattata è un depressive black dal buon impatto melodico ed atmosferico e contaminato da una altrettanto gradita componente ambient.
Niente di nuovo all’ombra delle cripte, quindi, ma sicuramente un’interpretazione della materia credibile ed efficace, caratterizzata dalla consueta produzione lo-fi ma che comunque mantiene le urla disperate di Kruger al di sopra della linea di galleggiamento, mentre gli strumenti sottolineano impietosi il dolore e l’impotenza di una vita sulla via del definitivo disfacimento.
Proprio il buon gusto melodico rende quest’album sicuramente meritevole di attenzione, e tutto sommato la prova vocale neppure troppo esasperata (a parte qualche ululato sparso qua e là) favorisce l’assimilazione di un’opera che, essenzialmente, consta di tre lunghi brani, The Embrace of Solitude, This Silence (picco dell’opera con le sue atmosfere più drammatiche punteggiate anche dal pianoforte) e Woods of Indifference, attorniati da altri cinque più brevi episodi di ambient atmosferica.
Suicide Forest si rivela così un altro nome da mettere in evidenza da parte di chi ama queste sonorità, in virtù di buone doti di scrittura ed un approccio neppure troppo soffocante; peraltro va detto che Kruger, a differenza di gran parte dei suoi corrispettivi, non si sottrae alle esibizioni dal vivo costituendo all’uopo una vera e propria band, e questa è senz’altro un’ulteriore nota di merito anche se, ovviamente, ne potranno godere solo gli appassionati d’oltreoceano.

Tracklist:
1. A Declaration of Misanthropy
2. The Embrace of Solitude
3. This Silence
4. A Sobering Reflection
5. Not for a lack of trying…
6. Woods of Indifference
7. The Pain of Existence
8. Sea of Glass

Line-up:
A. Kruger: All Instruments, vocals, lyrics, mixing and mastering

SUICIDE FOREST – Facebook

Wederganger/ Urfaust – Split

Split album per due delle band olandesi più interessanti in ambito black metal “sui generis”.

I Wederganger sono un gruppo relativamente nuovo, essendo attivo dal 2013 ma con una discografia racchiusa di fatto negli ultimi due anni, con il full length Halfvergaan Ontwaakt e tre split, incluso quello in questione.
Il trio, che vede all’opera in studio il chitarrista MJWW e i due vocalist Alfschijn (clean) e Botmuyl (harsh), avvalendosi poi di altri musicisti in sede live, è autore di una black oscuro, con sconfinamenti nel doom e nel gothic: la voce pulita, in effetti, conferisce al sound una vena epica che lo scream ingabbia subito in associazione all’incremento dei ritmi. Questo avviene per lo più nella ottima Heengegaan, mentre in De Gebrokene l’operato dei Wederganger si fa più essenziale e diretto, mantenendo comunque intatte certe sue peculiarità.
Degli Urfaust non c’è molto da dire se non che si tratta di una delle realtà più longeve e particolari della scena estrema dei Paesi Bassi, con una discografia affollata di lavori brevi assieme a quattro full length, l’ultimo dei quali, Empty Space Meditation, è stata una delle migliori uscite delle scorso anno nonostante, come è normale per band di questa fatta, molti la pensino esattamente al contrario. E’ sempre difficile quindi sapere cosa aspettarsi dal duo IX/ VRDRBR, e in effetti l’evocativa Zelfbestraffinstendenz en Occulte Raadsels non ha quasi nulla a che vedere con il black, avvicinandosi per ritmiche ed umori ad una sorta di post punk disturbato da pulsioni metalliche, mentre, tanto per non smentirsi, De Daimonische Mensch è uno strumentale dalle connotazioni inquietanti e sperimentali.
Per quanto ritenga personalmente gli split album un prodotto di norma interlocutorio, a prescindere dalla bontà delle band coinvolte e dalla qualità musicale esibita, devo ammettere che questa ventina di minuti abbondanti di materia estrema obliqua e anticonvenzionale mi ha convinto del tutto, per cui questa compenetrazione tra Wederganger e Urfaust potrebbe risultare oltremodo appetibile, specie per chi apprezza il sempreverde formato in vinile.

