Dury Dava – Dury Dava

Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion.

Dalla Grecia arriva uno dei gruppi più estremi per quanto riguarda la psichedelia più oscura e generatrice di visioni.

Il nuovo lavoro del gruppo ateniese, che canta in greco, è un rito panico che attraverso l’astrazione e la interdimensionalità conduce in uno spazio fisico molto diverso da quello attuale. Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion. Ma si badi bene che questo disco non è un guazzabuglio di suoni, quanto un bellissimo collettore di tanti momenti diversi, e chi ama certe sonorità che sanno essere sia eteree che pesanti in questo album troverà molta gioia. Le canzoni sono costruite in modo da svilupparsi in maniera mai lineare, ma cercando spazio nello spazio, usando quasi tutti gli strumenti presenti nel globo, per andare molto lontano. Si perde la cognizione del tempo, anche perché non esiste nessuna fretta, non ci sono obiettivi o soft skills, si cerca e si trova nutrimento per il nostro cervello stremato da cose ed orpelli inutili, ma che noi consideriamo essenziali. I Dury Dava riportano tutto al suo posto, confezionando un disco che è allo stesso tempo febbrile e curativo. Come quando si assume del peyote, prima qualcosa esce dal nostro corpo e poi si comincia il viaggio, e dopo non si è più come prima. Infatti nelle canzoni che sono contenute in questo disco la forma canzone è davvero obsoleta, e si supera anche quella della jam, per entrare in un altro stato mentale. E proprio la diversione psichica ciò che ricerca questo incredibile gruppo con un disco che pesca anche nella tradizione musicale greca e turca, l’oriente più vicino a noi. Dentro si possono trovare tantissimi generi, dal krautrock al prog, dal kosmische alla psichedelia anni sessanta, e anche alcune strutture della jazz fusion: un altro sguardo e tanta ottima psichedelia per un gruppo da scoprire.

Tracklist
1. Africa
2. Triptych
3. Come Again to
4. Satana
5. Zoupa
6. Summer
7. 34522
8. Ataxia
9. Tarlabasi
10. Kane Ligo Alithina

DURY DAVA – Facebook

No Point in Living – The Cold Night

The Cold Night mostra un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.

Yusuke Hasebe (in arte solo Yu) è uno di quei musicisti che si possono definire eufemisticamente prolifici: con il suo progetto solista No Point in Living, infatti, dal 2017 ad oggi ha pubblicato la bellezza di 18 full length senza farsi mancare anche qualche altra uscita di minore minutaggio.

A questo punto viene lecito chiedersi per quale motivo la Heathen Tribes si sia presa la briga di ripubblicare il quinto album The Cold Night, uscito originariamente nel novembre del 2017, visto che di materiale inciso dal musicista nipponico in giro ce n’è già a sufficienza.
La risposta è che, francamente, il nostro possiede un talento rimarchevole, benché costantemente a rischio d’essere annacquato dalla sua bulimia compositiva, e The Cold Night è lì a dimostrarlo con i suoi tre quarti d’ora di depressive atmospheric black oltremodo convincente.
Ammetto di non conoscere il resto della discografia di Yu, ma se la qualità di ogni uscita fosse pari a quella di questo lavoro sarebbe un evento quasi miracoloso: dubito, infatti, che si posa pensare di mantenere alta con tale frequenza una tensione emotiva come quella esibita nella lunghissima I Hate Everything o nella poco più breve Path to the End, tanto per fare degli esempi concreti.
The Cold Night mostra, peraltro, un notevole equilibrio tra le diverse componenti del sound e, pur non brillando per la sua originalità, merita di ritagliarsi ben più di un ascolto distratto da parte di chi ama il black metal nelle sue sembianze melodico-depressive.
Nel frattempo lo Stakanov di Sapporo, quando non siamo arrivati neppure a metà giugno, nel corso del 2019 ha già pubblicato tre full length ed un ep per un fatturato complessivo di circa due ore e mezza di musica: insomma, riuscire a seguirne le gesta può essere complicato anche per il fan più incallito, per cui non resta che provare ad intercettarne l’opera di tanto in tanto per verificare quale sia lo stato dell’arte.

Tracklist:
1. Intro
2. Impatience
3. I Hate Everything
4. The Cold Night
5. The Path to the End
6. Ocean of Sorrow

Line-up:
Yu – Everything

NO POINT IN LIVING – Facebook

S.O.T.O. – Origami

Origami è un album che conferma la bontà di questo ennesimo progetto targato Jeff Scott Soto, immancabile nella discografia dei fans dell’hard & heavy d’autore.

Jeff Scott Soto è uno degli artisti e cantanti che più hanno segnato gli ultimi vent’anni di storia dell’hard & heavy, prima con i Talisman e poi passando tra mille collaborazioni, la carriera solista e ultimamente con W.E.T., Sons Of Apollo e S.O.T.O.

Origami è il terzo album del gruppo che vede, oltre al singer, Edu Cominato (batteria), BJ (chitarra e tastiere), Jorge Salan (chitarra) e Tony Dickinson (basso), nuovo entrato dopo la scomparsa di Dave Z.
Come d’abitudine, gli album che vedono protagonista il cantante statunitense riescono sempre a sorprendere per la grande versatilità in un sound che, se ovviamente prende vari dettagli dagli altri progetti in cui è coinvolto, mostra una marcata personalità che gli permette di variare atmosfere e sfumature.
Il nuovo lavoro targato S.O.T.O., non manca certo di aggressività e melodia che, a braccetto, portano la tracklist verso l’eccellenza, non solo per la solita, varia e calda prestazione del cantante, ma per un lavoro d’insieme di altissimo livello.
Dall’opener Hypermania veniamo quindi travolti da un hard & heavy melodico e a tratti progressivo, dove si sentono i postumi dell’abbuffata prog metal di Soto con i Sons Of Apollo, ed un uso delle tastiere più accentuato che in passato che dona alle varie tracce un tocco moderno.
Modern melodic hard & heavy, si potrebbe definire così il sound di Origami, che non cala di tensione dalla prima all’ultima traccia, regalando la sua dose massiccia di metal in cui la voce del vocalist americano fa il bello e cattivo tempo, procurando brividi a palate.
Tra le canzoni che compongono la track list di questo ottimo lavoro, escono prepotentemente quelle in cui la band picchia da par suo, potenti e massicce heavy song melodico progressive come BeLie, World Gone Colder, Dance With The Devil e Vanity Lane.
Origami è un album che conferma la bontà di questo ennesimo progetto targato Jeff Scott Soto, immancabile nella discografia dei fans dell’hard & heavy d’autore.

