Reveal – Overlord

Il sound di Overlord ovviamente non si discosta dai parametri storici del genere con una serie di cavalcate potenti e melodiche, ispirate alla scena power tedesca, ma che tra lo spartito non mancano di richiamare il power scandinavo che affiancò quello tedesco negli anni di maggior successo.

Per gli amanti del power tedesco e nord europeo che ultimamente si sentono poco considerati dal mercato metallico, ecco che arriva in soccorso la nostrana Wormholedeath, che distribuisce il nuovo e secondo lavoro dei Reveal, band fondata dal chitarrista spagnolo Tino Hevia (Darksun, Nörthwind ), raggiunto in questa avventura dal singer svedese Rob Lundgren.

Overlord non delude le aspettative dei fans del genere, a partire dagli ospiti che affiancano la band, dai nomi importanti almeno per chi si nutre di pane e power metal, come Marcos Rodriguez dei Rage, Tom Nauman dei Primal Fear e Marcus Siepen dei Blind Guardian.
Il sound di Overlord ovviamente non si discosta dai parametri storici del genere con una serie di cavalcate potenti e melodiche, ispirate come scritto alla scena power tedesca, ma che tra lo spartito non mancano di richiamare il power scandinavo che affiancò quello tedesco negli anni di maggior successo di molti gruppi diventati icone come Gamma Ray, Rage, Stratovarius e Blind Guardian.
Ottima la prestazione del quotato singer, vero animale heavy/power alle prese con una serie di brani lineari, dall’alto tasso melodico, magari fuori tempo massimo rispetto al volubile mercato, ma perfetto per scavare solchi nel cuore dei fans.
Si parte alla grande con le prime quattro tracce, tra cui spicca l’irresistibile appeal orientaleggiante dell’opener The Name of Ra e la graffiante The Crussaders: i Reveal mettono sul piatto la loro ricetta, magari poco personale ma assolutamente godibile, d’altronde il genere è questo e farsi avviluppare dalle ritmiche di Path Of Sorrow e dalle aperture melodiche che attraversano tutti i brani è un attimo.
It’s Only Show ha un tiro hard rock, quasi aor nel chorus, Road To Newerending ha un taglio progressivo, mentre siamo già alla fine di questo ottimo lavoro consigliato a tutti gli amanti dei suoni melodic power, suonato bene, prodotto ancora meglio e dotato di un grande appeal.

Tracklist
01. The Name Of Ra
02.- I’m Elric
03.- Master of Present and Past
04.-The Crussaders
05.- My Pain
06.- Metal Skin
07.- Path of Sorrow
08.- It’s only a Show
09.- Remember my Words
10.- Road of Never ending
11. (bonus track) It’s only a Show (ft. Saeko)

Line-up
Rob Lundgraen – Vocals
Tino Hevia -Guitars
David Figuer – Lead Guitars
Jorge Ruiz -Bass
Elena Pinto – Keyboards
Dani Cabal – Drums

REVEAL – Facebook

Redwolves – Future Becomes Past

L’album ha un sapore particolare, sempre in bilico fra passato, presente e futuro, innovando ma anche inserendosi nella via nordica al rock pesante.

La Danimarca è sempre stata una terra fertile per quanto riguarda la musica heavy rock, ed è infatti la casa dei Redwolves.

Il loro debutto sulla lunga distanza, Future Becomes Past è un disco impressionante per quanto riguarda il suono, un heavy psych rock che porta questa tendenza musicale nel futuro, con un groove molto coinvolgente ed incalzante. I danesi possiedono in gran misura le stimmate del gruppo heavy rock di classe, riescono a macinare riff di grande sostanza che sono la colonna portante del loro disco fondendosi con la particolare voce di Rasmus Cundell, vera e sofferta. Qui dobbiamo aprire un capitolo a parte, poiché proprio Rasmus è stato vittima di un violento pestaggio la notte dell’ultimo dell’anno del 2016, e i testi e la sua voce riportano le tracce profonde che ciò ha lasciato su di lui, perché non è facile rimettere tutto a posto. Infatti la musica dei Redwolves possiede un’immanente senso di malinconia verso il mondo, come se solo il vibrare deille chitarre e della batteria potesse salvarci, anche solo per i pochi minuti di una canzone. Questo disco è un bel balsamo per l’anima ma anche per il corpo perché con questi ritmi non è facile stare fermi, grazie anche a ritornelli che rimangono impressi nella mente e nelle gambe.
L’album ha un sapore particolare, sempre in bilico fra passato, presente e futuro, innovando ma anche inserendosi nella via nordica al rock pesante. I Redwolves possiedono molte soluzioni e le usano tutte, confezionando un prodotto molto al di sopra della media, ben strutturato ed altamente godibile. Certamente nel loro suono è presente anche la tradizione americana all’hard rock, ma viene rielaborata qui in maniera diversa, integrandola con quella scandinava alla quale i danesi sono contigui. Ci sono momenti di luce e momenti di ombre, ma il messaggio globale e di godersi la vita fin che si può, perchè i casini sono dietro l’angolo. Future Becomes Past è un lavoro che piacerà ad ascoltatori di aree diverse oltre a chi apprezza il il rock, perché questa è musica alla quale bisogna solo dare una possibilità, anche per testi profondi e mai scontati.

Tracklist
1. Plutocracy
2. Rigid Generation
3. The Abyss
4. Fenris
5. The Pioneer
6. Voyagers
7. Farthest From Heaven
8. Temple Of Dreams

Line-up
Rasmus Cundell – vocals
Simon Stenbæk – guitar
Nicholas Randy Tesla – bass
Kasper Rebien – drums

REDWOLVES – Facebook

Imminence – Turn The LIght On

Un disco che avrà sicuramente un buon riscontro commerciale, ma che in eredità non lascia niente, anzi in alcuni momenti persino irrita per la ripetitività delle sue strutture sonore.

Il terzo disco degli svedesi Imminence può essere considerato come il punto di partenza di chi voglia addentrarsi nelle sonorità metalcore maggiormente vicine all’alternative e alle cose più melodiche.

In Turn The Light On troviamo tutti gli stereotipi più commerciali e glamour del metalcore : melodie accattivanti, cori da concerto e tanto pop, tanto al punto che sarebbe meglio definire questo genere pop metal, più che metalcore. Dischi come questo sono super prodotti, e dal vivo non sono facili da replicare, ma visto il successo dei concerti degli svedesi si può affermare che vi riescano. Turn The LIght On ha ogni cosa al suo posto, le canzoni scorrono bene, ma è tutto diretto ad uso esclusivo di un pubblico giovane. Questo suono è molto vicino ad essere il nuovo emo, nel senso di emotional, prendendo come esempio gli inglesi Bring Me The Horizon e le loro schiere di ragazzine adoranti. Nulla di male in ciò, ma gruppi come loro e gli Imminence sono davvero difficili da accostare al metal, eppure sono una delle cose che tengono in piedi il mercato della musica dura. Infatti la sussidiaria della Nuclear Blast Records, la Arising Empire, pubblica questo album, ma nel suo catalogo c’è di molto meglio e soprattutto di maggiormente accattivante. Per chi cerca la durezza e il groove del metalcore questo è il posto sbagliato, mentre chi cerca il pop metal fatto bene potrebbe trovare ciò che cerca, anche se si potrebbe fare molto meglio. Un disco che avrà sicuramente un buon riscontro commerciale, ma che in eredità non lascia niente, anzi in alcuni momenti persino irrita per la ripetitività delle sue strutture sonore.