Tracklist:
1.Wedergenger – Heengegaan
2.Wedergenger – De Gebrokene
3.Urfaust – Zelfbestraffinstendenz en Occulte Raadsels
4.Urfaust – Hypnotisch Bevel – De Daimonische Mensch

Line-up:
WEDERGANGER
MJWW – Guitars, Vocals (backing)
Alfschijn – Vocals (clean)
Botmuyl – Vocals (harsh)

URFAUST
VRDRBR Drums
IX Guitars, Vocals

WEDERGANGER – Facebook

URFAUST – Facebook

Nokturnal Mortum – Verity

Uno splendido ritorno dopo otto anni con una opera maestosa e affascinante, ricca di folk e musica estrema … “i’ll meet you in ancient darkness ”

Ci sono band che, lentamente, si ammantano di un alone di leggenda, proponendo la loro arte con pazienza, centellinando con cura le loro uscite, senza fretta.

E’ questo il caso dei Nokturnal Mortum, band ucraina di Kharkiv, che dal 1995 con il demo Twilightfall ha aperto la propria carriera improntata su un black metal dalle forti tinte symphonic; nel corso degli anni, guidati dal leader Varggoth, hanno svelato la loro arte con splendidi lavori come Goat Horns, Lunar Poetry e altre piccole gemme.
Dopo otto anni da The Voice Of Steel, altro fulgido lavoro che consiglio di recuperare, ritornano con una prova “diversa” che forse non è altro che la sublimazione di un percorso singolare all’ interno della scena BM. Non possiamo sapere cosa ci svelerà il futuro ma l’ attuale presente, con Verity, presenta in settantaquattro minuti un’opera che miscela radici BM, suoni heavy e una forte componente folk, mai così presente nelle loro precedenti uscite; i cinque artisti creano, con l’aiuto di una gran quantità di strumenti (cello, violino, bandura, dulcimer, sopilkas, jaw harp), un suono denso, maestoso, epico, intrecciato dove non vi è mai una netta distinzione tra i generi, ma tutto è fuso in modo naturale da un songwriting sempre molto ispirato.
Le vocals si sovrappongono con chorus molto suggestivi e, alternando clean e harsh vocals, generano un’atmosfera molto particolare: la componente estrema nel suono non è preponderante ma è ben bilanciata con quella folk e forse questo potrebbe non essere di totale gradimento ai true blacksters; il lavoro porta lentamente ad assuefazione (anche io al primo ascolto non ne ero rimasto conquistato) e, tramite una lenta assimilazione di tutti gli ingredienti usati, garantisce qualità alla musica e al suo ricordo.
La qualità del songwriting è eccelsa, brani come la lunga Molfa ricchi di idee mai forzate, ma molto naturali: la misteriosa e oscura Song of the snowstorm, la potente e primordiale Wolfish berries, la evocativa Lira e la maestosa Night of the gods, veramente un capolavoro, forgiano quell “ancient darkness” che la band declama come obiettivo di questo affascinante viaggio.
Una splendida cover e un booklet degno di un re devono invogliarvi ad ascoltare ed acquistare questa opera incredibile da parte di una leggenda.

Tracklist
1. I’ll Meet You in Ancient Darkness (Intro)
2. Molfa
3. With Chort in My Bosom
4. Spruce Elder
5. Song of the Snowstorm
6. Wolfish Berries
7. In the Boat with Fools
8. Wild Weregild
9. Lyre (Komu Vnyz cover)
10. Black Honey
11. Night of the Gods
12. Where Do the Wreaths Float Down the River? (Outro)

Line-up
Knjaz Varggoth – Vocals (lead), Guitars, Keyboards, Bass
Bairoth – Drums
Rutnar – Bass, Vocals (backing)
Jurgis – Guitars, Vocals (backing)
Hyozt – Keyboards

NOKTURNAL MORTUM – Facebook

Hands Of Thieves – Feasting On Dark Intentions

Davvero niente male questo primo passo degli Hands Of Thieves, e del resto ogni tanto c’è bisogno di lasciarsi scuotere per bene da qualcuno che non vada troppo per il sottile, come fanno questi ragazzi dell’Oregon.