Tracklist
1. HyperMania
2. Origami
3. BeLie
4. World Gone Colder
5. Detonate
6. Torn
7. Dance With The Devil
8. AfterGlow
9. Vanity Lane
10. Give In To Me

Line-up
Jeff Scott Soto – Vocals
Jorge Salan – Guitar
Tony Dickinson – Bass
BJ – Keys/Guitar
Edu Cominato – Drums

SOTO – Facebook

Sins Of The Damned – Striking the Bell of Death

Striking the Bell of Death è un gran bel lavoro, ma ovviamente il genere rimane di nicchia e l’album indicato agli amanti dell’heavy speed metal tradizionale.

La Shadow Kingdom non sbaglia un colpo e le uscite che vedono il suo logo sul retro di copertina regalano sempre gradite sorprese per quanto riguarda i suoni classici.

I cileni Sins Of The Damned per esempio arrivano tramite la label al traguardo del primo full length dopo svariati lavori minori che ne hanno caratterizzato la carriera dal 2013.
Una manciata di demo è servita al gruppo di Santiago per rodarsi, prima di travolgere glia amanti dei suoni old school di matrice heavy/speed metal con Striking the Bell of Death, album composto da sette brani medio lunghi, a metà strada tra l’heavy metal di scuola europea e lo speed thrash.
Un prodotto che più underground di così non si può, ma suonato egregiamente, caratterizzato da convincenti cavalcate strumentali che li avvicinano agli Iron Maiden suonati al doppio della velocità.
La voce cartavetrata ma personale il giusto per non passare nell’anonimato, il gran lavoro delle chitarre e le ritmiche forsennate, aggiungono adrenalina a brani diretti e senza compromessi, sette bombe sonore di matrice old school che non fanno prigionieri e che hanno in They Fall and Never Rise Again e The Lion And The Prey i brani migliori.
Striking the Bell of Death è quindi un gran bel lavoro, ma ovviamente il genere rimane di nicchia e l’album indicato agli amanti dell’heavy speed metal tradizionale.

Tracklist
1.Striking the Bell of Death
2.They Fall and Never Rise Again
3.Take the Weapons
4.The Lion and the Prey
5.The Outcast (Sign of Cain)
6.Victims of Hate
7.Death’s All Around You

Line-up
Maot – Guitars (lead)
Razor – Vocals, Guitars
Noisemaker – Drums, Bass
Tyrant – Drums

SINS OF THE DAMNED – Facebook

The Damned Things – High Crimes

Non fatevi ingannare dalla presenza del leader degli Anthrax, perché il sound dei The Damned Things non ha nulla a che spartire con la storica band americana, quindi lasciate che punk, alternative, qualche riff stonato qua e là e tanta melodia vi travolgano per una quarantina di minuti scarsi di rock moderno a stelle e strisce.

Quando ormai ci eravamo dimenticati di questa sorta di super gruppo (o progetto parallelo, a seconda dei punti di vista) chiamato The Damned Things, arriva dopo nove anni tramite Nuclear Blast il successore di Ironiclast.

High Crimes torna a far parlare di questa band composta oggi da Scott Ian (Anthrax), Joe Trohman e Andy Hurley (Fall Out Boy) , Keith Buckley (Everytime I Die) e Dan Adriano (Alkaline Trio).
L’album propone dieci brani, melodici, accattivanti e a tratti irresistibili che miscelano in un unico sound, punk rock melodico ed alternative metal con la giusta spinta ed una cura per melodie radiofoniche che non passerà sicuramente inosservata.
Non si tratta solo di nomi importanti della scena rock metal messi insieme a casaccio, ma di una band che sa divertire, bilanciando perfettamente energia punk/metal e melodie dal grande appeal.
D’altronde l’esperienza dei musicisti, il cosiddetto mestiere, non manca di certo e i brani più rappresentativi della tracklist (Something Good’, Invincible, Young Hearts e Keep Crawling) ne sono l’esempio.
Non fatevi ingannare dalla presenza del leader degli Anthrax, perché il sound dei The Damned Things non ha nulla a che spartire con la storica band americana, quindi lasciate che punk, alternative, qualche riff stonato qua e là (Keep Crawling) e tanta melodia vi travolgano per una quarantina di minuti scarsi di rock moderno a stelle e strisce.

Tracklist
1. Cells
2. Something Good
3. Invincible
4. Omen
5. Carry A Brick
6. Storm Charmer
7. Young Hearts
8. Keep Crawling
9. Let Me Be (Your Girl)
10. The Fire Is Cold

Line-up
Scott Ian – Guitar
Joe Trohman – Guitar
Keith Buckley – Vocals
Dan Adriano – Bass
Andy Hurley – Drums

THE DAMNED THINGS – Facebook

Stellar Master Elite – Hologram Temple

Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza

Gli Stellar Master Elite sono un band tedesca che, in questo decennio, si è messa in luce grazie ad una davvero interessante trilogia basata su un black doom di elevata qualità.