Tracklist
1. Erase
2. Paralyzed
3. Room To Breathe
4. Saturated Soul
5. Infectious
6. The Sickness
7. Death of You
8. Scars
9. Disconnected
10. Wake Me Up
11. Don’t Tell a Soul
12. Lighthouse
13. Love & Grace

Line-up
Eddie Berg – vocals/violin
Harald Barrett – guitars
Christian Höijer – bass
Peter Hanström – drums

IMMINENCE – Facebook/

Nocturnus AD – The Paradox

Lo straordinario ritorno di una band che ha fatto la storia, non solo del death floridiano e mondiale, con un album che definire strepitoso e magistrale è dire poco.

Il ritorno dei Maestri. Non ci sono altre parole.

I Nocturnus solcarono i cieli del death metal durante gli anni Ottanta (due demo storici e pionieristici) e Novanta (la trilogia costituita da The Key del ’91, Thresholds del 1992 e dal mini omonimo del ’93, senza dimenticare Ethereal Tomb, uscito nel ’99 su Season of Mist). Il loro approccio all’estremo era personale, e particolarissimo: abbinavano infatti ai classici e più puri canoni del death made in Florida tastiere e sintetizzatori, con un taglio – anche in sede di liriche, coltissime ed ispirate a Asimov e Crowley, tra gli altri – fantascientifico e dalla resa sonora tanto splendida, quanto maestosa. Nel corso del decennio successivo, la band fu ribattezzata After Death: di nuovo altri demo, ri-registrati poi nel 2007 in occasione del lovecraftiano e stupendo Retronomicon, pubblicato dalla benemerita Iron Pegasus, un capolavoro di articolata magnificenza, il cui messaggio trova, ora, perfetto compimento con questo The Paradox, uscito a nome Nocturnus AD. Le nove composizioni del disco – definirle canzoni sarebbe sia ingiusto sia riduttivo, così come sceglierne alcune – materializzano un discorso compositivo ed esecutivo di impressionante maturità artistico-musicale, con trame che risultano varie e concettuali, senza perdere un’oncia dell’essenza di matrice tradizionalmente death. L’interplay chitarre-tastiere, supportate da una sezione ritmica alla Atheist-Cynic, trascina l’ascoltatore in un vortice siderale di evoluzioni strabilianti: l’ideale punto di incontro fra techno-death e progressive. I Voivod del death – ma, anche qui, la definizione ci appare un po’ semplicistica e non rende piena giustizia al quintetto americano – continuano pertanto la loro originalissima e creativa esplorazione di territori sonori rimasti troppo a lungo vergini: riff di marca Dark Angel-Slayer vengono implementati da soluzioni virtuosistiche e magniloquenti che riprendono il discorso dello space rock per estremizzarlo in una chiave futuristica e iper-tecnologica, elettronica e sinfonica nel medesimo tempo. Scale minori, cambi di tempo, complessità armonica, precisione e violenza, costruzione di architetture labirintiche e complesse (eppure fruibili, sia pure con la dovuta attenzione e ripetuti ascolti), rimandi alla narrativa orrorifica del grande Howard Phillips Lovecraft (Aeon of the Ancient Ones), richiami al passato (Paleolithic, The Return of the Lost Key), poliritmi crimsoniani e scrittura stratificata: sono questi i gioielli della corona, che i Nocturnus AD meritano di cingere sul capo. Precession of the Equinoxes è dedicata all’astronomia, segnamente al fenomeno celeste definito anticamente aberrazione delle stelle fisse e studiato scientificamente dal newtoniano James Bradley, nel primo Settecento inglese. Un’ulteriore conferma della superiore, raffinata statura intellettuale dei cinque di Tampa. Per chi scrive – e, si badi bene, al di là di generi e stili – uno dei più grandi dischi degli ultimi quindici anni almeno. Arte oscura per anime nere, veramente. O, il che è lo stesso, fantascienza esoterico-occulta resa con i segreti alchemici del pentagramma.

Tracklist
1- Seizing the Throne
2- The Bandar Sign
3- Paleolithic
4- Precession of the Equinoxes
5- The Antechamber
6- The Return of the Lost Key
7- Apotheosis
8- Aeon of the Ancient Ones
9- Number 9

Line-up
Belial Koblak – Guitars
Demian Heftel – Guitars
Daniel Tucker – Bass
Josh Holdren – Keyboards
Mike Browning – Drums / Vocals

NOCTURNUS AD – Facebook

Vale Of Pnath – Accursed

Accursed regala momenti esaltanti, non si contorce in inutili e stucchevoli perizie tecniche fini a se stesse, ma si destreggia tra il bombardamento a tappeto di note con una disinvoltura che ha del sorprendente.

Tornano gli statunitensi Vale Of Pnath, quintetto del Colorado che con Accursed, nuovo ep licenziato dalla Willowtip Records, mostra il lato più melodico del technical death metal.

La band di Denver, infatti, accomuna la bravura strumentale con un talento melodico ed una sagacia compositiva davvero sopra le righe e queste sei tracce ne confermano tutta la bravura.
Ventotto minuti, durata che per molti vuol dire full length, dove i Vale Of Pnath ci investono con ondate di death metal tecnico e melodico, suonato a velocità proibitiva ma perfettamente leggibile nel suo sali e scendi tra appeal melodico e devastanti parti ultra tecniche.
Growl che si pazza perfettamente nel campo del melodic death metal, ed un lavoro ritmico e chitarristico di categoria superiore fanno di The Darkest Gate e degli altri brani (splendidamente devastante Obsidian Realm) gemme estreme di assoluto valore. Accursed regala momenti esaltanti, non si contorce in inutili e stucchevoli perizie tecniche fini a se stesse, ma si destreggia tra il bombardamento a tappeto di note con una disinvoltura che ha del sorprendente.Un ep che non lascia scampo, perfetto per saggiare la forma del gruppo in attesa di nuovi sviluppi.