Feasting On Dark Intentions è il titolo del debutto degli interessanti Hands Of Thieves: uscito originariamente in versione tape lo scorso anno (Transylvanian Tapes), ha visto prima una sua riedizione in vinile (Baneful Genesis Records) ed infine in questo mese di luglio quella in cd (Hellthrasher Productions).

Il gruppo proveniente da Portland vede al suo interno due musicisti che abbiamo già incrociato negli Ephemeros (funeral sludge band autrice dell’ottimo All Hail Corrosion nel 2013) nelle persone del vocalist
Josh Greene e del chitarrista Jesse Dylan Aspy: in questo caso il sound si sposta decisamente verso un black doom aspro, nel quale una componente sludge è sempre ben presente ma viene efficacemente contrapposta all’asprezza sia delle vocals che dell’approccio sonoro, grezzo e selvaggio come sovente, al di là dell’oceano, riescono ad offrire nel migliore dei modi.
Il lavoro, come si può intuire, non è roba per palati raffinati, in quanto i quattro brani, mediamente abbastanza lunghi, oscillano tra sfuriate black e fangosi rallentamenti che reprimono alla nascita ogni tentazione melodica: ne consegue che, in entrambe le fasi, il sound risulti abbastanza diretto e trascinante, seppure tutt’altro che orecchiabile.
La prima e l’ultima traccia (Wrath Weaver e Conduit of Grief) sono i due episodi che più impressionano favorevolmente, anche per questa loro alternanza ritmica che trova il suo trait d’union nella rabbia sorda che aleggia su tutto il lavoro.
Davvero niente male questo primo passo degli Hands Of Thieves, e del resto ogni tanto c’è bisogno di lasciarsi scuotere per bene da qualcuno che non vada troppo per il sottile, come fanno questi ragazzi dell’Oregon.

Tracklist:
1. Wrath Weaver
2. Violated at Heart
3. Sun Worker
4. Conduit of Grief

Line up:
Adam Wheeler – Bass
J. Reid – Drums
Jesse Dylan Aspy – Guitars
Taylor Robinson – Guitars
Josh Greene Vocals

HANDS OF THIEVES – Facebook

Svartsyn – In Death

Tre quarti d’ora di musica austera, incompromissoria e priva di sbocchi melodici è ciò che Ornias ci offre, prendere o lasciare.

Svarstyn è uno dei monicker storici del black metal svedese, avendo mosso i suoi primi passi quasi in contemporanea con le più ben note e famigerate band norvegesi.

Ornias, ormai divenuto da oltre un decennio a tutti gli effetti l’unico detentore del marchio, prosegue imperterrito la sua opera di distruzione come se il tempo non fosse mai trascorso e, nella nazione confinante, le “stavkirke” continuassero allegramente ad ardere.
Tutto questo porta inevitabilmente a considerare In Death, nono full length degli Svartsyn, il classico lavoro capace di dividere gli ascoltatori a seconda della loro appartenenza alla categoria di chi vede il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto.
Infatti, sono certo che chi ama il black metal a prescindere non potrà che esaltare la coerenza e la competenza di Ornias nel maneggiare la materia, mentre chi lo ritiene un genere che ha ormai esaurito da tempo la propria spinta propulsiva potrà esibire In Death quale tangibile esempio di asfittica ripetitività.
Come sempre la verità sta nel mezzo, dove peraltro mi colloco io che, pur senza appartenere alla cerchia degli appassionati puri e crudi, ritengo che il black abbia tutt’oggi più d’una buona ragione d’essere: In Death è un album che non potrà non piacere a chi ha familiarità con questo tipo di sound, che fa del suo pervicace anacronismo punto di forza e debolezza allo stesso tempo.
Tre quarti d’ora di musica austera, incompromissoria e priva di sbocchi melodici è ciò che il buon Ornias ci offre, prendere o lasciare: ecco, rispetto ai primi lavori manca inevitabilmente quell’urgenza compositiva che si traduceva in una furia iconoclasta a tratti tangibile e che, qui, si fa rivedere sostanzialmente nel trittico finale dell’album, partito invece in maniera un po’ troppo trattenuta, se si fa eccezione per la notevole opener Seven Headed Snake.
Wilderness Of The Soul, Black Thrones Of Death e Exile In Death, infatti, sono tracce che fanno ampiamente intuire la caratura e la storia di chi le ha composte ed eseguite, colme come sono di gelida misantropia che, davvero, non sembra solo di facciata.
Così, dovendo scegliere se gettare o meno dalla torre Ornias, decido senza alcun tentennamento di continuare ad ospitarlo nella buia stanza posta più in alto, affinché continui a comporre a nome Svartsyn un black metal d’autore, sperando che, nel frattempo, riesca a recuperare un po’ di quell’ispirazione che in quest’ultimo album pare essere andata parzialmente perduta.

