Korpiklaani – Live at Masters Of Rock

In alto i calici e onore ai Korpiklaani …

Dopo un storia iniziata nei primi anni del secolo (ancora prima se consideriamo il periodo contrassegnato dal monicker Shaman) e nove full length che li hanno portati ad ottenere una successo di notevoli proporzioni, i Korpiklaani si autocelebrano con questo mastodontico Cd/Dvd che li immortala al Masters Of Rock di Vizovice, in Repubblica Ceca, durante due concerti tenutisi, rispettivamente, nel 2014 e nel 2016.

Gli alfieri del folk metal nordico più alcoolico sono per loro natura una band nata per le esibizioni dal vivo, nelle quali di sicuro il divertimento è garantito, a patto di avere una certa propensione per queste sonorità che, se non sono nelle proprie corde, alla lunga possono anche risultare stucchevoli.
Fatta questa doverosa premessa, è evidente che un’opera del genere può risultare appetibile particolarmente per chi è preso da un’irrefrenabile desiderio di danzare ai ritmi della humppa proposta da Jarvela e soci, anche perché, in caso contrario, l’ascolto (o la visione, nel caso del DVD/BluRay) di 38 brani piuttosto uniformi dal punto di vista ritmico, 7 dei quali peraltro eseguiti in entrambi i concerti, potrebbe risultare difficilmente digeribile senza un’assunzione alle giuste dosi.
Già, perché il problema, non di tutto il folk metal ma sicuramente di quello più caciarone (detto in senso benevolo), del quale i Korpiklaani sono fieramente tra i capiscuola, è quello di provocare nell’ascoltatore medio un’esaltazione che dura giusto per i primi due ascolti, prima di stabilizzarsi in un moderato apprezzamento, esattamente ciò che accadde quando mi imbattei per la prima volta nei nostri, in coincidenza con l’uscita del notevole Tervaskanto.
A proposito, se la scaletta è tutto sommato ben distribuita tra tutti i nove album, proprio Tervaskanto è stranamente il meno rappresentato (solo con la bellissima Viima), mentre se non altro si è ampiamente attinto ai lavori più datati ed efficaci che racchiudono, tra gli altri, brani anthemici come Journey Man o Happy Little Boozer.
Ma non so neppure se sia il caso di scendere nei dettagli e fare le pulci all’operato, presente e passato, dei Korpiklaani: Live at Masters Of Rock equivale, in fondo, al fissaggio su supporto audio visivo di una festa campestre nella quale un’ottima band si diverte ed il pubblico assiepato sotto il palco fa altrettanto (oltre a bere molto…): che piaccia o meno il genere, qui viene ampiamente raggiunto un obiettivo comune che non è mai scontato. Onore ai Korpiklaani quindi, e in alto i calici.

Tracklist:
CD1 (2016)
01. Intro (Tanhuvaara)
02. A Man With A Plan
03. Journey Man
04. Pilli on pajusta tehty
05. Erämaan ärjyt
06. Lempo
07. Sahti
08. Ruumiinmultaa
09. Vaarinpolkka
10. Viima
11. Metsämies
12. Kultanainen
13. Kipumylly
14. Ämmänhauta
15. Rauta
16. Kylästä keväinen kehto
17. Wooden Pints
18. Vodka
19. Beer Beer

CD2 (2014)
01. Intro (Tanhuvaara)
02. Tuonelan tuvilla
03. Ruumiinmultaa
04. Metsämies
05. Kantaiso
06. Juodaan viinaa
07. Petoeläimen kuola
08. Sumussa hämärän aamun
09. Vaarinpolkka
10. Kultanainen
11. Uniaika
12. Louhen yhdeksäs poika
13. Uni
14. Vodka
15. Ievan polkka
16. Rauta
17. Wooden Pints
18. Pellonpekko
19. Happy Little Boozer

Blu-ray/DVD
2016:
01. Intro (Tanhuvaara)
02. A Man With A Plan
03. Journey Man
04. Pilli on pajusta tehty
05. Erämaan ärjyt
06. Lempo
07. Sahti
08. Ruumiinmultaa
09. Vaarinpolkka
10. Viima
11. Metsämies
12. Kultanainen
13. Kipumylly
14. Ämmänhauta
15. Rauta
16. Kylästä keväinen kehto
17. Wooden Pints
18. Vodka
19. Beer Beer
2014:
01. Intro (Tanhuvaara)
02. Tuonelan tuvilla
03. Ruumiinmultaa
04. Metsämies
05. Kantaiso
06. Juodaan viinaa
07. Petoeläimen kuola
08. Sumussa hämärän aamun
09. Vaarinpolkka
10. Kultanainen
11. Uniaika
12. Louhen yhdeksäs poika
13. Uni
14. Vodka
15. Ievan polkka
16. Rauta
17. Wooden Pints
18. Pellonpekko
19. Happy Little Boozer

Line-up:
Jonne Järvelä – vocals, guitar, hurdy-gurdy & percussion
Tuomas Rounakari – fiddle
Sami Perttula – accordion
Jarkko Aaltonen – bass
Cane Savijärvi – guitars
Matson Johansson – drums

KORPIKLAANI – Facebook

Fractal Reverb – Quattro

Il sound di canzoni dirette e melodiche, colme di umori noise e fortemente indie rock sottolinea la volontà del gruppo di arrivare all’ascoltatore in modo diretto, pur mantenendo un ricercato lavoro ritmico ed armonico.

E’ tempo che i gruppi di cui vi avevamo parlato in passato tornino con nuovi lavori, chi magari deludendo non rispettando le aspettative personali di chi scrive, molti fortunatamente confermando tutto il buono che i precedenti lavori avevano messo in risalto.

I lombardi Fractal Reverb, si ripresentano sul mercato underground con un nuovo lavoro in formato ep di quattro brani che porta importanti novità rispetto a Songs to Overcome the Ego Mind, full length licenziato un paio di anni fa e che si presentava come un’opera monumentale di rock alternativo, poco adatta all’ascolto distratto ma che indubbiamente aveva nelle sua dimensioni eccessive il maggiore difetto, anche se metteva in risalto le ottime potenzialità del gruppo.
Carolina Locatelli (basso e voce) e Davide Trombetta (chitarra) tornano dunque con non poche novità insite nel nuovo Quattro, che ci presenta i due nuovi entrati nella formazione, il chitarrista Riccardo Burlini ed Alessandro Pinotti che prende il posto di Denny Cavalloni dietro alle pelli.
Abbandonato l’idioma inglese, i Fractal Reverb si ripresentano con un titolo che prende ispirazione dal numero delle canzoni che compongono l’ep e dalla nuova line up, con il non poco importante inserimento di una seconda chitarra che arricchisce il sound dei nostri, oggi meno scarno ed essenziale, con sfumature melodiche più accentuate anche se la band taglia definitivamente il cordone ombelicale che la legava al grunge per prendere una propria strada dagli orizzonti indie ed alternative molto marcati.
Quattro risulta così una nuova partenza per i Fractal Reverb: il sound di canzoni dirette e melodiche, colme di umori noise e fortemente indie rock, come l’opener Divampa o la splendida Frastuono, sottolineano la volontà del gruppo di arrivare all’ascoltatore in modo diretto, pur mantenendo un ricercato lavoro ritmico ed armonico che ne dimostra la raggiunta maturità.