Tracklist
1.Shadow and Agony
2.The Darkest Gate
3.Skin Turned Soil
4.Accursed
5.Audient Void
6.Obsidian Realm
7.Spectre of Bone

Line-up
Vance Valenzuela – Guitars
Harrison Patuto – Guitars
Reece Deeter – Vocals
Andy Torres – Bass

VALE OF PNATH – Facebook

Soulline – The Deep

The Deep vive di un’insieme di ispirazioni e dettagli che fanno di questa tracklist uno degli esempi migliori del genere, sbaragliando i lavori precedenti e confermando i Soulline come gruppo di notevole levatura tra quelli di seconda fascia, in un genere ancora in grado di regalare grosse soddisfazioni.

Con qualche mese di ritardo sull’uscita parliamo dell’ultimo album degli svizzeri Soulline, già apparsi sulla nostra webzine in occasione dell’uscita di Welcome My Sun, precedente lavoro del gruppo che vedeva Dan Swanö alla produzione, così come Peter Tägtgren, altro guru del metal estremo scandinavo, si era occupato di quella di We Curse, We Trust, terza fatica licenziata nel 2012.

Il melodic death metal, genere che offre ormai poco in termini di originalità, ma come tutti i generi che gravitano nel mondo metal, sa regalare opere di spessore quando il songwriting è di altissimo livello come in questo caso.
La band svizzera, d’altronde, ha l’esperienza necessaria per sapere quali corde toccare per non passare inosservata agli amanti di queste sonorità: grandi melodie, cascate di note metalliche, appeal al massimo per la musica prodotta che rimane legata a doppia mandata con il Gothenburg sound e ali gruppi che ne hanno decretato il successo.
Grazie all’ottima tecnica e a belle canzoni ci si dimentica che gli anni novanta sono passati da un pezzo, con gli In Flames che hanno cambiato la loro carta d’identità svedese con quella americana e a difendere l’onore del death metal melodico scandinavo sono rimasti i soli Soilwork ed At The Gates.
The Deep vive di un’insieme di ispirazioni e dettagli che fanno di questa tracklist uno degli esempi migliori del genere, sbaragliando i lavori precedenti e confermando i Soulline come gruppo di notevole levatura tra quelli di seconda fascia, in un genere ancora in grado di regalare grosse soddisfazioni.

Tracklist
01.Leviathan
02.Cool Breeze
03.Nightmare
04.The Fall
05.Filthy Reality
06.Into Life
07.The Game
08.Deepest Me
09.The Deep End
10.Still Mind

Line-up
Ghebro – Vocals
Lore – Guitars
Marco – Guitars
Miles – Bass
Matt – Drums

SOULLINE – Facebook

Shallow Grave – Threshold Between Worlds

In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.

Quello dei neozelandesi Shallow Grave è uno sludge doom portato alle sue estreme conseguenze.

La band di Auckland, in questa sua seconda fatica risalente allo scorso autunno e successiva di circa cinque anni rispetto all’esordio omonimo, esibisce il volto meno suadente (ammesso che ve ne sia uno} del genere optando per un’esplorazione nel suo ambito più rumoristico e sperimentale.
In meno di quaranta minuti i quattro brani riversano sull’ascoltatore una montagna di fango intersecata da sequenze droniche, il tutto con la necessaria chiarezza d’intenti per evitare di rendere il tutto un coacervo di suoni indistinguibili.
Anche nella lontana Auckland si vuole rovistare i meandri più profondi dell’esistenza fino a rivoltarne le viscere, e questo gli Shallow Grave lo fanno molto meglio della gran parte delle band affini per approccio e modus operandi. Un motivo che basta e avanza per dare una chance a questo ottimo Threshold Between Worlds.

Tracklist:
1. The Horrendous Abyss
2. Garden of Blood
3. Master of Cruelty
4. Threshold Between Worlds

Line-up:
Brent Bidlake – Bass
James Bakker – Drums
Tim Leth – Guitars, Vocals
Michael Rothwell – Guitars, Vocals

SHALLOW GRAVE – Facebook

West of Hell – Blood of the Infidel

Blood of the Infidel è una colata di acciaio fuso, un lavoro che risulta un tagliente e massiccio esempio di heavy metal statunitense, pregno di iniezioni thrash.

Centrano il bersaglio al secondo colpo gli West of Hell, quintetto canadese che offre quasi cinquanta minuti di puro esaltamento metallico per tutti i true defenders sparsi per il globo.

La band in verità non è sicuramente una laboriosa fabbrica di musica metallica, risultando attiva dall’alba del nuovo millennio ma arrivata solo ora al secondo full length, sette anni dopo il debutto intitolato Spiral Empire.
Licenziato dalla Reversed Records, Blood of the Infidel è una colata di acciaio fuso, un lavoro che risulta un tagliente e massiccio esempio di heavy metal statunitense, pregno di iniezioni thrash.
I cliché ci sono tutti, e tutti impegnati a solleticare i pruriti metallici dei fans di Judas Priest, Iced Earth e Sanctuary in qualche sfumatura progressiva, tragicamente drammatica come nella migliore tradizione U.S. power.
I brani, dal minutaggio medio lungo, vivono di refrain heavy, fughe thrash metal devastanti ed aperture melodiche dall’appeal ottimo per un’atmosfera che rimane tesissima per tutti i cinquanta minuti di durata, divisi in sette brani che, dall’opener Hammer And Hand, passando per Infidels e la semi ballad in crescendo Dying Tomorrow, mettono in mostra un cantante che risulta un animale metallico in forma smagliante, un gran lavoro delle chitarre ed una sezione ritmica chirurgica.
Per gli amanti dell’heavy metal vecchia scuola di matrice statunitense, Blood of the Infidel è un album da non trascurare assolutamente.

Tracklist
1.Hammer and Hand
2.Chrome Eternal
3.Infidels
4.The Machine
5.Dying Tomorrow
6.The Dark Turn
7.Mankind Commands

Line-up
Chris ”The Heathen” Valagao – Vocals
Sean Parkinson – Lead Guitar
Kris Shulz – Lead Guitar
Jordan Kemp – Bass
Paul Drummond – Drums

WEST OF HELL – Facebook

Dun Ringill – Welcome

Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Gran bel disco di stoner doom da parte di veterani della scena underground svedese di Gothenburg.