Tracklist:
1. Seven Headed Snake
2. Dark Prophet
3. With Death
4. The White Mask
5. Wilderness Of The Soul
6. Black Thrones Of Death;
7. Exile In Death

Line-up:
Ornias

SVARTSYN – Facebook

Heresiarch – Death Ordinance

Morte, rumore e dolore, il tutto grazie ad un gruppo che è uno dei pilastri dell’underground estremo, e sono titoli conquistati sul campo con cattiveria e sudore.

I neozelandesi Heresiarch fanno metal estremo come pochi altri al mondo.

La loro mistura di black e death lanciati come un carrarmato a folle velocità maciullando tutto e tutti, ne ha fatto un gruppo molto amato da chi ama prendere calci in faccia dal metal. La loro musica spinge al limite l’ascoltatore, come un padre maligno che educa il figlio al male, e costui è contento di bagnarsi le mani di sangue. Death Ordinance è la descrizione delle lotte tribali di un’umanità dilaniata da trent’anni di guerra anche nucleare, e che vede nella sopravvivenza fisica l’unico scopo di vita. L’uomo regredisce, o forse torna solo al suo essere bestia, e lotta con tutte le proprie forze per annientare il suo simile, che è la minaccia più grande alla propria sopravvivenza. Tutto questo viene reso in maniera molto vivida e realistica dagli Heresiarch, che con il loro personalissimo balck death metal schiacciasassi saturano l’atmosfera, creando picchi qualitativi e di tensione davvero notevoli. Non ci sono mai cadute di tensione, tutto è caos e rumore, come e più dei loro dischi precedenti. Morte, rumore e dolore, il tutto grazie ad un gruppo che è uno dei pilastri dell’underground estremo, e sono titoli conquistati sul campo con cattiveria e sudore. La produzione libera al meglio le forze maligne del gruppo, e il futuro immaginato nel disco è qualcosa che potrebbe essere assai plausibile a causa della natura bestiale dell’uomo. Una possibile catarsi è lasciarsi ad un grande disco di questi neozelandesi, che hanno trovato una via tutta loro, che li ha portati ad essere uno dei migliori gruppi underground del globo. Intensità altissima.

Tracklist
1. Consecrating Fire
2. Storming Upon Knaves
3. Harbinger
4. Ruination
5. The Yoke
6. Iron Harvest
7. Lupine Epoch
8. Righteous Upsurgence
9. Desert of Ash

Line-up
N.H – Vocals
C.S – Guitars
N.O – Drums
J.B – Bass

HERESIARCH – Facebook

Wintersun – The Forest Seasons

Anche se i fans aspettavano il nuovo Time II, saranno sicuramente soddisfatti da questa nuova ed interlocutoria fatica targata Wintersun, un gruppo ormai divenuto di culto nell’universo della musica estrema.

La natura, il cambio delle stagioni nella foresta come metafora della vita, benvenuti nel nuovo monumentale lavoro di casa Wintersun, tornati dopo i fasti di Time, opera magna licenziata ormai cinque anni fa.