Tracklist
1. Divampa
2. Attonito
3. Frastuono
4. Pioggia e sole

Line-up
Carolina Locatelli – basso, voce
Davide Trombetta – chitarra
Riccardo Burlini – chitarra
Alessandro Pinotti – batteria

FRACTAL REVERB – Facebook

Eluveitie – Evocation II-Pantheon

Continua con immutato vigore la grande ricerca storica e stilistica che gli svizzeri hanno sempre compiuto per i loro dischi. Evocation II : Pantheon è in pratica un viaggio nel cuore degli dei celtici e non solo, uno scoprire l’anima nascosta dell’Europa occidentale.

Tornano i maggiori interpreti svizzeri del folk metal, con l’atteso seguito di Evocation I : The Arcane Dominion, riprendendo il discorso interrotto nel 2009, anche se poi continuato con altri dischi.

La creatura di Chrigel Glanzmann ha ben quattro nuovi membri e non sono state poche le difficoltà da Origins del 2014, ma ora il gruppo è tornato più forte che mai. Ascoltando questo disco non si può fare a meno di essere rapiti dalla bellezza della loro musica, accompagnata dal dolcissimo canto della nuova cantante Fabienne Erni, davvero una scelta azzeccata. Continua con immutato vigore la grande ricerca storica e stilistica che gli Eluveitie hanno sempre compiuto per i loro dischi: Evocation II : Pantheon è in pratica un viaggio nel cuore degli dei celtici e non solo, uno scoprire l’anima nascosta dell’Europa occidentale. Ci sono credenze e riti molto antichi che hanno accompagnato i nostri avi, che erano comuni ad un insieme di popoli, accompagnati da una grande ricerca esoterica spazzata via dal cristianesimo, che essendo un culto monoteistico molto aggressivo mal tollerava le divergenze, ed infatti gran parte delle chiese sono state edificate su luoghi di precedenti templi pagani. Grazie a persone come gli Eluveitie si è però riusciti a tramandare la vera tradizione delle nostre terre, il pantheon delle divinità legate alla natura, come Cerunnos, il dio cervo proveniente da un’eredità spirituale ben più antica dei celti, da un trapassato remoto che abbiamo dimenticato. La musica è quanto di meglio possa offrire il vero folk metal, sempre volto a ricreare suoni e musiche antiche con una grande ricerca filologica. La lingua utilizzata dagli svizzeri è il gallico, con testi scritti grazie a consultazioni con insigni linguisti. Ciò che colpisce maggiormente è come questa musica riesca a colpire al cuore menti considerate moderne, perché qui si parla ad una parte della nostra anima che è sopita dentro di noi, ma che è ben viva e presente. Non so se si possa parlare di migliore prova in generale per il gruppo elvetico, poiché la sua qualità è sempre stata alta, ma questa è una prova molto convincente e magica, che va ben oltre la musica. Ascoltando ad occhi chiusi pezzi come Artio la mente vola lontana, a prati ancora vergini, risate di donne e uomini, sudore di vita dura, boschi brulicanti di vita e portali tra una dimensione e l’altra, e quando entra il flauto la magia aumenta. Una grande prova per uno dei migliori gruppi di musica folk.

Tracklist
1.Dvressu
2.Epona
3.Svcellos II (Sequel)
4.Nantosvelta
5.Tovtatis
6.Lvgvs
7.Grannos
8.Cernvnnos
9.Catvrix
10.Artio
11.Aventia
12.Ogmios
13.Esvs
14.Antvmnos
15.Tarvos II (Sequel)
16.Belenos
17. Taranis
18.Nemeton

Line-up
Alain Ackermann – Drums
Chrigel Glanzmann – Vocals, Mandola & Mandolin, Tin & Low Whistles, Bagpipes, Bodhràn
Michalina Malisz -Session Hurdygurdy
Jonas Wolf – Guitars
Rafael Salzmann – Guitars
Matteo Sisti – Tin & Low Whistles, Bagpipe, Mandola
Kay Brem – Bass
Nicole Anspenger- Fiddle
Fabienne Erni – Vocals, Harp, Mandola

ELUVEITIE – Facebook

Darkenhöld – Memoria Sylvarum

Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Quarto album per un’altra ottima band black metal francese, i nizzardi Darkenhöld.

Memoria Sylvarum arriva tre anni dopo il già ottimo Castellum, rispetto al quale la band attenua la componente folk per spingere maggiormente su una vena più oscura e raggiungendo, se possibile, un equilibrio ancora maggiore tra tutte le componenti che entrano a far parte del sound.
I testi, ormai del tutto interpretati in lingua madre, abbandonano la loro ispirazione medievale per spostarsi verso una più canonica ma sempre efficace componente naturalistica, nella fattispecie costituita dalle foreste del sud della Francia: in questo senso appare rafforzato il legame con il black di stampo scandinavo, anche se allo stesso tempo il tratto stilistico dei Darkenhöld conserva una certa personalità.
Il pregio maggiore dei trio è quello di offrire una versione del genere di buona fruibilità e limpidezza, con un approccio melodico ed atmosferico anteposto a qualsiasi altro tipo di orpello, senza così appesantire l’assimilazione di un album della giusta durata, dove ogni elemento è perfettamente incastonato nell’insieme, siano essi arpeggi chitarristici di matrice folk oppure assoli di scuola hreavy.
Brani magnifici come Ruines Scellées en la Vieille Forêt, Errances e la conclusiva Présence des Orbes sono il viatico migliore per immergersi con i Darkenhöld in un’epoca passata, accompagnati da sonorità che, pur nelle loro sembianze estreme, conservano un’aura antica che ben si sposa con l’immaginario lirico.
Una bella conferma per un gruppo che si colloca senza dubbio tra i migliori interpreti del black metal dalle sfumature epico-tradizionali.