La sezione ritmica degli Order Of Israfel, ottimo gruppo con suoni simili, il bassista Patrik Andersson Winberg e il batterista Hans Lilja, decide di radunare un po’ di amici per suonare, durante l’anno sabbatico che si è preso il gruppo. Nasce così questa avventura, nella quale il primo ad essere chiamato è il cantante dalla possente voce Tomas Eriksson, militante negli Intoxicate ed ex membro dei Grotesque. A seguire arrivano i tre chitarristi, perché i Dun Ringill hanno tre chitarre che gli danno un suono unico, Tommy Stegemann dei Silverhorse, Jens Florén dei Lommi e un passato da chitarrista dal vivo per i Dark Tranquillity, e Patric Grammann, SFT, Neon Leon. Il risultato è un disco con un groove bellissimo ed avvolgente, una dimostrazione molto valida di come si possa fare musica pesante con gusto ed eleganza, creando qualcosa di nuovo in generi e sottogeneri molto inflazionati, ma Welcome è un piccolo gioiello. Molto forte nella musica, ma soprattutto nell’immaginario della tradizione folkloristica svedese, ma dimenticate i vichinghi perché qui siamo dal 1600 in giù, tra fate, folletti e foreste. Anche l’horror ha la sua importanza ed il tutto concorre a creare un disco che si fa ascoltare molto volentieri, con un importante peso specifico, in bilico fra doom, stoner e metal. La musica dei Dun Ringill è insieme affascinante, eterea e fisica, composta e suonata da musicisti appassionati e di alta levatura tecnica. Le tre chitarre fanno la loro parte, creando un suono davvero incredibile, e tutto il gruppo è più che all’altezza. Le canzoni hanno un ritmo che fondendosi con la metrica delle parole ottiene un ritmo che non ti fa scappare. Anche la produzione è notevole (Julien Fabré ha fatto un ottimo lavoro) e a curare l’artwork troviamo il loro amico Niklas Sundin, autore davvero di un ottimo lavoro. Un disco frutto di passione e di amicizia, e di un livello musicale molto alto per un progetto davvero interessante.

Tracklist
1. Welcome To The Fun Fair Horror Time Machine
(feat. Emil Rolof on Piano + Björn Johansson on Flute)
2. Black Eyed Kids (feat. Emil Rolof on Mellotron)
3. Open Your Eyes (And See The Happiness And Truth)
4. The Door
5. Snow Of Ashes
6. The Demon Within (feat. Per Wiberg on Hammond + Matilda Winberg on Intro Vocals)

Line-up
Thomas Eriksson – Vocals
Hans Lilja – Drums
Patrik Andersson Winberg – Bass
Jens Florén – Guitar
Tommy Stegemann – Guitar
Patric Grammann – Guitar

DUN RINGILL – Facebook

Hellraiser – Heritage

Heritage è un lavoro riuscito, imperdibile per i fans dell’heavy metal di ispirazione maideniana.

Nel segno dell’heavy metal più classico gli umbri Hellraiser pubblicano il loro secondo full length per Underground Symphony.

La band, che affonda le sue origini all’alba del nuovo millennio, dà un seguito a quello che fino ad ora era il suo unico lavoro, il debutto Revenge Of The Phoenix, uscito cinque anni fa.
Heritage è una sorta di concept in cui ogni brano è una storia proveniente da diversi luoghi e da epoche diverse, un’eredità culturale che l’uomo si tramanda da secoli e che di fatto è la storia di tutti i popoli della terra.
L’album è stato registrato da Cesare Capaccioni ai Barfly Studio, mixato da Ronny Milianowicz agli Studio Seven e masterizzato da Tony Lindgren ai Fascination Street Studios, una squadra che ha valorizzato il gran lavoro del quintetto.
L’album è composto da undici brani di heavy metal ispirati dal sound maideniano, una serie di cavalcate metalliche old school, assolutamente classiche sia nell’impatto che in un sound magari non originale, ma perfetto nel suo seguire i dettami del leggendario gruppo inglese in opere come Powerslave ed in parte il bellissimo Brave New World.
I musicisti forniscono prestazioni eccellenti e Heritage corre verso la sua conclusione senza stancare, tra cavalcate heavy, solos taglienti e mid tempo da brividi come la robusta ed evocativa Delvcaem.
Ancora le ottime Plagues Of The North, Fairy Veil e la conclusiva Lady In White spiccano in una tracklist che non trova ostacoli, rendendo Heritage un lavoro riuscito, imperdibile per i fans dell’heavy metal di ispirazione maideniana.

Tracklist
1.Heritage
2.Plagues of the North
3.Ritual of the Stars
4.Fairy Veil
5.Mother Holle
6.Preludio
7.Delvcaem
8.Balance of the Universe
9.Voice in the Wind
10.Zephyr’s Palace
11.Lady in White

Line-up
Cesare Capaccioni – Vocal
Michele Brozzi – Guitar
Marco Tanzi – Guitar
Francesco Foti – Bass
Riccardo Perugini – Drums

HELLRAISER – Facebook

Altar Of Oblivion – The Seven Spirits

L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica.

Per gli amanti della musica del destino di stampo classico, il ritorno dei danesi Altar Of Oblivion non può che essere un appuntamento imperdibile in questa prima metà dell’anno.

Gruppo di culto nella scena epic doom, il quintetto torna sul mercato tramite la Shadow Kingdom Records (label che di sonorità classiche se ne intende) a distanza di tre anni dall’ep Barren Grounds e a sette dall’ultimo lavoro su lunga distanza, Grand Gesture of Defiance.
Con il suo heavy doom metal dal piglio epico, anche questo nuovo The Seven Spirits non delude le aspettative grazie a sette capitoli che, come da tradizione, si rivelano impregnate della pesante atmosfera del doom ed esaltate da sfumature epiche.
L’ottima prova del singer Mik Mentor, teatrale ed ispirato dai cantanti che hanno fatto la storia del genere, è assecondata da un buon songwriting che permette a brani come Solemn Messiah, Gathering At The Wake e Grand Gesture Of Defiance di farsi ricordare positivamente dall’ascoltatore.
L’unione tra heavy metal old school, doom classico ed epic metal è la ricetta usata dagli Altar Of Oblivion, in apparenza semplice ma non così facile da mettere in pratica: la band danese riesce nell’intento di regalare agli amanti del genere un album piacevole e senza sbavature, portando nel nuovo millennio le sonorità dei vari Candlemass, Count Raven, Atlantean Codex e Solitude Aeturnus.

Tracklist
1.Created in the Fires of Holiness
2.No One Left
3.Gathering at the Wake
4.The Seven Spirits
5.Language of the Dead
6.Solemn Messiah
7.Grand Gesture of Defiance

Line-up
Mik Mentor – Lead & backing Vocals
Martin Meyer Sparvath – Guitars, backing Vocals & additional Keyboards
Jeppe Campradt – Guitars and Keyboards
Cristian Nørgaard – Bass
Danny Woe – Drums

ALTAR OF OBLIVION – Facebook

Minority Sound – Toxin

La dote principale dei Minority Sound è quella di offrire un metal industrializzato ma, allo stesso tempo, ben fruibile attingendo ai nomi di punta del settore senza richiami espliciti ma fondendo efficacemente il tutto.

Ritroviamo dopo quattro anni i praghesi Minority Sound alle prese con il loro ottimo elettro metal, già efficacemente portato all’attenzione dell’audience con tre album nel corso di questo decennio ultimo dei quali appunto Drowner’s Dance.