Hologram Temple è quindi il quarto full length che alza ulteriormente l’asticella qualitativa per questo gruppo che ha ben tre elementi in comune con un’altra intrigante realtà del black metal germanico come i Der Rote Milan.
Fin dalle prime note si intuisce che qui il tutto viene trattato in maniera tutt’altro che manieristica o derivativa, perché gli Stellar Master Elite riescono a creare un black doom/death nell’accezione più autentica del termine, nel senso che i generi vengono perfettamente amalgamati per un risultato finale che soddisfa il palato sia in senso melodico che per intensità.
Il gruppo di Trier (città che in Italia conosciamo meglio come Treviri) vi aggiunge poi anche un pizzico di avanguardia ed un ricorso sapiente a sampler o spunti ambient atmosferici senza far scemare mai la tensione.
L’aspetto che maggiormente colpisce è che, nonostante le premesse ed una profondità compositiva rilevante, gran parte dei brani godono di un andamento tutt’altro che ostico all’ascolto, testimonia ampiamente una traccia formidabile quale l’opener Null, senza dimenticare che i nostri sanno anche toccare corde più profonde come in Ad Infinitum oppure spingersi verso territori più avanguardistici senza perdere in incisività come in Black Hole Dementia.
Hologram Temple è una prova matura e al contempo ricca degli slanci compositivi necessari per portare le sonorità estreme su un piano differente e più elevato, senza snaturarne l’abrasiva essenza; nonostante questi musicisti, per forza di cose, attingano ad un background ben definito non ci sono mai momenti in cui si palesa in maniera fragorosa ed evidente l’influenza di una specifica band. Tutto ciò depone a favore di un sound personale, ricco e in costante evoluzione senza sconfinare in un arido sperimentalismo, come neppure avviene nel quarto d’ora ambient di Tetragon, minaccioso episodio opportunamente collocato in conclusione del lavoro e sorta di appendice volta a rinsaldare ancor più il forte legame tra il concept fantascientifico ed il contenuto musicale.

Tracklist:
1. Null
2. Freewheel Decrypted
3. Apocalypsis
4. Ad Infinitum
5. The Beast We Have Created
6. Agitation – Consent – War
7. Black Hole Dementia
8. The Secret of Neverending Chaos
9. Tetragon

Line-up:
M.S. – Drums, Vocals
D.F. – Guitars, Bass, Programming
T.N. – Bass
E.K. – Vocals
S.K. – Vocals

STELLAR MASTER ELITE – Facebook

Death Angel – Humanicide

I Death Angel hanno composto e suonato un’opera di metallo esaltante, potente, veloce, diretto ma a tratti progressivo, prodotto impeccabilmente e moderno senza smarrire l’attitudine old school.

Lasciando da parte Metallica e Megadeth, ormai lontani dallo spirito thrash metal dei bei tempi, l’alter ego della sacra triade teutonica (Sodom- Kreator- Destruction) negli Stati Uniti è ormai formato da Testament, Overkill e Death Angel.

La band di San Francisco che originariamente era formata da giovanissimi musicisti originari delle Filippine e che, negli anni ottanta, mise a ferro e fuoco la Bay Area con album eccezionali come The Ultra-Violence e Frolic Through the Park, torna con un nuovo lavoro, l’ennesima spettacolare prova di forza della seconda parte di carriera, quella iniziata dopo il lungo stop degli anni novanta con The Art Of Dying e proseguita con una serie di prove che l’hanno riportata sul podio dei gruppi dediti al caro vecchio thrash metal.
Humanicide, nuovo album uscito per Nuclear Blast, conferma tutto ciò, aumenta anzi le quotazioni di un combo che ad oggi non trova limiti, sia a livello tecnico che di songwriting, pubblicando il degno successore dei due capolavori che lo hanno preceduto (The Dream Calls for Blood e The Evil Divide).
A noi non piace il noioso track by track, ma la scaletta di Humanicide andrebbe nominata tutta, una traccia per volta per non lasciare indietro nulla di quello che il quintetto californiano ha composto e suonato, creando un’opera di metallo esaltante, potente, veloce, diretto ma a tratti (come da tradizione), progressivo, prodotto impeccabilmente e moderno senza smarrire l’attitudine old school.
Registrato e mixato da Jason Suecof (Deicide, Trivium) e masterizzato da Ted Jensen (Slipknot, Pantera), accompagnato dalla spettacolare copertina creata da Brent Elliott White (Lamb Of God, Megadeth), Humanicide non fa prigionieri e, lanciato come un missile verso Marte, spara undici cannonate ad altezza d’uomo, valorizzate da una prestazione fuori categoria del quintetto guidato da quei monumenti al thrash metal che sono Rob Cavestany e Mark Osegueda.
Dovendo citare qualche brano, quindi, si può partire dalla title track e farsi piacevolmente torturare i padiglioni auricolari dalle devastanti Divine Defector e Aggressor, dallo spettacolo assicurato dalla lunga Immortal Behated e dall’heavy metal della splendida Revelation Song.
I Death Angel sono tornati e per quest’ anno con il thrash metal direi che siamo giunti al massimo del livello raggiungibile, perché fare di meglio è davvero difficile, se non impossibile.

Tracklist
1. Humanicide
2. Divine Defector
3. Aggressor
4. I Came for Blood
5. Immortal Behated
6. Alive and Screaming
7. The Pack
8. Ghost of Me
9. Revelation Song
10. On Rats and Men
11. The Day I Walked Away

Line-up
Rob Cavestany – Guitars
Mark Osegueda – Vocals
Ted Aguilar – Guitars
Damien Sisson – Bass
Will Carrol – Drums

DEATH ANGEL – Facebook

Son Of The Morning – Son Of The Morning

Son Of The Morning scorre lento, solo ravvivato da mid tempo che lasciano spazio a parti atmosferiche dark , in cui la band viene ispirata dall’occult rock che ricorda anche la scena italiana.

Uscito originariamente lo scorso anno in vinile per la DHU Records, Son Of The Morning è il debutto dell’omonima band statunitense guidato dalla magica ed eterea voce di Lady Helena.

La band, oltre alla sacerdotessa dietro al microfono è composta da Lee Allen al basso, H.W. Applewhite alla batteria e Levi Mendes alla sei corde, macchina macina riff sabbathiani, in un contesto stoner e psichedelico.
La nostrana BloodRock Records ha curato la versione cd di questo bellissimo debutto, composto da otto brani ispirati dall’occult rock di matrice settantiana, in cui riti pagani, atmosfere messianiche e culti antichi creano un’affascinate esempio di musica del destino.
Desertiche visioni si fanno spazio nella nostra mente, mentre le ritmiche monolitiche iniziano a dettare tempi drogati di magia; la chitarra produce riff pesantissimi e il canto etereo ed ipnotico di Lady Helena attira verso la collina dove i muri della vecchia casa parlano di sacrifici e riti fuori dal tempo.
Adoranti lasciamo che lentamente la musica ci accompagni in questo sabba, tra le note venate di una psichedelia lasciva incastonata nei rituali della varie The Rule Of Three, The Wild Hunt e Left Hand Path.
Son Of The Morning scorre lento, solo ravvivato da mid tempo che lasciano spazio a parti atmosferiche dark , in cui la band viene ispirata dall’occult rock che ricorda anche la scena italiana, creando un sound che accoglie tra il suo spartito, i vari generi descritti che si manifestano come antichi spiriti evocati dal gruppo tra le trame dell’album.