Tracklist:
1. Sombre Val
2. La Chevauchée des Esprits de Jadis
3. Ruines Scellées en la Vieille Forêt
4. A l’Orée de l’Escalier Sylvestre
5. La Grotte de la Chèvre d’Or
6. Sous la Voûte de Chênes
7. Clameur des Falaises
8. Errances (Lueur des Sources Oubliées)
9. Présence des Orbes

Line-up:
Aboth – Drums, Percussion, Keyboards
Aldébaran – Guitars, Keyboards, Bass
Cervantes – Vocals

DARKENHOLD – Facebook

Razz – Nocturnal

I Razz fanno parte di quei gruppi che riescono a vivere in un limbo musicale, prendendo spunto dai loro più noti predecessori, ma giocandosi tutto su un paio di canzoni per poi finire nel compitino.

Il rock suonato fuori dal circuito della musica dura, e figlio dell’indie e dell’ alternative, con il post davanti a rock, o a dark o a wave, a seconda di chi si avvicina alle opere in questione, potrà continuare a fare la voce grossa sui canali satellitari, ma in generale risulta poca cosa, tutto uguale e noiosissimo, cercando di risultare intellettuale senza riuscire ad avere un minimo di personalità come i mostri sacri del passato.

Appunto quella maledetta parola (post) davanti ad un genere o sottogenere è diventato il modo per camuffare lavori bruttini cercando a tutti i costi di dargli un tono ed avvicinarli a quei gruppi che all’alternative del decennio ottantiano hanno amalgamato, con maestria e talento, dark rock e new wave (Editors) o indie (Interpol).
Il post punk degli anni ottanta ha lasciato in eredità tanto, ma sembra che pochi nel genere ne abbiano approfittato, lasciando il compito ad un singolo di tirare album di cui tra pochi mesi nessuno si ricorderà.
I Razz fanno parte di quei gruppi che riescono a vivere in un limbo musicale, prendendo spunto dai loro più noti predecessori, ma giocandosi tutto su un paio di canzoni per poi finire nel compitino.
Nocturnal, appunto, dovrebbe avvicinare la band al sound dark ed intimista degli Editors, invece frena dopo un paio di brani e si mette in fila, lasciando che l’ascoltatore aspetti invano uno scrollone nel songwriting.
Il singolo Paralysed e poi un paio di tracce nelle quali le atmosfere alternano un buon uso dell’elettronica e sfumature indie rock (Another Heart Another Mind, Let It In Let It Loud) accompagnate dalla voce di Niklas K,eiser, chitarrista e singer leggermente monocorde, fanno di Nocturnal un lavoro sufficiente ma nulla più, peccato.2

Tracklist

1.Paralysed
2.Trapdoor
3.Could Sleep
4.Another Heart/Another Mind
5.Silver Lining
6.Step, Step, Step
7.By & By
8.Lecter
9.Let It In, Let It Out
10.If There Was A Light
11.Breathe In

Line-up

Niklas Keiser – vocals, rhythm guitar
Steffen Pott – drums, backing vocals
Christian Knippen – lead guitar, backing vocals
Lukas Bruns – bass

RAZZ – Facebook

Beastcraft – The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship

I Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.

Il black metal primigenio vive in questa che sarà l’ultima uscita marchiata Beastcraft, creatura demoniaca e blasfema nata nel 2003 per volere di Sorath e Alastor, quest’ultimo scomparso nel 2012.

Sorath ha dato alle stampe questo notevole esempio di black metal maligno ed efferato, composto da brani scritti quando ancora Alastor non era sceso negli inferi, magari come tributo o più semplicemente per fare in modo che queste nove perle nere non andassero perse.
The Infernal Gospels Of Primitive Devil Worship ci conduce nel mondo sonoro del duo norvegese, una delle band più sottovalutate del panorama estremo di stampo black: lo si evince  ascoltando queste gemme oscure e blasfeme, brani diretti e pregni di insani blast beat e splendidi e decadenti muri di black cadenzato e declamatorio, cavalcate atmosfericamente infernali rese perfettamente malvage da una produzione che si rifà alle prime messe nere anni novanta (Demonic Perversion e Deathcraft And Necromancy)
Un pezzo di storia del black metal norvegese, magari commercialmente parlando in ritardo di qualche anno (nel 2003 la fase true aveva ceduto il passo alle velleità sinfoniche ed atmosferiche): i Beastcraft ci salutano con The Beast Descends, sorta di addio in salsa luciferina, freddo e glaciale come una cupa foresta scandinava dove si trova la porta per l’inferno.
L’album è completato da un DVD contenente rare esibizioni live e in studio, rivelandosi un gioiellino per gli amanti del gruppo e del true norwegian black metal.

Tracklist
1. Aapenbaring
2. Demonic Perversion
3. Deathcraft And Necromancy
4. The Fall Of The Impotent God
5. Her Highness Of Hell
6. Reborn Beyond The Grave
7. Waging War On The Heavens
8. The Devil’s Triumph
9. The Beast Descends

Line-up
Alastor – Guitar, bass
Sorath – Vocals, drums

https://www.facebook.com/BeastcraftOfficial

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
78

Astarium – Drum-Ghoul

La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.

Ho avuto occasione nelle scorse settimane di parlare della one man band siberiana Astarium, prima con l’ep Epoch Of Tyrants e poi con lo split assieme a Burnt e Scolopendra Cingulata.

Vista l’iperproduttivita di SiN, l’uomo che sta dietro a tutto questo, per evitare di esser nuovamente sorpassato dall’attualità mi precipito a scrivere due righe anche su quello che, per ora, sembra essere l’ultimo parto dell’instancabile musicista di Novosibirsk, il full length Drum-Ghoul.
Se nelle precedenti occasioni avevo apprezzato la genuinità dell’operato da parte del nostro, ritenendo nel contempo un po’ troppo scolastico il risultato dal punto di vista prettamente musicale, devo dire che quelli che nella precedente occasione mi apparivano come insanabili difetti, questa volta acquisiscono una loro funzione essenziale.
La chiave di volta è il suono delle tastiere, che in un ambito dichiaratamente orrorifico come quello di Drum-Ghoul, con il loro timbro minimale, a tratti vicino a quello delle mitiche tastierine Bontempi (i miei connazionali meno giovani capiranno di cosa sto parlando), si rivelano più funzionali alla creazione di un’atmosfera profondamente malata e nel contempo surreale.
La lunghissima opener Hill Of Scape-Gallows (oltre un quarto d’ora di durata) funge da prova del nove per l’ascoltatore: chi riesce ad arrivare senza fatica alla sua fine, da qual momento in poi potrà godersi un lavoro strambo quanto si vuole, ma decisamente affascinante; la voce continua ad essere uno screaming piuttosto piatto alternato ad un growl effettato ma, tutto sommato, contribuisce a creare quell’alone straniante che ha comunque nel suono della tastiere il suo principale artefice.
Dread Asylum è piuttosto gobliniana nel suo snodarsi melodico, e in fondo pensare a quest’album come un’ipotetica soundtrack di un film horror è un’ipotesi tutt’altro che peregrina, mentre Hospitality Of Demon si snoda in maniera più canonica mantenendo comunque le caratteristiche sonore delle altre tracce, con Pernicious Elixir a chiudere le macabre danze con il suo reiterato giro di tastiera, preludio di un finale che si stempera con uno pseudo-violino.
La perfezione sta altrove, ma qui non si può fare a meno di apprezzare la voglia di creare qualcosa di differente, soprattutto con scelte che possono anche apparire discutibili ma che, alla fine, rendono il tutto personale ed intrigante, specie se applicate come in questo caso a sonorità più orrorifiche che sinfoniche.
SiN è portatore di una concezione della musica lontana diversi anni luce lontana da qualsiasi parvenza di commercialità, e solo anche per questo si merita un certo credito, al di là di tutte le altre considerazioni.