Toxin è un nuovo tassello nell’opera del quartetto che va a consolidare un percorso magari non particolarmente innovativo ma dalla notevole qualità media ed altrettanta consistenza.
La dote principale dei Minority Sound è quella di offrire un metal industrializzato ma, allo stesso tempo, ben fruibile attingendo ai nomi di punta del settore senza richiami espliciti ma fondendo efficacemente il tutto.
Se vogliamo esemplificare al massimo, i cechi riescono a collocarsi in un ideale punto d’incontro tra tra l’orecchiabilità elettronica dei Deathstars, il riffing squadrato dei Rammstein, la vis sperimentale ed evocativa dei primi Fear Factory  e la visionarietà dei Mechina; ovviamente l’esito cambia a seconda del dosaggio degli ingredienti utilizzati, come dimostra la cadenzata e catchy title track che porta con sé persino rimandi dei Moonspell del controverso (non per me) Sin/Pecado.
L’elettronica ruffiana di Bipolar non lascia scampo, così come in definitiva tutti questi otto brani composti ed eseguiti con la perizia di chi il genere lo conosce e lo manipola con disinvoltura.
Tutto questo dovrebbe bastare ed avanzare per collocare i Minority Sound tra gli ascolti preferiti quando si vuole ascoltare metal moderno e ragionevolmente infuso di elettronica

Tracklist:
1. Deeds of Hate
2. Scarecrow
3. Toxin
4. Bipolar
5. Sunlight. Be Me! Sunlight Begone!
6. Love & Mayhem
7. Disconnected Sympathy
8. Empty Sands

Line-up:
Otus Hobst – Guitar
Ales Hampl – Vocals, guitar
Petr Blaha – Bass
Tomas “Dharm” Furst – Drums

MINORITY SOUND – Facebook

Dreams Of The Drowned – Dreams Of The Drowned I

Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura.

Dreams Of The Drowned è il progetto avantgarde black metal di Camille, musicista francese che l’ha fondato nel 2007 e che, dopo svariati demo, è approdato al debutto sulla lunga distanza.

Dreams Of The Drowned I è un disco che contiene moltissime cose, dal black metal più avanzato, allo shoegaze, alla new wave e a tanto altro.
Le coordinate sono in continuo movimento e il suono generato da Camille, che in pratica fa tutto da solo tranne l’utilizzo della voce di Aldrahn nella cover Midnattskogens Sorte Kjern dei Dodheimsgard, uno dei gruppi di riferimento del progetto. Ascoltando il disco non si sa mai cosa verrà dopo, e ciò giova enormemente alla soddisfazione dell’ascoltatore. Si potrebbe intendere il lavoro come una narrazione di un qualcosa che noi umani riusciamo a malapena a percepire, ed infatti viviamo tutto come un sogno, un riverbero della realtà. Nonostante ci siano moltissime strade diverse in questo disco, Camille riesce a dar vita a qualcosa di organico e ben strutturato, con una coerenza ed una forza invidiabili. Il progetto raggiunge vette notevoli e assai interessanti, il suono è qualcosa che crea dipendenza e non annoia mai, in una continua mutazione di suoni. La cosa che colpisce di più è questo muro sonoro, un monolite che cambia colore e calore a seconda delle accezioni che gli dà Camille, il quale oltre che essere un musicista totale è anche un notevole produttore. Come spesso accade nei dischi più illuminati, il black metal è un punto di partenza per qualcosa che va oltre e che abbraccia molte vie musicali, trattando di vecchie leggende europee, con una forte valenza della natura. Vi sono dei momenti di autentico satori, si raggiunge la luce passando per le tenebre, trascinati dalla forza superiore di questa musica, fatta con passione e grande talento. Ci è voluto molto tempo per arrivare al debutto su lunga distanza di un musicista che impressionerà più di un appassionato di musica pesante che guarda avanti e che garantisce molti ascolti, nei quali si scoprirà sempre qualcosa di nuovo.

Tracklist
01 Dream I
02 Conciliabules
03 The Revolutionary Dead
04 Real and Sound
05 Vieilles Pierres
06 Crawl of Concretes
07 Danced
08 Midnattskogens Sorte Kjerne (Dodheimsgard cover)
09 Dream III

Line-up
Camille – Guitars, Vocals, Bass, Drums, Synths

DREAMS OF THE DROWNED – Facebook

Half Life – I’ve Got To Survive

I quattro potentissimi brani sono sorretti da un gioco di squadra che fa degli Half Life una band compatta nella quale ciascun membro si ritaglia uno spazio importante nell’economia del sound, dai cori epici ai taglienti solos di scuola priestiana fino a ritmiche mai troppo veloci ma potentissime.

Con un passato da cover band di classici dell’heavy metal, arrivano al debutto gli Half Life con I’ve Got To Survive, ep di quattro brani licenziato con il prezioso contributo a livello promozionale della Club Inferno Ent.

La band, nata nel 2015, è passata dall’essere un quintetto all’attuale formazione a quattro elementi con Andrea Lippi alla voce, Manolo Cogoni alla batteria, Gianluca Olraitz al basso e Guerrino Mattioni alla chitarra.
Questo ep esibisce chiari riferimenti old school, con l’heavy metal tradizionale che si arricchisce di sfumature epiche e già dalla title track posta in apertura si capisce che il gruppo laziale gioca duro.
I quattro potentissimi brani sono sorretti da un gioco di squadra che fa degli Half Life una band compatta nella quale ciascun membro si ritaglia uno spazio importante nell’economia del sound, dai cori epici ai taglienti solos di scuola priestiana fino a ritmiche mai troppo veloci ma potentissime.
Un heavy metal duro e puro viene esaltato dalla forza bruta di Killing Words, dall’epica atmosfera di Only Shadows e dal crescendo metallico della conclusiva The Judgement: buona la prima per gli Half Life, band che merita d’essere seguita dagli amanti del metallo di scuola ottantiana.

Tracklist
1. I’ve Got To Survive
2. Killing Words
3. Only Shadows
4. The Judgement

Line-up
Andrea Lippi – Vocals
Manolo Cogoni -Drums
Gianluca Olraitz – Bass
Guerrino Mattioni – Guitars

HALF LIFE – Facebook

Sühnopfer – Hic Regnant Borbonii Manes

La one man band di Ardraos ritorna dopo cinque anni, proponendoci il suo medieval black metal che ci immerge in atmosfere ancestrali, colme di furore e melancolia.

Ricompare, dopo cinque anni di silenzio, la creatura di Florian Denis, in arte Ardraos, con il terzo full length del suo progetto solistico Suhnopfer, mantenendo la stessa forza e ispirazione: attitudine black innanzitutto, con un suono che ci porta indietro nel tempo, ci astrae dalla realtà per farci immergere in un mondo estremo fatto di oscurità, ferocia e dove sono miscelati ad arte atmosfere e paesaggi medievali con la forza del black primigenio.