Tracklist
1.Introduction
2.The Rule of Three
3.The Midwife
4.The Wild Hunt
5.Release
6.Left Hand Path
7.House of our Enemy
8.Eyes Sewn Closed

Line-up
Lady Helena – Vocals, Organ
Lee Allen – Electric Bass Guitar
H.W. Applewhite – Trap Kit
Levi Mendes – Electric Guitar

SON OF THE MORNING – Facebook

2 Wolves – ….Our Fault

Tra Swallow The Sun e The 69 Eyes, la band finlandese ci consegna un bellissimo esempio di musica dark/gothic valorizzata da melodie che entrano nell’anima come lame nel burro, dimostrandosi un nome da segnare sul taccuino alla voce imperdibili per gli amanti di queste sonorità.

Questo bellissimo lavoro in arrivo dalla Finlandia è la quarta opera gotica dei 2 Wolves, quintetto di Lappeenranta attivo dal 2011.

Licenziato dalla Inverse Records, ….Our Fault è composto da nove bellissimi brani che uniscono dark/gothic e melodic death metal in un sound oscuro, melanconico ed accattivante senza rinunciare all’anima estrema che potenzia tracce dalle bellissime melodie crepuscolari.
Growl e voce dal taglio dark/gothic si danno il cambio tra le atmosfere create da un sound in cui molta importanza hanno i tasti d’avorio, protagonisti di tappeti melanconici sui quali il gruppo appoggia chitarre di stampo melodic death, quindi dal taglio classico in un contesto death metal che a tratti rallenta in cadenzate marce doom.
Un sound che fin dall’opener Unwritten Names si mette in luce per un talento melodico straordinario, che rimane di altissimo livello per tutta la durata del disco.
Splendido il doom/death di Of Storm And Stars, uno dei brani più riusciti di questo quarto lavoro targato 2 Wolves che offre il meglio man mano che passano i minuti, con il quintetto che, quando indurisce il suono, mette in mostra tutto il talento dei gruppi nordici per queste sonorità.
Ancora Departures And Arrivals sugli scudi, mentre con le conclusive Tuhat Kertaa e The Fault Is Ours si torna al gothic/dark dei primi brani, alternando potenza ed appeal melodico in un’atmosfera splendidamente melanconica.
Tra Swallow The Sun e The 69 Eyes, la band finlandese ci consegna un bellissimo esempio di musica dark/gothic valorizzata da melodie che entrano nell’anima come lame nel burro, dimostrandosi un nome da segnare sul taccuino alla voce imperdibili per gli amanti di queste sonorità.

Tracklist
1. Unwritten Names
2. Strange Patterns
3. Of Storm and Stars
4. Regret
5. Dreaming Beneath
6. Departures and Arrivals
7. Blame
8. Tuhat Kertaa
9. The Fault is Ours

Line-up
Ilkka Valkonen – Vocals
Jere Pennanen – Guitar
Petri Määttä – Guitar
Sami Simpanen – Bass
Niko Pennanen – Drums, Programming

2 WOLVES – Facebook


Descrizione Breve

Odious – Mirror Of Vibrations

La riedizione di questo primo full length degli Odious ci mostra un notevole spaccato di ciò che può diventare il black/death metal quando si va ad intersecare, in maniera competente e non forzata, con le sonorità etniche di matrice mediorientale, eseguite per di più utilizzando strumenti tradizionali come l’oud e la tabla.

Anche se Mirror Of Vibrations è un album vecchio di dodici anni, essendo stato pubblicato per la prima volta dagli egiziani Odious nel 2007, vale davvero la pena di parlarne sfruttando l’occasione fornita dalla sua riedizione in vinile curata dall’etichetta canadese Shaytan Productions, che peraltro fa capo ad altri coraggiosi musicisti metal dell’area islamica come i sauditi Al-Namrood.

Infatti questo primo full length degli Odious ci mostra un notevole spaccato di ciò che può diventare il black/death metal quando si va ad intersecare, in maniera competente e non forzata, con le sonorità etniche di matrice mediorientale, eseguite per di più utilizzando strumenti tradizionali come l’oud e la tabla.
Sono innumerevoli i tentativi di far convivere sonorità che, per lo più, finiscono per entrare in collisione con il risultato di offrire in pratica momenti ben distinti, in cui prevalgono l’una o l’altra componente senza mai intrecciarsi sinuosamente come, invece, avviene magistralmente in quest’album.
L’ascolto di brani come For the Unknown Is Horrid o Smile In Vacuum Warnings fornisce più di una buona ragione per innamorarsi di questa band ed approfittare di una versione in vinile nella quale, forse, diviene un po’ meno penalizzante la produzione che è francamente l’unico aspetto rivedibile di un’opera, al contrario, inattaccabile su ogni fronte, inclusa una nuova copertina davvero dal grande fascino.
Chi ama il black sinfonico e non disdegna ascolti di matrice ethnic folk, da un album come Mirror Of Vibrations potrà trarre enormi soddisfazioni in attesa che gli Odious, oggi ridotti a duo con il solo membro fondatore Bassem Fakhri affiancato dal batterista greco George Boulos, diano seguito al secondo album Skin Age, ultima testimonianza discografica risalente al 2015.