Tracklist:
01. Hill Of Scape-Gallows
02. Dread Asylum
03. Hospitality Of Demon
04. Pernicious Elixir
Line up:
SiN – All instruments, Vocals

ASTARIUM – Facebook

Die Apokalyptischen Reiter – Der Rote Reiter

Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e all’insegna di una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.

I Die Apokalyptischen Reiter arrivano al loro decimo full length, un traguardo ragguardevole per una band dalla storia ultraventennale, tanto più se all’insegna dell’anticonvenzionalità unita ad un elevato livello medio.

Probabilmente l’effetto sorpresa che rendeva irrinunciabili lavori come Samurai e Riders Of The Storm è venuto un po’ meno, complice anche un progressivo indurimento del sound che ha portato i nostri in più di un frangente ad avvicinare stilisticamente i connazionali Rammstein, dai quali comunque divergono per un approccio più scanzonato e in generale più rock oriented.
In ogni caso Der Rote Reiter è un lavoro brillante, forse leggermente prolisso ma ricco comunque di un novero di canzoni di grande spessore e contraddistinto da una creatività che non si è andata affatto spegnendo nel corso del tempo.
Come per le migliori band, quello che fa la differenza è un’impronta personale che resta a prescindere dal diverso approccio che si può riscontrare prendendo in esame i singoli album, e questo viene confermato fin dalle prime note di Wir sind zurück, brano DAR al 100%, furiosamente melodico ed accattivante, mentre la più violenta ed anche cupa title track rappresenta uno dei corrispettivi più metallici del lavoro.
Con Auf und nieder si torna a quelle melodie chitarristiche vagamente folk che fungono da prologo ad una struttura fortemente orecchiabile ed esibiscono in maniera più esplicita il trademark della band, che poi si lascia andare ad un’altra traccia fortemente rammsteiniana come Hört mich an, dove comunque sia l’utilizzo della chitarra in fase solista e la grande versatilità vocale di Fuchs mantengono il sound a distanza di sicurezza da quello tipico del gruppo berlinese.
Del resto se, in The Great Experience of Ecstasy, l’ingannevole punk hardcore iniziale prelude ad un finale altamente evocativo, con la magnifica Herz In Flamme si finisce addirittura dalle parti del death melodico, mentre la solennità del chorus all’interno del disturbato incedere di Ich nehm dir deine Welt prelude alla chiusura rappresentata dalla gradevole ballata Ich werd bleiben.
I Die Apokalyptischen Reiter fanno parte di quella categoria di band che non lasciano indifferenti, nel bene o nel male: personalmente, oltre ad amare in maniera illogica l’idioma tedesco applicato al rock ed al metal (pur non capendone una parola) ho sempre apprezzato questo bizzarro combo, considerandolo quale portatore di un’espressione fresca ed originale e, sicuramente, Der Rote Reiter non mi farà recedere da tale giudizio.

Tracklist:
1. Wir sind zurück
2. Der rote Reiter
3. Auf und nieder
4. Folgt uns
5. Hört mich an
6. The Great Experience of Ecstasy
7. Franz Weiss
8. Die Freiheit ist eine Pflicht
9. Herz in Flammen
10. Brüder auf Leben und Tod
11. Ich bin weg
12. Ich nehm dir deine Welt
13. Ich werd bleiben

Line up:
Volk-Man – Bass
Dr. Pest – Keyboards
Fuchs – Vocals, Guitars
Sir G. – Drums
Ady – Guitars

DIE APOKALYPTISCHEN REITER – Facebook

Uber Scheizer – King Of Rock

King Of Rock, del polistrumentista bolognese Giuseppe Lentini alias Uber Scheizer, risulta un tributo ai re dell’hard rock classico tra gli anni settanta ed il dorato (per il genere) decennio successivo.

Musicista attivo nell’area bolognese da un bel po’ di anni, Giuseppe Lentini è stato in passato il cantante dei rockers Overlord Rockstar II, in seguito ha collaborato con diverse band della scena underground cittadina ed il suo eclettismo lo ha portato a comporre musica elettronica come one man band.

Usando il monicker Uber Sheizer ha lavorato su questo progetto, assemblando brani composti nel corso degli anni, trasformandoli di fatto in un album hard rock dal titolo King Of Rock.
E l’opera risulta proprio un tributo ai re dell’hard rock classico tra gli anni settanta ed il dorato (per il genere) decennio successivo, aiutato solo da Giacomo Grassi nel brano Fire In The Night e suonando tutti gli strumenti.
Anche Uber Sheizer è dunque l’ennesima one man band. con il polistrumentista nostrano che se la cava con tutti gli strumenti e (cosa più importante) con il songwriting.
King Of Rock è un album piacevole, prodotto con quel tocco vintage che lo posiziona tra le uscite di una trentina d’anni fa, tra tasti d’avorio purpleiani, ritmiche hard rock di scuola tradizionale (UFO e primi Judas Priest);
poco incisiva la voce, ma è un dettaglio, perché l’album vive di chitarre graffianti e buone melodie neanche troppo nascoste tra riff pesanti e metallici di scuola classica.
L’opener 40 Miles A Day, Fire In The Night e la title track sono gli episodi migliori, ma è tutto King Of Rock che funziona, riportando al periodo della gioventù molti rockers con ormai troppi capelli bianchi.