Ardraos conosce perfettamente la materia, vive e suona black da una vita, considerando la sua militanza come batterista in band importanti come Peste Noire, Christicide (da recuperare assolutamente i loro due album) e Aorlhac. I testi in francese antico aggiungono quel quid particolare a un opera che ripercorre con grande energia il filone del Medieval Black Metal, cripta dove si nascondono band come i francesi Darkenhold, gli svizzeri Ungfell, gli americani Obsequiae, tra gli altri. Ardraos compone e suona tutti gli strumenti e ci propone da sempre un black viscerale, sporco, basato su ritmiche forsennate e incessanti intessute con un grande lavoro di chitarra abile a ricreare atmosfere gelide e feroci, impreziosite da momenti acustici e classici di grande bellezza; break madrigaleschi disegnano atmosfere melanconiche prima che le chitarre riprendano il sopravvento. Sette brani, di durata considerevole tranne l’intro, che hanno un andamento piuttosto simile, ma possiedono un feeling e un’esaltazione considerevole: fino dall’ opener Penitences et Sorcelages con la sua atmosfera e i suoi cambi di tempo si è proiettati in un altro mondo dove rifulgono atmosfere ancestrali, nostalgiche e fiere. Lo scream di Ardraos è furore allo stato puro, è indomabile e invincibile e marchia a fuoco ogni brano; colpisce inoltre il fatto che Ardraos suoni bene ogni strumento e il risultato sembra più il frutto di una band e non di un solo musicista. Lavoro esaltante, a patto di prestarvi la dovuta attenzione e competenza.

Tracklist
1. Invito Funere (Introduction)
2. Pénitences et sorcelages
3. Hic Regnant Borbonii Manes
4. La Chasse Gayère
5. Je vivroie liement
6. Dilaceratio Corporis
7. L’Hoirie de mes ancêstres

Line-up
Ardraos – Everything

SUHNOPFER – Facebook

FIDDLER’S GREEN – Heyday

Sedicesimo album per i re dello Speed Folk teutonico. Una carriera formidabile, costruita su ben 16 album, che dal folk basilare delle origini, ha saputo evolversi nel sound attuale, aggressivo ma melodico, incalzante ma soave ed armonioso nel contempo, decretandone per la band il successo planetario e divenendo fonte di ispirazione nell’ambito del genere Celtic Folk.

Quando nei primi anni ’80 nacque quello che allora veniva semplicemente chiamato Irish Folk con approccio Punk, ad opera dell’iconografico Shane MacGowan (nel lontano 1980, leader e fondatore dei Nipple Erectors, poi Pogue Mahone, anglicizzazione del provocatorio termine gaelico irlandese póg mo thóin (“baciami il sedere”), infine, finalmente, The Pogues), nessuno si sarebbe mai aspettato il successo che il genere, ad oggi, ha ottenuto. Migliaia di fan da tutto il Mondo, migliaia di band da tutto il Globo.

Fondere sonorità tradizionali, che trovano profonde radici negli antichi suoni della verde Irlanda, di popoli di cui si è oramai quasi perso memoria, abbinando antichi strumenti delicati, e al contempo spesso allegri e scanzonati, capaci di proiettare l’ascoltatore in epoche remote e fiabesche, tra verdi boschi abitati da creature leggendarie, con l’aggressività di un genere crudo, grezzo, ma soprattutto molto disincantato e realistico, dipinto spesso di quell’opaco grigiore che ben rappresentava lo stato d’animo del rivoluzionario movimento punk quando nacque, nei lontani anni ’70, apparve subito quanto di più azzardato, si potesse approcciare da un punto di vista meramente musicale.
Eppure, proprio grazie a quei ragazzacci di King’s Cross, oggi possiamo deliziarci con una miriade di band da tutto il mondo che, in maniere più o meno personali, ci propongono quello che oramai oggi viene definito più in senso generale, “Irish Punk” o meglio ancora “Celtic Punk”. Sì, anche perché seppur vero che il suono trova radici profonde nella Verde Terra, occorre ricordare che la musica celtica, da cui nasce la stessa musica popolare irlandese, si sviluppò un po’ in tutta Europa (dal IV al III secolo A.C.); ovunque la popolazione dei Celti si spostasse – come del resto qualsiasi popolazione, faceva nell’antichità – portava con sé usi e costumi, tra cui – appunto – la propria musica. Isole Britanniche, Gallia, Pannonia (l’attuale territorio occupato da Ungheria, Repubblica Ceca, Austria, Croazia e Slovenia) ed Iberia, costituivano all’epoca le loro terre e, non dimenticando le influenze che ebbero i contatti con i Germani e i Romani stessi, non possiamo oggi pertanto stupirci, che le band che seguono questo filone, provengano un po’ da tutto il Vecchio Continente e non solo dall’attuale Gran Bretagna. Miscelando sapientemente le proprie tradizioni più antiche, i loro tipici strumenti musicali con il tradizionale Folk Irlandese (cornamusa, violino, fisarmonica, tin whistle, fiddle, mandolino, banjo ecc.), sempre sorretti dalla semplicità della struttura Punk britannica, creano il genere Celtic Punk, appunto; sicuramente uno dei generi musicali più ballabili, spensierato e spesso spregiudicato, ma al contempo ricchissimo di pathos e di antiche atmosfere pagane, che la Musica oggi possa annoverare.
Non dobbiamo neanche dimenticare che Paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, terre che hanno conosciuto l’immigrazione britannica sin dall’800 (per tacer dell’immensa invasione irlandese del 1879, a seguito della Grande Carestia che subì l’Isola), hanno da sempre goduto del l’influenza delle tradizionali musiche della Terra d’Albione (non mi soffermo per ragioni di spazio, su quanto l’Irish abbia condizionato la nascita del Country, non basterebbe un libro di 1000 pagine…).
Ciò che è curioso e molto particolare, è che al giorno d’oggi, le band più famose (eccezion fatta per i Pogues, ovviamente) provengono da ogni, ma molto meno dalla Gran Bretagna. Mentre nell’Isola rimangono forti gli accenti più tradizionali del Folk puro ed incontaminato, forse, e dico forse, il Celtic Punk ha trovato terra fertile proprio tra i discendenti stessi degli immigranti, sparsi un po’ in tutto il mondo che, quasi presumibilmente spinti da uno spirito reazionario, hanno voluto urlare le origini delle loro terre natie (in maniera diremmo rivoluzionaria, come vuole il Punk, del resto), tristemente e obbligatoriamente abbandonate secoli or sono, spinti dalla miseria, alla ricerca di uno scampolo di felicità e di speranza.
E allora partiamo in sella del verde destriero a conoscere i Flogging Molly, band losangelina formatasi nel 1997 ad opera di Dave King (già voce dei mitici Fastway, gruppo metal di inizio anni ’80 formato da un certo “Fast” Eddie Clarke dei Motorhead) che prese il nome da un pub di Los Angeles (Molly Malone) intitolato alla leggendaria pescivendola – e non solo…– di Dublino. Sempre dagli USA i Dropkick Murphys ed i Tossers, dal Canada i Real Mckenzies (band fondata da Paul McKenzie, di chiarissime origini scozzesi) o i “polkeggianti” The Dreadnoughts. Un salto (molto lungo) in Australia per i Rumjacks, per poi giungere nel Vecchio Continente in Repubblica Ceca con i Paddy And The Rats, in Svezia con i Sir Reg e addirittura in Italia con i Rumpled e gli Uncle Bard And The Dirty Bastards. Infine, dalla Sassonia (Germania, scusate) gli O’Reilly And The Paddyhats, i Mr.Irish Bastards e soprattutto i Fiddler’s Green bavaresi.
Solo per citarne alcuni…
I Nostri, oggetto di questa recensione escono oggi con il loro sedicesimo album (!) in quasi 30 anni di carriera. Inizi molto folk, per poi subire anche loro – negli anni – le profonde influenze del Punk ma anche della musica Rock europea e soprattutto teutonica, di metà anni novanta. Così – autodefinendosi essi stessi Speed Folk band – , vedono, nel tempo, accrescere il numero di fan, divenendo quello che oggi si potrebbe definire una band Mainstream del genere, a livello mondiale. Heyday è un album fantastico (finito ben settimo nella GfK Entertainment Charts teutonica). Divertente, ballabile sino all’ultima nota. Suonato magicamente da una band che oramai oggi, ha una padronanza degli strumenti pressoché totale. Brani come No Anthem, Limerick Style o la stessa title track trasudano energia, vigore ed un’eccezionale grinta che potrebbe indurre alla danza sfrenata anche un bradipo sudamericano, sino al totale sfinimento e a morte certa. Il duetto vocale tra Patrick “Pat” Priziwara e Ralf “Albi” Albers è semplicemente divino: un botta e risposta dove l’uno domanda e l’altro semplicemente risponde, annullando totalmente il vecchio concetto di main e di backing vocals. Qui esiste un’unica voce, portata d’incanto su tonalità diversissime ma, con egregia maestria, amalgamate nell’Uno, in un amorevole connubio, sebbene mantenendo ognuna, sempre le proprie caratteristiche primigenie (Pat è il ruvido mentre Ralf è il melodico), o più semplicemente, come direbbe Erich Fromm, “sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due”. Drumming quasi rocambolesco e travolgente (Frank Jooss), sostenuto dai bassi toni di Mr. Schulz (basso, appunto), avvolti nel cellophane delle armonie dello stesso Pat (qui come lead guitar), e avviluppati dalle meravigliose eufonie del violino di Tobias Heindl (grandioso!) e dalle fiabesche euritmie della fisarmonica di Stefan Klug, veniamo proiettati direttamente nella festa, ove la birra scorre a fiumi (dal brano Slainte, gaelico termine accostabile al nostro Cin Cin) e l’alcool rappresenta il leitmotiv della nostra serata (da Cheer Up, una sorta di in alto i bicchieri), e dove la meta finale non è conosciuta, ma poco importa (come per il vagabondo di Born To Be A Rover), tanto quello che ci interessa è vivere una bella giornata (One Fine Day) insieme ai nostri amati amici e cari, come tutti fossimo Uno (Together As One).
Null’altro da aggiungere, se non uno spassionato consiglio a chiunque stia passando un periodo grigio o peggio nero, della propria esistenza. Ascoltare Heyday (ed i Fiddler’s Green in generale), significa Vivacità, Vigoria, Vitalità o più semplicemente significa Vita . Un’ora (comprese bonus…) forse rappresenta poco, nel lungo cammino dell’esistenza umana, ma se è vero che la vita è solo un passaggio, in questo passaggio seminiamo almeno fiori, (come ci raccontava Michel De Montaigne), o almeno qualche verde trifoglio…