Tracklist:
1. Poems Hidden On Black Walls
2. Deaf and Blind Witness
3. For The Unknown Is Horrid
4. Split Punishment
5. Invitation To Chaotic Revelation
6. Smile In Vacuum Warnings
7. Upon The Broken Wings

Line-up:
Rami Magdi – Drums, Percussion
Bassem Fakhri – Vocals, Keyboards, Programming
Alfi Hayati – Bass
Mohamed Hassen – Guitars (lead), Oud
Mohamed Lameen – Guitars (rhythm)

ODIOUS – Facebook

Three Dead Fingers – Breed Of The Devil

Giovanissimi e arrabbiati, i Three Dead Fingers arrivano all’esordio su lunga distanza sotto l’ala della Bleeding Music Records e ci investono con il loro metal estremo composto da un’adrenalinica miscela di melodic death metal e thrash metal classico.

Giovanissimi e arrabbiati, i Three Dead Fingers arrivano all’esordio su lunga distanza sotto l’ala della Bleeding Music Records e ci investono con il loro metal estremo composto da un’adrenalinica miscela di melodic death metal e thrash metal classico.

Il giovane quintetto proveniente da Stoccolma (si parla di ragazzi poco più che adolescenti) si impone all’attenzione del pubblico metallico per un impatto ed un’attitudine da veterani, il loro lavoro convince sotto tutti i punti di vista, solido e spettacolare in molti passaggi, perfetto nell’uso delle voci che si alternano in un’orgia infernale tra growl scream e clean, massiccio e colmo di veri e propri inni da cantare a sotto il palco.
Le influenze dei Three Dead Fingers sono da annoverare tra una serie di gruppi storici dei generi che compongono il sound di Breed Of the Devil, dagli Slayer agli Arch Enemy, dai primi Sepultura ai Dissection, per lasciare agli Iron Maiden la paternità di quel tocco heavy che spunta qua e là tra le varie tracce.
Dall’opener Black Rainbows in poi verrete catapultati nel mondo senza compromessi che i Three Dead Fingers hanno creato, composto da un sound adrenalinico, fughe e cavalcate metalliche da applausi, accelerazioni ritmiche da infarto e chorus che si piantano in testa al primo passaggio, pur rimanendo legati ad un’attitudine assolutamente estrema.
La title track, Nocturnal Gates, Eveline sono i brani che maggiormente spiccano all’interno di questo ottimo e convincente debutto.

Tracklist
1.Until the Morning Comes
2.Black Rainbows
3.Into the Bloodbath
4.Celestial Blasphemy
5.Breed of the Devil
6.A Virus Called Life
7.Pighead
8.Nocturnal Gates
9.Eveline
10.Goodbye
11.House of the Careless

Line-up
Gustav Jakobsson – Bass
Anton Melin – Drums
Remy “Fiskis” Strandberg – Guitars
Adrian Tobar Hernandez – Guitars
Oliwer Bergman – Vocals, Guitars

THREE DEAD FINGERS – Facebook

Reatzione – Sopravvissuti

Con le sue undici esplosioni di rabbia senza soluzione di continuità, Sopravvissuti non lascia scampo: drammatico, violento, rabbioso, grazie a brani potentissimi, a tratti veloci o pervasi da mid tempo possenti come un colosso musicale che avanza lento ed inesorabile.

I Reatzione sono un quartetto di musicisti provenienti dalla Sardegna e Sopravvissuti è il loro manifesto sonoro, licenziato da Dark Hammer Legion / Volcano Records.

La band, nata nel 2015 da un’idea del chitarrista Alessandro Ciuti, crea un muro sonoro invalicabile di thrash/groove metal, con la particolarità del cantato in lingua sarda, in alternanza a quella italiana.
Sopravvissuti è composto da undici mazzate metalliche potentissime, il gruppo dopo vari aggiustamenti di line up risulta un compatto carro armato musicale, che in poco più di mezzora spazza via ogni cosa al suo passaggio.
I testi affrontano vari argomenti, dai problemi politico/sociali a livello europeo, agli incendi che da sempre devastano la vegetazione dell’isola, con il metal di matrice thrash/groove metal a fare da colonna sonora.
Con le sue undici esplosioni di rabbia senza soluzione di continuità, Sopravvissuti non lascia scampo: drammatico, violento, rabbioso, grazie a brani potentissimi, a tratti veloci o pervasi da mid tempo possenti come un colosso musicale che avanza lento ed inesorabile.
In un contesto così compatto e possente spiccano, la title track, il lento incedere stoner /doom di Accabadora e la thrashy Fizu, sunto compositivo di un lavoro il cui muro sonoro trae le sue maggiori ispirazioni da Sepultura, Soulfly, Hatebreed e Down.

Tracklist
1.Raikinas
2.Inferru
3.Sopravvissuti
4.Bestia
5.Incubi
6.Fame
7.Acabbadora
8.L’inizio Della Fine
9.Rispetto
10.Fizu
11.Meno di un Verme

Line-up
Mex – Vocals
Alessandro Ciuti – Guitars
Salvatore Sechi – Bass
Mauro Carta – Drums

REATZIONE – Facebook

Forever Still – Breathe In Colours

Album dedicato dunque ai più giovani fruitori di musica rock, Breathe In Colours riuscirà sicuramente a conquistare molti cuori alternative dark.

Secondo lavoro per i Forever Still, band danese composta dalla cantante e tastierista Maja Shining e dal polistrumentista Mikkel Haastrup, raggiunti per questo album dal batterista Rune Frisch e dal chitarrista Inuuteq Kleemann (quest’ultimo solo in sede live).

Breathe In Colours è un concept futuristico, in stile Blade Runner, raccontato per mezzo di un sound nervoso, alimentato da energiche scosse alternative metal ed oscurato da atmosfere dark/gothic.
Ottima e varia la prova della cantante, ad alzare il livello di un’opera che si sviluppa per trentacinque minuti di metal moderno,con dieci brani che raccolgono ispirazioni ed influenze che vanno dai Lacuna Coil ad una versione elettronica degli Evanescence, il tutto giocato sull’alternanza tra sfumature pop e sferzanti schiaffi nu metal.
L’album, prodotto alla perfezione, è il classico lavoro studiato per entrare nelle grazie dei ragazzi sotto i vent’anni, con la vocalist che spazia tra urla metalliche e linee melodiche ruffiane, al sound che non si scosta da quanto descritto in precedenza.
Trentacinque minuti bastano e avanzano, anche perché le tracce seguono tutte la via intrapresa dal gruppo con l’opener Rewind e la successiva Fight!.
Album dedicato dunque ai più giovani fruitori di musica rock, Breathe In Colours riuscirà sicuramente a conquistare molti cuori alternative dark: in campo ci sono tutte le armi per riuscire nell’impresa, vedremo se la Nuclear Blast ci avrà visto giusto anche questa volta.