Per Time II si dovrà ancora aspettare, dopo la raccolta di fondi ed il raggiungimento di quasi cinquantamila euro sulla piattaforma Indiegogo a cui verranno aggiunti i proventi di questo lavoro, molto bello anche se non raggiunge il livello assoluto del suo predecessore.
Non mi si fraintenda, comunque anche The Forest Seasons vale tutti i soldi spesi, continuando la tradizione del gruppo finlandese e del verbo musicale del suo leader Jari Mäenpää, epic folk metal nobilitato da sinfonie e parti estreme death/black, con quattro mini suite per quasi un’ora immersi nelle foreste nordiche, protagonisti del passaggio e del cambiamento che avviene da una stagione all’altra.
L’ album parte alla grande con le due parti di Awaken From The Dark Slumber (Spring), ma è l’estate con il suo caldo abbraccio a regalare le prime vere emozioni: The Forest That Weeps è uno spettacolare affresco folk epico, che il gruppo colora con note estreme e sinfonie ariose, mentre l’autunno si avvicina, si fanno spazio le zone d’ombra e il black metal è il miglior modo per iniziare a descrivere i colori che si oscurano come il manto di foglie che fa da tappeto a tutta la foresta.
La neve comincia a cadere e tutto si trasforma in una distesa bianca come i capelli di un uomo in prossimità della vecchiaia.
Eternal Darkness (Autumn), si nutre di black metal e swedish death, ma l’arrivo dell’inverno porta una vena ancor più melanconica e suggestiva, mentre il bianco mantello poggiato sul mondo si ghiaccia e avvolge tutto in un silenzio ovattato.
Loneliness (Winter) ritorna all’epico incedere sinfonico di marca Wintersun che accompagna la natura e l’uomo verso quella che sarebbe una nuova rinascita, in un ciclo ininterrotto nel tempo.
Anche se i fans aspettavano il nuovo Time II, saranno sicuramente soddisfatti da questa nuova ed interlocutoria fatica targata Wintersun, un gruppo ormai divenuto di culto nell’universo della musica estrema.
Per chi non conoscesse ancora il sound proposto dal gruppo finlandese, preparatevi ad un vulcano metallico che vomita Children Of Bodom, Dimmu Borgir, Dissection ed Ensiferum in una sola devastante lava.

Tracklist
01. Awaken From The Dark Slumber (Spring) – Part I The Dark Slumber – Part II The Awakening
02. The Forest That Weeps (Summer)
03. Eternal Darkness (Autumn) – Part I Haunting Darkness – Part II The Call of the Dark Dream – Part III Beyond the Infinite Universe – Part IV Death
04. Loneliness (Winter)

Line-up
Jari Mäenpää – Vocals, Guitars, Keyboards, Bass
Kai Hahto – Drums
Teemu Mäntysaari – Guitars, Vocals
Jukka Koskinen – Bass, Vocals
Asim Searah – Guitars, Vocals

WINTERSUN – Facebook

Bereft of Light – Hoinar

Quella marchiata Bereft Of Light è musica dal grande impatto emotivo, che non può lasciare indifferenti per la sua aura tragica stemperata dalle frequenti rarefazioni acustiche.

Quello di Daniel Neagoe è un nome caro a tutti gli appassionati del funeral/death doom più atmosferico e melodico, genere che ha contribuito a spingere verso vette qualitative difficilmente superabili con gli Eye Of Solitude prima, e con i Clouds più recentemente.