Tracklist
01. Prelude
02. The Freak of Enniskillen
03. No Anthem
04. Limerick Style
05. Farewell
06. Born to be a Rover
07. The Congress Reel
08. Slainte
09. Better You Say No
10. Cheer Up
11. One Fine Day
12. John Kanaka
13. Heyday
14. Steady Flow
15. Together as One

Line-up
Ralf “Albi” Albers – voce, chitarra acustica, bouzouki, mandolino, banjo
Pat Priziwara – voce, chitarra, bouzouki, mandolin, banjo
Tobias Heindl – violino
Stefan Klug – accordion, bodhran
Rainer Schulz – bass
Frank Jooss – batteria

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https://www.youtube.com/watch?v=hLwK6bOzQOA

Hellnite – Midnight Terrors

Si passa con disinvoltura da cavalcate heavy metal a brani diretti e speed thrash, in parte penalizzati dalla poco curata parte cantata, mentre la buona preparazione al basso ed alla chitarra alzano di qualche punto il valore di un album assolutamente rivolto ai soli appassionati del genere.

Proposta all’insegna del più puro underground quella di questa one man band di origine messicana denominata Hellnite, creatura del polistrumentista Paolo Belmar.

Attivi come band dal 2013, con l’uscita dell’ep Manipulator, gli Hellnite ricominciano dal Canada dove Belmar si è trasferito per poi esordire con questo full length intitolato Midnight Terrors, licenziato dalla Sliptrick Records.
L’album si compone di nove brani dalle ispirazioni heavy/thrash old school: discreto il songwriting, buona la prova strumentale, ma poco incisiva la prova al microfono, questi sono in poche parole i pregi ed i difetti di Midnight Terrors, album che potrebbe trovare buoni riscontri tra gli amanti del thrash metal anni ottanta.
Si passa con disinvoltura da cavalcate heavy metal a brani diretti e speed come Thrash Of The Living Death, in parte penalizzati dalla poco curata parte cantata, mentre la buona preparazione al basso ed alla chitarra alzano di qualche punto il valore di un album assolutamente rivolto ai soli appassionati del genere.
Iron Maiden, Slayer, Sodom e Destruction sono le band storiche che escono prepotentemente dall’ascolto di Midnight Terrors, mentre lo strumentale Darker Than Black e l’aggressiva Necromancer si rivelano i brani più riusciti.
La strada è lunga e difficile per il musicista messicano, anche se tra i solchi dell’album non mancano quegli spunti interessanti su cui poter lavorare in futuro.

Tracklist
1.Projection
2.Phantom Force
3.Spirits Prevail
4.Beasts From The Deep
5.Thrash Of The Living Dead
6.Darker Than Black
7.Stage On Fire
8.The Necromancer
9.Midnight Terrors

Line-up
Paolo Belmar – Guitars, Vocals, Bass

HELLNITE – Facebook

Seax – Fallout Rituals

La giostra gira vorticosa, le tracce si susseguono spazzando via tutto come sferzate di un vento metallico tempestoso dove i tanti cenni ai maestri dell’heavy thrash metal anni ottanta non fanno che confermare l’assoluta dedizione e attitudine dei Seax.