Tracklist
1. Rewind
2. Fight!
3. Breathe In Colours
4. Is It Gone?
5. Survive
6. Do Your Worst
7. Pieces
8. Rising Over You
9. Say Your Goodbyes
10. Embrace The Tide

Line-up
Maja Shining – Vocals, piano, theremin, additional synths
Mikkel Haastrup – Guitar, bass, synths, piano
Rune Frisch – Drums
Inuuteq Kleemann – Live guitar

FOREVER STILL – Facebook

Inanimate Existence – Clockwork

Gli Inanimate Existence migliorano quanto già espresso sul precedente Underneath a Melting Sky, confermando la loro sagacia nel saper esprimere la propria tecnica, rimanendo confinati in una forma canzone che vede il death metal nato nella storica area, pregno di spunti progressivi.

Nuovo lavoro per gli Inanimate Existence, trio californiano arrivato con Clockwork al quinto lavoro sulla lunga distanza.

Death metal tecnico e progressivo dunque, niente di nuovo ma assolutamente in grado di dire la sua nel panorama underground estremo grazie ad un buon talento per il songwriting che, pur tra le cascate di note dalla difficoltà sovrumana rimane leggibile per chi ascolta.
Violento ed estremo, il sound del gruppo della bay Area si sviluppa su scale iperboliche e progressive, la bravura strumentale dei musicisti alle prese con un death metal senza compromessi non lascia scampo tra le trame di brani come Voyager o Diagnosis, ispirati dai capisaldi del genere.
Gli Inanimate Existence migliorano quanto già espresso sul precedente Underneath a Melting Sky, confermando la loro sagacia nel saper esprimere la propria tecnica, rimanendo confinati in una forma canzone che vede il death metal nato nella storica area, pregno di spunti progressivi.
Il sound del trio ha molto del gruppo del compianto Chuck Schuldiner, portato ad una dimensione ancor più progressiva come nella conclusiva e spettacolare Liberation.
Una band che conferma quanto di buono fatto in passato, consigliata a ai fans del death metal tecnico e progressivo.

Tracklist
1. Clockwork
2. Voyager
3. Apophenia
4. Desert
5. Solitude
6. Diagnosis
7. Ocean
8. Liberation

Line-up
Cameron Porras – Guitar, Vocals
Scott Bradley – Bass, Vocals
Ron Casey – Drums (Continuum, ex-Brain Drill)

INANIMATE EXISTENCE – Facebook

Vargrav – Reign in supreme darkness

Secondo lavoro per la one-man band di Hyvinkää (Finlandia). Uscito per la prolifica Werewolf, Reign in Supreme Darkness è un riuscito affresco di quanto di più malvagio il Black Metal scandinavo possa oggi proporci.

I Vargrav, one-man band finlandese capitanata dal misterioso V-Khaoz (all’anagrafe Ville Pallonen), è quanto di più arcano ed impenetrabile ci possa oggi capitare tra le mani.

Già il nome scelto, porta con sé enigmatici occulti significati. Secondo Mr. Pallonen, intanto, il nome deriva dalla parola svedese varg (lupo) e grav (tomba); inoltre Vargrav è un palindromo (si legga al contrario, non cambia nulla) composto da 7 lettere. Sette, come ben sappiamo è il numero – tra gli altri – più spirituale, il numero magico per eccellenza, della ricerca e dell’analisi mistica. Pensiamo solamente a quante volte il numero sette compare nell’Antico Testamento oppure nella nostra vita. Per fare alcuni esempi, ricordiamo che 7 sono i giorni della settimana, 7 i pianeti sacri, 7 le virtù e i vizi capitali, 7 i Sacramenti, 7 le braccia del candelabro ebraico, 7 gli anni di disgrazia provocati, secondo la tradizione, dalla rottura di uno specchio, 7 gli anni necessari affinché il corpo si rigeneri, 7 gli attributi fondamentali di Allah (tant’è vero che il 7 è numero della perfezione nell’Islam), e ancora, i sette colori che compongono l’arcobaleno, le sette note musicali, i sette passi del Buddha, i 7 Chakra e così via. Inoltre non dobbiamo dimenticare che 7 deriva dall’unione del 3 (il ternario divino) con il 4 (il quaternario terrestre). Guarda caso è anche il numero della Piramide, che è formata dal triangolo, 3, su quadrato, 4. Infine – come diceva Ippocrate – Il sette, per le sue virtù celate, mantiene nell’essere tutte le cose; esso è dispensatore di vita, di movimento ed è determinante nell’influenzare gli esseri celesti.
Insomma, comunque si guardi il nome Vargrav, si viene magicamente catapultati nel misticismo simbolico, non solo religioso, nell’introversa introspettiva analisi del tutto, del mondo terreno, del mondo spirituale. E la sua musica, il suo secondo sforzo discografico (dopo un buon Netherstorm del 2018), non poteva che assumersi il gravoso incarico di rappresentare ed esprimere quanto il suo stesso monicker rappresenta. Ovviamente, trattandosi di Black Metal, il tutto viene qui corredato da atmosfere profondamente maligne e malignamente profonde. Sì, perché Reign in Supreme Darkness è un epicureo dell’orrore, ma di sensismo opposto, ove il criterio del bene viene implacabilmente rimpiazzato dal piacere del male. Un album che sgorga malvagità da ogni singola nota, epicamente catapultato in epoche antiche di cavalieri neri, di castelli maledetti, di demoniache creature, e di crudeli battaglie senza fine, sovrastate da un empireo nero e viola e da una luna piena, in parte offuscata dall’immagine di una crudele magica Nera Mietitrice (si veda all’occasione, la cover dell’album). Un Black Metal imponente, maestoso, corroborato da un uso costante dei synth, che qui non vivono di vita propria, non servono per creare singoli momenti dark ambient, di scontata atmosfera black lounge; divengono invece – in brani come In Streams from Great Mysteries o The Glory of Eternal Night ad esempio – parte integrante ed inseparabile di tutta la struttura musicale, accompagnando in solido chitarre e basi ritmiche – il tutto attestato sulle stesse medesime frequenze , com’è d’altronde tipico del Black Metal – in un oscuro viaggio sonoro, immaginifico (come potrebbe dirci D’Annunzio) e pertanto abile creatore e suscitatore di immagini, nere, tetre, malevole, diaboliche, inumane. L’iniqua Arcane Stargazer che chiude l’album, è il pezzo più riuscito. Più di otto minuti glaciali, in un ossimoro di gelido calore avernale, di puro Black nordico che, ricolmo di annichilente solitudine (alone in this cold tower), conduce l’ascoltatore alla ricerca vana di risposte dagli astri (i seek for answers from the stars), avvolto dalle tenebre più totali (in the absence of light), prima di un ultimo saluto alla Nera Mietitrice (i greet the glorious death).
Da Crowned by Demonstorms: Coronati ad tenebras / de gremio, sedens super peccatum / atria morte / chorus triumphi claritate / tollens ad sidera gladio / novam periodum incipere (Circondati dalle tenebre / dal grembo, siede sopra il peccato / atrio della morte / con lo splendore di cori trionfali / colui che ascende alle stelle con la spada / per l’inizio di una nuova era), che altro aggiungere?