Tracklist
1. 40 Miles A Day
2. King Of Rock
3. I Want You Forever
4. Fire In The Night
5. Hell Is Your Way
6. Beginning Again
7. I Am The Night
8. Now
9. More Metal Than Metal
10. Lay On The Floor

Line-up
Giuseppe Lentini: Vocals, Guitars, Bass, Drums, Keyboards

UBER SHEIZER – Facebook

Lascar – Saudade

Il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia.

Secondo full length in un breve lasso di tempo per il cileno Gabriel Hugo ed i suo progetto solista Lascar, dopo Abscence uscito all’inizio del 2016.

Saudade continua con lo stesso canovaccio, ovvero quella di un post black dalle terminazioni shoegaze e depressive, sulla falsariga di nomi come Ghost Bath ma, ovviamente molto meno curato a livello di produzione e sicuramente più genuino e sentito dal punto di vista compositivo.
Lo screaming di matrice DSBM del musicista di Santiago si staglia su un tessuto sonoro che sovrappone accelerazioni in blast beat a passaggi ariosamente malinconici leggermente affossati da un lavoro alla consolle non proprio impeccabile, senza che però il tutto vada a vanificare la buona propensione melodica dell’opera nel suo insieme.
Il modus operandi si ripete puntualmente in ognuna delle quattro tracce dalla lunghezza media di una decina di minuti, senza presentare quindi variazioni sul tema ma neppure smarrendo il pathos che Hugo riversa nelle proprie composizioni, capaci di restituire in maniera compiuta quel senso di perdita, fragilità e disperazione che viene opportunamente citato in sede di presentazione.
Allo stesso modo il titolo Saudade, nel senso di sentimento di rimpianto, di malinconia nostalgica, si adatta alle perfezione a queste sonorità che non possono mai lasciare indifferenti gli animi sensibili, specialmente quando vengono maneggiate con questa perizia, trovando a mio avviso i propri picchi nella seconda metà dell’album con Uneven Alignment e Bereavement.
Al netto dello schema compositivo forse un po’ troppo reiterato e di suoni non sempre limpidissimi, quest’opera nome Lascar dovrebbe trovare senz’altro i favori del pubblico di nicchia che ama questo particolare sottogenere del black.

Tracklist:
01) Tender Glow
02) Thin Air
03) Uneven Alignment
04) Bereavement

Line up:
Gabriel Hugo – All instruments, Vocals

LASCAR – Facebook

Demonic Death Judge – Seaweed

Un album che, nella sua tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.

Una prova di forza esagerata quella messa in atto dai finlandesi Demonic Death Judge, monicker che potrebbe far pensare ad un gruppo death o black, ma che nasconde invece un combo di picchiatori slugde/stoner che si fermano solo quando sarete al tappeto in un lago di sangue.

Seaweed è il terzo album di questo mastodontico schiaccia sassi nordico, attivo dal 2009 e che aggiunge ai full lenght due split e un paio di ep.
Jaakko Heinonen, singer cattivissimo, guida questa macchina estrema, con la sei corde di Toni Raukola che intona riff pesanti come macigni, poi sgretolati dalla sezione ritmica, un mostro cannibale che fagocita tutto e tutti, pesante e senza pietà avanza incontrollabile, travolgendo e schiacciando sotto il peso di watt forgiati nel buio di una caverna inumidita da uno dei mille laghi della loro terra natia (Eetu Lehtinen al basso e Lauri Pikka alle pelli).
Il metal di questi anni non potrà essere descritto senza parlare di queste sonorità, a loro modo estreme, affascinanti quando racchiudono sfumature mistiche come nello strumentale Cavity o nelle divagazioni progressive della potentissima Saturday, doom metal/stoner/sludge ipnotico, durissimo ma perfettamente in grado di scavare dentro all’ascoltatore, che difficilmente resisterà nel tornare a farsi torturare dal combo finlandese al più presto.
Un album che, nella su tremenda forza, appaga, smobilita, appassiona, distrugge e crea, modellando montagne come un vento nato dall’impatto di un meteorite sul pianeta, in un delirio di note grasse portate al limite.
Per gli amanti del genere un album indispensabile per attraversare questa estate, tra mare e tormentoni radiofonici odiosi come una vipera nel cesto dei funghi.

TRACKLIST
01. Taxbear
02. Heavy Chase
03- Seaweed
04. Cavity
05. Backwoods
06 Pure Cold
07. Saturday
08. Peninkulma

LINE-UP
Jaakko Heinonen – Vocals
Toni Raukola – Guitars
Eetu Lehtinen – Bass
Lauri Pikka – Drums

DEMONIC DEATH JUDGE – Facebook

Nagaarum – Homo Maleficus

L’interpretazione del black metal da parte di Nagaarum è abbastanza personale senza essere cervellotica e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.

Eccoci al cospetto di un altro musicista connotato da una produttività apparente compulsiva: il suo nome é Nagaarum, proviene dall’Ungheria e Homo Maleficus è il suo quattordicesimo full length dal 2011.

Ho già detto la mia al riguardo, ma mi ripeto a scanso di equivoci: una certa iperattività è sempre benvenuta, specie viene asservita ad un talento cristallino, altrimenti è grande il rischio di disperdere il proprio potenziale in una forsennata iperattività.
Il musicista magiaro, del quale malgrado tutto scopro l’esistenza solo in questa occasione, non pare essere afflitto più di tanto da certi problemi: la sua interpretazione del black metal è abbastanza personale senza essere cervellotica (se si eccettuano gli schizofrenici cambi di tempo di Vassal Nevelt) e si sviluppa in maniera nervosa, inquietante e priva sostanzialmente di paletti stilistici, pur mantenendo un’aura di costante oscurità.
In circa tre quarti d’ora Nagaarum esprime tramite la sua musica e in lingua madre il suo punto di vista sul disastro verificatosi nel 2010 in Ungheria, quando la rottura della diga di contenimento del materiale di scarto di una fabbrica di alluminio spinse una marea di fanghiglia rossa su 40 chilometri quadrati di terreni circostanti il villaggio di Kolontar, provocando diverse vittime, l’irrimediabile danno alle attività agricole locali e la sparizione di ogni forma di vita da almeno due corsi d’acqua facenti parte del bacino del Danubio.
La musica contenuta in Homo Maleficus è quindi cupa, priva di pulsioni melodiche e colma di una tensione che sovente si sfoga con violente sfuriate black (nella magnifica Dolgunk végeztével), ottundenti riffing post metal (Mens dominium) o di matrice doom (A befalazott) per stemperarsi nell’ambient della conclusiva Kolontar.
Non mi resta quindi che fare ammenda per aver sottostimato inizialmente le potenzialità di questo bravo e prolifico musicista, capace di produrre un album dai contenuti piuttosto profondi svincolandosi dalla secche di una ordinarietà che, per uno abituato a pubblicare mediamente più di due full length all’anno, sarebbe stata anche comprensibile.
Complimenti al bravo Nagaarum, del quale non resta che andare a riscoprire (nei limiti del possibile) la consistente discografia.