Attivi da una decina d’anni e con tre full length rilasciati tra il 2012 ed il 2016, tornano con il loro speed/thrash metal vecchia scuola i Seax, band proveniente da Worchester in Massachusetts.

Licenziato dalla Shadow Kingdom Records, il nuovo album intitolato Fallout Rituals nulla aggiunge e nulla toglie non solo al quartetto statunitense ma a tutto un genere, radicato nella scena underground degli anni ottanta.
I Seax non si nascondono certo dietro un dito, sono una band nata per travolgere gli ascoltatori con ritmiche velocissime ed un impatto diretto, lasciando all’esperienza live l’ultima parola sulle proprie capacità.
L’opener Fallout funge da conto alla rovescia prima Rituals ci investa con tutta la sua potenza old school, tra solos vorticosi, voce aggressiva che non rinuncia all’uso del falsetto ed un approccio assolutamente senza compromessi.
Bring Down The Beast, Interceptor e gli altri brani che compongono il nuovo album dei Seax non concedono pause, la giostra gira vorticosa, le tracce si susseguono spazzando via tutto come sferzate di un vento metallico tempestoso dove i tanti cenni ai maestri dell’heavy thrash metal anni ottanta non fanno che confermare l’assoluta dedizione e attitudine della band.
Inutile affermare che Fallout Rituals è pane solo per i denti degli heavy/thrashers dai gusti old school, chiunque non porti ancora jeans stretti, chiodo e scarpe da ginnastica giri alla larga dai Seax e dalla loro musica.

Tracklist
1.Fallout
2.Rituals
3.Killed by Speed
4.Bring Down the Beast
5.Feed the Reaper
6.Interceptor
7.Winds of Atomic Death
8.Legions Arise
9.Riders of the Oldworld
10.Born to Live Fast

Line-up
Carmine Blades – Vocals
Razzle – Guitar
Hel – Guitar
Derek Jay – Drums

SEAX – Facebook

Thronehammer – Usurper of the Oaken Throne

L’album riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.

Un’opera straordinariamente epica ed evocativa, un lungo incedere doom/sludge che non conosce pause ma continua imperterrito nella sua marcia in direzione dell’Olimpo, mentre l’esercito avanza inesorabilmente verso la vittoria o la sconfitta e le note di questo monumentale lavoro accompagnano il passo cadenzato dei guerrieri.

I Thronehammer sono un trio che unisce musicisti provenienti da Germania e Regno Unito e dopo un demo ed uno split, insieme ai Lord Of Solitude, licenziano tramite The Church Within questo monolitico e pesantissimo primo album, intitolato Usurper of the Oaken Throne.
Sette brani per quasi ottanta minuti di musica del destino, davvero suggestiva, pesantissima ed epica al punto di sbaragliare qualsiasi gruppetto tutto scudi e spadoni.
In questo lavoro la parte evocativa ed epica del sound si amalgama perfettamente ad un potentissimo doom/sludge, spesso reso ancora più solenne da tastiere debordanti: la potenza della parte ritmica entra in contatto con un cantato evocativo che accentua l’aspetto epico/guerresco del sound in brani che per lo più superano abbondantemente i dieci minuti.
I diciassette minuti (appunto) dell’opener Behind The Wall Of Frost ci calano in un’atmosfera in cui predomina la forza evocativa di una musica che riesce ad incorporare nelle stesse trame, in modo assolutamente convincente, ispirazioni che vanno dai Bathory, ai Count Raven, dai Celtic Frost ai Saint Vitus, dai Candlemass ai Cathedral, in una sorta di versione sludge dell’epic doom tradizionale.
Il risultato è un lavoro pesantissimo, da affrontare con la dovuta pazienza, cercando di entrare nel mondo creato da Kat Shevil Gillham, Stuart Bootsy West e Tim Schmidt senza perdere nemmeno una nota del loro notevole lavoro.

Tracklist
1.Behind the Wall of Frost
2.Conquered and Erased
3.Warhorn
4.Svarte Skyer
5.Thronehammer
6.Usurper of the Oaken Throne

Line-up
Stuart Bootsy West – Guitars, Synthesizer
Tim Schmidt – Bass, Drums
Kat Shevil Gillham – Vocals

THRONEHAMMER – Facebook

Destrage – The Chosen One

I Destrage sono uno dei gruppi italiani che se la gioca meglio, sia in territorio mainstream che in quello underground, con nomi ben più blasonati ed in alcuni casi altezzosi.

I Destrage tornano con il loro quinto album, il miglior sunto possibile di cosa sia questa band, pronta a prendersi lo scettro vacante di nuovi alfieri del metal moderno.

Se non li avete mai ascoltati immaginate degli Avenged Sevenfold molto più divertenti e vari, con un metalcore molto melodico ma anche potente che si incontra con il modern metal, per un risultato cosmopolita e quindi da esportazione. Infatti i Destrage sono uno dei gruppi italiani che se la gioca meglio, sia in territorio mainstream che in quello underground, con nomi ben più blasonati ed in alcuni casi altezzosi. Con questo disco non sono molti i dubbi del posto che spetta a questo gruppo fieramente milanese. Ascoltando The Chosen One si viene portati in molti luoghi, tra dolcezza, durezza e problemi della vita quotidiana. L’album può essere usato sia da sprone, sia come consolazione per una vita certo non facile come quella quotidiana. La formula del disco è vincente, con la sua miscela di diverse istanze che prendono vita dal metalcore e dal metal moderno. Ci sono ad esempio momenti notevoli alla Dillinger Escape Plan, sfuriate incontenibili o momenti di maggiore melodia. I Destrage non cercano la hit a tutti i costi, suonano al meglio ciò che vogliono e se, poi, ciò incontra il favore del pubblico tanto meglio. La ricchezza del suono e delle linee melodiche, valorizzate al meglio da una produzione che ne fa risaltare le peculiarità, sono le principali caratteristiche di The Chosen One che fa compiere un notevole passo in avanti alla poetica musicale della band lombarda. Non ci sono molti punti ciechi in questo lavoro, la musica dei Destrage avvolge, intrattiene e talvolta fornisce le risposte che può dare un album che non cambierà la vostra vita ma che può renderla migliore. Un lavoro dal respiro internazionale per un gruppo che ha molte cose da dire e ancora di più da suonare.

Tracklist
1. The Chosen One
2. About That
3. Hey, Stranger!
4. At the Cost of Pleasure
5. Mr. Bugman
6. Rage, My Alibi
7. Headache and Crumbs
8. The Gifted One

Line-up
Paolo Colavolpe – vocals
Matteo Di Gioia – guitar
Federico Paulovich – drums
Ralph Guido Salati – guitar
Gabriel Pignata – bass

DESTRAGE – Facebook