Tracklist
1. Intro – Et in Profundis Mysteriis Operta
2. The Glory of Eternal Night
3. Dark Space Dominion
4. In Streams from Great Mysteries
5. As the Shadows Grow Silent
6. Crowned by Demonstorms
7. Godless Pandemonium
8. Arcane Stargazer

Line-up
V-Khaoz – All instruments

VARGRAV – Facebook

Oigres – Psycho

Psycho convince per il suo essere diretto, essenziale ma non banale: la svolta attuata dal musicista torinese è del tutto condivisibile e non dà spazio ad alcun tipo di recriminazione, lasciando aperti al contrario diversi interessanti scenari da esplorare nel prossimo futuro.

Oigres è il nuovo progetto solista che vede all’opera Sergio Vinci, conosciuto nell’ambiente estremo italiano anche per essere stato il leader degli ottimi Lilyum, una delle migliori espressioni nazionali a mio avviso per quanto riguarda il black metal nelle sue vesti più ortodosse.

I brani contenuti in questo lavoro hanno però ben poco a che vedere con quell’esperienza, se non per l’approccio diretto e rabbioso che qui si estrinseca sotto forma di un thrash/groove hardcore cantato prevalentemente in italiano e che, anche per questo, rimanda a livello attitudinale a gruppi come i Negazione e relativa genia di provenienza piemontese.
I testi abrasivi, ma non privi di slanci poetici, sono sorretti da un sound che non si perde in preamboli ma va dritto all’obiettivo lasciando spazio a tempi più diluiti solo nella pregevole traccia ambient di chiusura, Outro – Openclosed.
Come detto, il nome Lilyum vale qui essenzialmente quale sorta di garanzia della bravura e della sincerità di un musicista come Sergio, che qui si disimpegna in maniera lineare ma alquanto efficace anche nelle vesti di cantante.
Brani come Fermo, Lontano Da Me e Stella, in particolare, sono sferzate di energia contenenti un’urgenza espressiva che, probabilmente, all’interno di una band rischiava d’essere in qualche modo mediata o filtrata, mentre lo stesso monicker prescelto testimonia ampiamente come questa nuova avventura sia, per Sergio Vinci, un qualcosa di intimo, al riparo da qualsiasi interferenza esterna dal punto di vista prettamente compositivo.
Psycho convince per il suo essere diretto, essenziale ma non banale: anche se, come si può intuire dalla mia premessa, non posso considerare la fine dei Lilyum come una buona notizia, la svolta attuata dal musicista torinese è del tutto condivisibile e non dà spazio ad alcun tipo di recriminazione, lasciando aperti al contrario diversi interessanti scenari da esplorare nel prossimo futuro.

Tracklist:
1. Intro – Lifog
2. Fermo
3. Lontano Da Me
4. Stella
5. I Am
6. Scivola Via
7. No Fear, No Truth
8. Outro – Openclosed

Line-up:
Sergio Vinci

OIGRES – Facebook

Bethlehem – Lebe Dich Leer

Il sound dei Bethlehem, come sempre, abbina alla sua base black un tocco teatrale ed un’anima dark doom e il risultato appare in linea con il trend delle ultime uscite, ovvero buono ma non imprescindibile.

A circa tre anni dall’ultimo lavoro autointitolato tornano gli storici Bethlehem con il loro nono album di una carriera che ha ormai superato il quarto di secolo.

La creatura musicale da qualche tempo nelle mani del solo Bartsch gode di una meritata aura di culto che ne rende sempre molto attese le uscite anche se, francamente, le produzioni di questo decennio hanno fornito risultati validi ma non eclatanti.
Lebe Dich Leer ha sicuramente il pregio di andar via liscio e diretto nei due trascinanti primi brani, Verdaut in klaffenden Mäulern e Niemals mehr leben, mentre le cose non scorrono altrettanto bene allorché il sound si fa decisamente più ricercato e avanguardistico.
In tal senso contribuisce, nel bene e nel male, lo screaming della vocalist polacca Onielar, confermata rispetto al precedente album, che a mio avviso ben si adatta a ritmiche dirette ed incalzanti, ma molto meno allorché il sound esibito richiede un’interpretazione diversa rispetto a tonalità a tratti parossistiche.
Il sound dei Bethlehem, come sempre, abbina alla sua base black un tocco teatrale ed un’anima dark doom e il risultato appare in linea con il trend delle ultime uscite, ovvero buono ma non imprescindibile.
In sintesi, oltre che nelle già citate tracce iniziali, le valide e ficcanti sfuriate propriamente black si manifestano a intermittenza confermando quello che in molti pensano ma non tutti dicono, ovvero che scelte compositive maggiormente lineari spesso producono risultati ben più apprezzabili e tangibili rispetto a digressioni e scostamenti dalla via maestra che, in mancanza di geniali scintilli, finiscono solo per diluire i contenuti: questo non vale solo per i Bethlehem, chiaramente…

Tracklist:
1. Verdaut in klaffenden Mäulern
2. Niemals mehr leben
3. Ich weiß ich bin keins
4. Wo alte Spinnen brüten
5. Dämonisch im ersten Blitz
6. An gestrandeten Sinnen
7. Ode an die obszöne Scheußlichkeit
8. Aberwitzige Infraschall-Ritualistik
9. Bartzitter Flumgerenne

Line-up:
Bartsch – Bass, Electronics
Torturer – Drums
Karzov – Guitars, Electronics
Onielar – Vocals

Kampfar – Ofidians Manifest

L’arte pura dei Kampfar rifulge ancora una volta; più black e meno viking, ma sempre potenti, feroci e personali.