Tracklist:
1. A befalazott
2. Az elvhű
3. Vassal nevelt
4. Cipelők
5. Mens dominium
6. Dolgunk végeztével
7. Kolontár

Line up:
Nagaarum – All instruments, Vocals, Lyrics

NAGAARUM – Facebook

Crematory – Live Insurrection

Non è certo il primo live che gli storici gothic/deathsters Crematory immettono sul mercato, trattandosi di opere che una volta completavano e valorizzavano le discografie dei migliori act rock e metal, ora ad appannaggio dei fans più accaniti.

Il gruppo tedesco però rilascia un ottimo lavoro, licenziato in formato cd/dvd dalla SPV/Steamhammer, che vede i veterani del gothic /death alle prese con il pubblico del Bang Your Head Festival dello scorso anno, più quattro video clips di altrettanti brani tratti dall’ultimo full length Monument.
Pur avendo in parte lasciato il genere d’elezione a favore di un sound più dark ed elettronico, i Crematory si dimostrano una sicurezza, un gruppo solido che se da tempo non si avvicina ai picchi qualitativi dei primi album, mantiene un ottimo impatto, un approccio melodico dal buon appeal ed una forma canzone che permette di andare avanti senza grossi scossoni.
Quindi dopo ventisei anni di album e palchi solcati in giro per l’Europa, i Crematory si possono certamente considerare come un buon rifugio, quando la voglia di ascoltare gothic metal dal buon appeal e dalle facili melodie è forte ed i cd di …Just Dreaming, Illusions e Crematory sono troppo in alto sullo scaffale.
Ma come spesso accade, un album live, specialmente di una band che di buona musica negli anni ne ha scritta eccome, ha la funzione di rispolverare vecchi brani, oltre alle nuove produzioni, in una sorta di best of … anche se Felix, Markus e Katrin non rinnegano sicuramente le ultime produzioni, ampiamente sfruttate in Live Insurrection.
Infatti, il gruppo dà molto spazio ai brani più recenti, non dimenticando certo brani capolavoro come Tears Of Time, inno del gruppo fin dall’uscita del bellissimo Illusions (1995) e che non a caso chiude il concerto.
Felix non rinuncia al growl e in veste live il suono risulta potente e metallico il giusto per non deludere i fans raccolti sotto il palco del famoso festival: Misunderstood, la splendida Pray, Shadowmaker, Höllenbrand (da Klagebilder del 2006) e la già citata Tears Of Time offrono agli astanti una prova convincente.
I Crematory sono un gruppo che col tempo si è creato un meritato zoccolo duro di fans e, mentre gli anni passano, Tears Of Time fa scendere qualche lacrima di nostalgia, con il buon Felix che dimostra di saperci ancora fare.

Tracklist
CD
01. Misunderstood
02. Fly
03. Greed
04. Tick Tack
05. Instrumental
06. Haus mit Garten
07. Ravens Calling
08. Pray
09. Everything
10. Instrumental
11. Shadowmaker
12. The Fallen
13. Höllenbrand
14. Die So Soon
15. Kommt näher
16. Tears Of Time

DVD
Intro
01. Misunderstood
02. Fly
03. Greed
04. Tick Tack
05. Instrumental
06. Haus mit Garten
07. Ravens Calling
08. Pray
09. Everything
10. Instrumental
11. Shadowmaker
12. The Fallen
13. Höllenbrand
14. Die So Soon
15. Kommt näher
16. Tears Of Time
Monument videoclips
01. Misunderstood
02. Ravens Calling
03. Haus mit Garten
04. Everything

Line-up
Felix Stass – vocals
Rolf Munkes – guitar
Tosse Basler – guitar
Jason Mathias – bass
Markus Jüllich – drums
Katrin Jüllich – keyboards

CREMATORY – Facebook

Infinight – Fifteen

I tedeschi Infinight tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.

Gli Infinight sono il classico gruppo power metal tedesco che, partito leggermente in ritardo sulla seconda esplosione del power (seconda metà degli anni novanta), è rimasto intrappolato nell’underground anche se tre full length e tre ep non sono affatto poca cosa per un gruppo autoprodotto.

Vi avevamo parlato del quintetto un paio di anni fa, in occasione dell’uscita del loro terzo album Apex Predator, lavoro riuscito in parte, non decollando grazie ad una fastidiosa prolissità.
Tornano con questo ep, Fifteen, composto da quattro brani che continuano ad amalgamare, questa volta con risultati migliori, U.S. Metal e power di scuola europea.
Atmosfere oscure e drammatiche che ricordano gli Iced Earth, qualche fuga ritmica sul purosangue teutonico ed il gioco è fatto, confermando il gruppo come un buon gruppo minore, da seguire se siete fans accaniti dei suoni classici di scuola classicamente heavy/power.
Goodbye II (this cruel World) è l’ esempio perfetto del sound degli Infinight e, insieme a Through The Endless Night e For The Crown, seguono il canovaccio del precedente full length: dunque heavy/power, potente ma mai troppo veloce, oscurità che man mano si fa sempre più pressante e buoni chorus, maschi e drammatici.
La seconda traccia è un brano acustico, a mio parere anche molto bello (Here To Conquer), di fatto una ballata acustica dove la chitarra e la voce riescono a mantenere la tensione alta, non alleggerendo di un grammo l’atmosfera drammatica che si respira in Fifteen.
Un ep che probabilmente traghetterà il gruppo verso il suo quarto lavoro, me che non cambia quelle che sono le sorti degli Infinight: rimanere ai margini dell’underground heavy/power mondiale.

TRACKLIST
1. Goodbye II (this cruel World)
2. Here to Conquer (unplugged)
3. For the Crown
4. Through the Endless Night

LINE-UP
Kai Schmidt – Bass
Hendrik “Harry” Reimann – Drums
Dominique Raber – Guitars
Marco Grewenig – Guitars
Martin Klein – Vocals

INFINIGHT – Facebook

Amiensus – All Paths Lead To Death

All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro.

L’etichetta francese Apathia Records è caratterizzata da un roster in gran parte autoctono, oltre che composto complessivamente da band connotate da un’irrequietezza compositiva che spinge spesso i generi suonati su un piano avanguardista.