Il musicista rumeno è, però, un artista nel senso più autentico del termine e la sua ispirazione pare attingere ad un pozzo senza fondo, anche quando il genere non è quello che gli ha dato la maggiore visibilità.
Del resto il nostro non è nuovo ad incursioni nel black metal, prima con i Sidious assieme ad altri suoi compagni negli Eye Of SOlitude, poi nei Vaer assieme al suo storico sodale Déhà e, infine, in un precedente progetto solista denominato Colosus, che però, probabilmente è stato soppiantato da questo nuovo denominato Bereft Of Light.
In Hoinar, Daniel prende dichiaratamente le mosse dalla corrente cascadiana che è stato uno degli sviluppi recenti più efficaci e segnanti in ambito black, rendendo peculiare e ben riconoscibile il sound in gran parte della scena nordamericana: ovviamente il tutto viene eseguito da uno che ha scritto un album di rara drammaticità come Canto III e l’umore del lavoro non può non risentirne, portandosi appresso ben delineato il proprio marchio stilistico e conferendogli più d’una sfumatura depressive, a partire dalla scelta di uno screaming disperato che solo nella meravigliosa Freamăt trova un suo contraltare nelle clean vocals.
L’opera consta fondamentalmente di tre brani portanti (Legamânt, Freamăt e Tarziu), oltre a due tracce strumentali di ambient atmosferico (Uitare e Pustiu), esibendo anche un giusto senso della misura ed evitando di saturare l’ascoltatore con una durata eccessiva.
Del resto, quella marchiata Bereft Of Light è musica dal grande impatto emotivo, che non può lasciare indifferenti per la sua aura tragica stemperata dalle frequenti rarefazioni acustiche, eseguite in maniera limpida quanto lineare e propedeutiche ai tipici crescendo che sono parte integrante dello stile di Neagoe, resi ancor più evocativi dall’utilizzo compatto e all’unisono di tutta la strumentazione assieme alla voce. Detto di Freamăt , resa più meoldica e relativamente accessibile proprio dalle parti di cantato pulito, Legamânt e Tarziu sono brani intrisi di una drammaticità a tratti parossistica, nei quali il dolore tracima da un songwritibng sempre ad altissimo livello.
Del resto il doom ed il depressive black sono solo due maniere leggermente diverse per esprimere la propria sensibilità artistica da parte di un musicista come Daniel Neagoe che, davvero, oggi può essere considerato uno dei due (l’altro è Déhà, ma che ve lo dico a fare …) più influenti ed attivi in un settore musicale che sarà pure di nicchia (sicuramente lo è in Italia, purtroppo) ma che resta ugualmente uno degli strumenti di elezione per raccontare le paure, le sofferenze e le miserie dell’umana esistenza.

Tracklist:
I – Uitare
II – Legamânt
III – Pustiu
IV – Freamăt
V – Târziu

Line-up:
Daniel Neagoe – everything

BEREFT OF LIGHT – Facebook

Neve – Tales From The Unknown

Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.

Prima uscita discografica per i napoletani Neve, autori di un black atmosferico e melodico dalle buone prospettive ma ancora da rifinire e limare in più di un aspetto.

Clouds of melancholy ci accoglie riportandoci di peso alle sonorità dei primi Old Man’s Child, band di quel Galder che poi diverrà membro stabile dei ben più famosi Dimmu Borgir, però già a metà del brano si coglie la volontà dei ragazzi partenopei di non accodarsi ad un modello precostituito, provando ad inserire qualche variazione sul tema, rarefacendo il sound e preparando il terreno alla successiva traccia This Ancient Cliff, episodio dai tratti sognanti e contraddistinto da un bell’impatto melodico.
Indubbiamente è proprio questo il punto di forza sul quale i Neve dovrebbero sviluppare poi tutto il resto della loro idea compositiva, perché il potenziale evocativo che si riesce a cogliere in diversi passaggi, disseminati nei vari brani, viene talvolta affossato da un’esecuzione ancora perfettibile e da una produzione che va di pari passo.
Interessante, in Tales From The Unknown, si rivela peraltro l’utilizzo del basso, molto più in evidenza rispetto ai normali parametri del genere, assieme ad un approccio volto a ricercare soluzioni tutt’altro che scontate (emblematica in tal senso la componente acustica evidenziata in Perpetual Nightmare).
In sintesi, questo primo passo dei Neve, al netto delle screpolature evidenziate, mostra più di un dato incoraggiante, in particolare perché in questo caso quello che deve essere rifinito non è tanto lo sviluppo compositivo quanto la sua messa in pratica, un aspetto destinato a progredire naturalmente con il passare del tempo e l’acquisizione di ulteriore esperienza.

Tracklist:
1.Clouds Of Melancholy
2.This Ancient Cliff
3.The Night
4.So Many Times
5.Perpetual Nightmare
6.Pure

Line-up:
Raffaele Ferrara – Vocals, lyrics, keyboard, drum programming
Emanuele Landri – Guitars
Alessandro Stasio – Bass