Si parla sempre poco di questa band norvegese, o meglio, si cita il suo nome solo quando ci sono nuove release, ma quando si discute o si legge di Black Metal è raro che siano ricordati, eppure non parliamo di un gruppo anonimo o di scarsa forza e personalità.

I Kampfar sono attivi dal lontano 1995, con il promo e l’omonimo EP del 1996 (uscito per Season of Mist) hanno dato inizio alle danze pagane e viking dei musicisti, capitanati da sempre dal vocalist Dolk, compiendo nell’arco di otto full length, compreso questo, un percorso sempre più personale e pervaso di grande forza interpretativa. La band ha intrapreso un cammino evolutivo lento, mantenendo sempre una propria identità, passando dai primi dischi più dediti a un suono viking feroce e cattivo, ricordiamoci dell’esordio su lunga distanza Mellom Skogkledde Aaser con la sua meravigliosa e tematica cover, senza dimenticare le fredde distese di Kvass, ma ogni disco non può non colpire direttamente il freddo cuore di ogni sostenitore della materia viking e black. Ora, dopo l’ottimo Profan del 2015, ritornano con Ofidians Manifest,  un lavoro in cui si ricalca la purezza della loro ispirazione, anche se la band ora predilige più una personale visione black che viking. L’opera è molto varia nel suo incedere, è ispirata, non ricorre a nessun stratagemma manieristico, abbiamo fierezza, esaltazione con un suono energico ma allo stesso tempo dotato di una eleganza strumentale di prim’ordine. Dolk dimostra di saper colpire a fondo con il suo scream aspro ed espressivo, dove si richiamano oscurità e glacialità, mentre la capacità strumentale infiamma tutto il disco, inglobando al suo interno note pianistiche, tastieristiche e di cello che “colorano” di inedito il tutto. Un brano come Dominans colpisce per per il suo andamento ipnotico e conturbante ed è il punto di incontro tra le vocals di Dolk e di Agnete Kioslrud (singer rock norvegese, nota per vecchie collaborazioni con Dimmu Borgir) a creare un andamento maestoso. La forza evocativa di Natt, addolcita da note pianistiche, dimostra che i musicisti amano comunque sperimentare, mentre le note bathoriane di Eremitt ci ricordano quale potenza i musicisti siano in grado di sviluppare mentre il coro, in grado di far accapponare la pelle, ci inietta una grande dose di adrenalina e ci fa ulteriormente capire la grandezza dell’arte di questi musicisti. Non facciamo passare in secondo piano l’importante ritorno dei Kampfar, prestiamoci la giusta attenzione e godiamo dell’arte pura da loro espressa.

Tracklist
1. Syndefall
2. Ophidian
3. Dominans
4. Natt
5. Eremitt
6. Skamløs!
7. Det sorte

Line-up
Dolk Drums, Vocals
Jon Bakker Bass
Ask Drums, Vocals
Ole Hartvigsen Guitars

KAMPFAR – Facebook

Haunt – If Icarus Could Fly

Heavy metal old school, legato alla new wave of british heavy metal ed alle sonorità anni ottanta, mezzora di cavalcate maideniane, pregne di atmosfere epiche che faranno la gioia degli amnti del metal classico con qualche capello bianco sulla chioma sempre più rada.

La Shadow Kingdom colpisce ancora: la label statunitense licenzia il secondo lavoro su lunga distanza degli Haunt, quartetto californiano al debutto un paio d’anni fa con un ep, seguito dal primo full length uscito lo scorso anno (Burst Into Flame).

il 2019 vede il gruppo di Fresno sul mercato con un nuovo ep (Mosaic Vison) prima che If Icarus Could Fly arrivi a confermare l’ottima proposta della band californiana.
Heavy metal old school, legato alla new wave of british heavy metal ed alle sonorità anni ottanta, mezzora di cavalcate maideniane, pregne di atmosfere epiche che faranno la gioia degli amnti del metal classico con qualche capello bianco sulla chioma sempre più rada.
La band, nata come progetto solista del bassista, chitarrista e cantante Trevor William Church dei Beastmaker, vede tra le proprie fila il chitarrista John Tucker, compagno d’avventura di Church anche nel gruppo doom americano, il batterista Daniel “Wolfy” Wilson e Taylor Hollman al basso, per un combo che convince dalla prima all’ultima nota di questo gioiellino underground.
Un lavoro curato nel songwriting, a tratti davvero esaltante tra ritmiche che si trasformano in cavalcate che non conoscono passi falsi, refrain metallici perfetti per far drizzare le orecchie ai defenders duri e puri, grazie ad un lotto di brani che nelle varie Run And Hide, Cosmic Kiss e l’inno Defender trovano il sentiero giusto per arrivare sulla cima della montagna dove regna il dio metallo.
Le ispirazioni vanno dagli Iron Maiden agli Warlord, passando per una buona fetta della storia dell’heavy metal classico, puro come l’acqua che sgorga dalla fonte sulla cima dove regnano gli immortali.

Tracklist
1.Run and Hide
2.It’s in My Hands
3.Cosmic Kiss
4.Ghosts
5.Clarion
6.Winds of Destiny
7.If Icarus Could Fly
8.Defender

Line-up
Daniel “Wolfy” Wilson – Drums
Trevor William Church – Vocals, Guitar, Bass
Taylor Hollman – Bass (2018-present)
John Tucker – Guitars

HAUNT – Facebook