In qualche modo gli Amiensus, quindi, costituiscono un’anomalia, in primis perché statunitensi e, in secondo luogo, in quanto il loro black metal non presenta tratti particolarmente sperimentali; questo, però, non va in alcun modo ad intaccarne la qualità, visto che questi giovani americani, con questo nuovo ep, propongono il genere in maniera del tutto convincente, fondendo abilmente il filone scandinavo con quello nordamericano e ammantando il tutto di una misurata componente atmosferica.
All Paths Lead To Death giunge due anni dopo il full length Ascension: in quel caso gli Amiensus esibivano un black più frastagliato e integrato da una voce femminile, mentre oggi paiono più orientati ad un impatto diretto e privo di fronzoli, anche se comunque sempre progressivo nel suo incedere; indubbiamente i riferimenti a molte delle band che hanno fatto la storia del genere non sono difficili da cogliere, ma i nostri sfuggono alla tentazione di aderirvi in maniera calligrafica, mettendoci in eguale misura cattiveria, convinzione e anche tecnica.
In meno di mezz’ora gli Amiensus offrono cinque brani intrisi della medesima forza di penetrazione, sviscerando senza eccessivi scostamenti la materia black e lasciando qualche bagliore melodico ed epico alla conclusiva The River, dopo che nella precedente Desolating Sacrilege avevano provveduto a surriscaldare per bene i padiglioni auricolari degli ascoltatori.
All Paths Lead To Death convince su tutti i fronti, e resta solo da vedere se questo percepibile scostamento stilistico verrà confermato anche in futuro, perché personalmente questa strada intrapresa dagli Amiensus mi piace non poco.

Tracklist:
1.Gehenna
2.Mouth of the Abyss
3.Prophecy
4.Desolating Sacrilege
5. The River

Line-up:
James Benson : Harsh Vocals, Clean Vocals, Guitar
Alec Rozsa : Keyboards, Guitars, Vocals
D. Todd Farnham : Bass
Zack Morgenthaler : Lead Guitar, Keyboards
Chris Piette : Drums

AMIENSUS – Facebook

Lost Dogs Laughter – Out Of Space

Out Of Space è un album vario e piacevole, con una sua spiccata personalità prendendo ispirazione dalla tradizione a stelle e strisce per portarla con rinnovato entusiasmo nel nuovo millennio.

L’alternative rock italiano si avvale di un’ altra band, i Lost Dogs Laughter, trio romano al debutto con Out Of Space, facendo del rock americano il proprio credo cercando di risultare il più personale possibile.

Matt Bandini (chitarra e voce) fondatore della band e Luk La Grande (basso), sono stati raggiunti in questi anni da una manciata di batteristi, ma in questo esordio sentirete picchiare sulle pelli le bacchette di Andrea Vettor.
Un altro batterista in line up (Gianluca) nel presente del gruppo romano ed un debutto che si colloca nell’alternative rock dalle reminiscenze riscontrabili negli anni novanta, quindi influenze che vanno dall’hard rock di Seattle, a sferzate punk ed atmosfere post rock progressive che donano al sound un elegante, e quanto mai maturo, prog style che fanno di Out Of Space un ascolto affascinante.
Ritmiche che nascono dalle jam di Sonic Youth con l’aiuto di Corgan e dei suoi Smashing Pumpkins, chitarre che lasciano in bocca quel gusto d’acciaio del metal moderno e buone trame melodiche, fanno di Out Of Space un album vario e piacevole, con una sua spiccata personalità che si evince da brani come Honestly, Words Unknown e la title track, esempi di un sound che prende ispirazione dalla tradizione a stelle e strisce per portarla con rinnovato entusiasmo nel nuovo millennio.

Tracklist
1. Sweeter Reaction
2. Honestly
3. Go Away
4. Words Unknown
5. Fade (September 1993)
6. Fallen Angel
7. Am I?
8. Out Of Space
9. The Forgetful

Line-up
Matt Bandini – Chitarra, Voce
Luk La Grande – Basso
Andrea Vettor – Batteria

LOST DOGS LAUGHTER – Facebook

Tau Cross – Pillar of Fire

Secondo eccellente lavoro per questo supergruppo che, unendo ingredienti come darkwave,crust,trash, sforna un’opera intensa, coinvolgente e da non lasciarsi sfuggire.

Essenziale e potente! Con questi aggettivi si può definire la seconda prova offerta da questo supergruppo internazionale che affonda le radici in Canada, in U.S.A. e in United Kingdom.

Nel 2015 la prima opera omonima in cui grandi musicisti come Rob “The Baron” Miller alle vocals e Michael “Away” Langevin alla batteria, hanno dimostrato una volta di più il loro valore musicale; mi auguro che non ci sia bisogno di spiegare chi siano e da che band provengano! Con l’aiuto di altri quattro validi musicisti, dal passato meno importante e dopo due anni dal debutto, ci regalano altri cinquanta minuti di grande musica, dove le coordinate sonore sono similari al debutto e forse meglio messe a fuoco: l’unione tra post-punk, crust, darkwave (versante Killing Joke di Wardance e Requiem e in alcuni tratti ritmici i primi Red Lorry Yellow Lorry), trash e musica heavy genera, soprattutto nella prima parte del disco, una serie di brani potenti, trascinanti dove si erge in modo sontuoso il suono del basso, suonato da Tom Radio e dallo stesso Rob Miller (inizio di Deep State), che accompagna e crea muri sonori dove le chitarre intessono melodie semplici ma incisive; la voce rauca, ruvida, vissuta e spesso disperata di “The Baron” crea un contrasto efficace con la macchina da guerra precisa degli strumenti.
La prima parte, come si diceva, esprime la potenza e l’essenzialità di un suono (Raising Golem) seguendo derive trash, punk e post-punk, mentre la seconda parte rallenta i ritmi e da maggiore sfogo ad armonie darkwave e atmosferiche come nella splendida Killing the King, nella title track, dove si toccano vette dark-folk molto intense ricordanti le piccole gemme solistiche di Steve Von Till (Neurosis). Ultima nota di merito per il magnifico brano What Is a Man, che con suggestive note tastieristiche porta a compimento un lavoro che difficilmente lascerà il vostro lettore cd.

Tracklist
1. Raising Golem
2. Bread and Circuses
3. On the Water
4. Deep State
5. Pillar of Fire
6. Killing the King
7. A White Horse
8. The Big House
9. RFID
10. Seven Wheels
11. What Is a Man

Line-up
Rob (The Baron) Miller Bass, Vocals
Michel (Away) Langevin Drums
Andy Lefton Guitars
Jon Misery Guitars
Tom Radio Bass

TAU CROSS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=3gd3xYtars8

Nexus – The Taint

I Nexus spaziano tra il rock alternativo dalle atmosfere dark, non rinnegando le proprie influenze che vanno dai più famosi Depeche Mode fino alle nuove leve del rock dai tenui colori oscuri come HIM o Deathstars, mentre la carta d’identità tricolore si può intuire da un uso vagamente progressivo dei tasti d’avorio.

Debutto su Agoge Records per i gothic metallers Nexus, band nata per volere del cantante e chitarrista Vlad Voicu e del bassista Tony Di Marzio.

Con l’aiuto in studio di Gianmarco Bellumori, responsabile della label, licenziano questo primo album sulla lunga distanza intitolato The Taint, un gothic album pregno di sfumature elettroniche che hanno poco dell’industrial e tanto della new wave risalente agli anni ottanta, ovviamente trasportata in un contesto dove le chitarre graffiano e le ritmiche mantengono quel tocco groove che fa tanto cool di questi tempi.
Ne esce un lavoro dal buon appeal, magari mancante ancora di quel quid che fa di una buona canzone un potenziale hit, ma le premesse per un futuro roseo nel panorama dark gothic ci sono tutte.
I Nexus spaziano tra il rock alternativo dalle atmosfere dark, non rinnegando le proprie influenze che vanno dai più famosi Depeche Mode fino alle nuove leve del rock dai tenui colori oscuri come HIM o Deathstars, mentre la carta d’identità tricolore si può intuire da un uso vagamente progressivo dei tasti d’avorio.
L’album mantiene la stessa marcia per tutta la sua durata, scalando e ripartendo in quarta (qualitativamente parlando) con Funeral Pyre, N.B.N e la notevole Scrying Mirror.
Una buona partenza per i Nexus, band da seguire se siete amanti del dark/gothic metal di inizio millennio.

Tracklist
1.Solitude
2.Cancer
3.Funeral Pyre
4.Crimson Wine
5.Stillborn
6.N.B.N
7.Scrying Mirror
8.Close Your Eyes
9.To Silence Your Demons

Line-up
Vlad Voicu – lead vocals, studio guitars & programming
Tony Di Marzio – bass and backing vocals
Il Diverso – synth/keyboards & programming
Diego Aureli – live guitars
Daniele Di Gasbarro – live drums

NEXUS – Facebook

Xanthochroid – Of Erthe and Axen Act I

Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.

Per uno che ha considerato Blessed He with Boils uno dei dischi più belli pubblicati in questi decennio, il ritorno al full length degli Xanthohchroid è stata senza dubbio una splendida notizia che nascondeva però anche un sottile filo di inquietudine.

Infatti, il timore che questi giovani e geniali musicisti americani potessero aver smarrito la loro ispirazione in questi lunghi cinque anni era un qualcosa che ha aleggiato fastidiosamente a lungo nei miei pensieri, spazzato via fortunatamente dalle prime note di Of Erthe and Axen Act I, nelle quali persiste quella stessa e unica vena melodica e sinfonica.
Per parlare di questo nuovo parto degli Xanthohchroid è fondamentale partire dal fondo, non del disco ma delle note di presentazione: infatti i nostri, in un una postilla che in un primo tempo mi ero anche perso, raccomandano ai recensori di valutare l’album quale effettiva prima parte di un’opera che vedrà uscire la sua prosecuzione ad ottobre, e, pertanto, il fatto che il sound possa apparire molto meno orientato al metal e più al folk è motivato da un disegno complessivo che prevede un notevole rinforzo delle sonorità in Of Erthe and Axen Act II.
Tutto ciò è molto importante, perché si sarebbe corso il rischio di accreditare la band di una sterzata dal punto di vista stilistico che, invece, dovrà essere eventualmente certificata come tale solo dopo l’ascolto del lavoro di prossima uscita; detto ciò, appare evidente come quelle audaci progressioni, che fondevano la furia del black metal con orchestrazioni di stampo epico/cinematografico, in Act I siano ridotte all’osso, lasciando spazio ad una componente folk e acustica dal livello che, comunque, resta una chimera per la quasi totalità di chiunque provi a cimentarvisi.
Infatti, i brani che riportano in maniera più marcata ai suoni di Blessed He with Boils sono una minoranza, rappresentata essenzialmente da To Higher Climes Where Few Might Stand, The Sound Which Has No Name, e parzialmente, The Sound of Hunger Rises, laddove si ritrova intatta quella potenza di fuoco drammatica e melodica che rende gli Xanthochroid immediatamente riconoscibili in virtù di una peculiarità che non può essere in alcun modo negata; per il resto, Of Erthe and Axen Act I si muove lungo i solchi di un folk sempre intriso di una malinconia palpabile e guidato dall’intreccio delle bellissime voci di Sam Meador (anche chitarra acustica e tastiere), della moglie Ali (importante novità rispetto al passato) e di Matthew Earl (batteria e flauto).
Detto così sembra può sembrare che questo disco sia di livello inferiore al precedente ma cosi non è: anche nella sua versione più pacata e di ampio respiro la musica degli Xanthochroid mantiene la stessa magia e, anzi, potrebbe persino attrarre nuovi e meritati consensi, rivelandosi per certi versi meno impegnativa da assimilare; quel che è certa ed immutabile è la maturità compositiva raggiunta da una band che si muove ad altezze consentite solo a pochi eletti, andando a surclassare per ispirazione persino quelli che potevano essere considerati inizialmente degli ideali punti di riferimento come gli Wintersun.
Of Erthe and Axen continua a raccontare le vicende che si susseguono in Etymos, mondo parallelo creato da Meador e che nel notevole booklet è illustrato con dovizia di particolari, con tanto di cartina geografica: la storia narrata in questo caso è un prequel rispetto a Blessed He with Boils, ma questi sono particolari, sebbene importanti, destinati a restare in secondo piano rispetto al superlativo aspetto musicale
La formazione odierna ridotta a quattro elementi (assieme ai tre c’è anche Brent Vallefuoco, che si occupa delle parti di chitarra elettrica infarcendo l’album di magnifici assoli) risulta un perfetto condensato di talento e creatività che trova sbocco sia nei già citati episodi più robusti, sia nelle perle acustiche rappresentate da To Lost and Ancient Gardens, In Deep and Wooded Forests of My Youth (per la quale è stato girato dallo stesso Vallefuoco un bellissimo video) e la stupefacente The Sound of a Glinting Blade, che vive di un crescendo emotivo e vocale destinato a confluire nel furente incipit sinfonico della conclusiva The Sound Which Has No Name, andando a creare uno dei passaggi più impressionanti del lavoro.
Se a un primo ascolto l’apparente tranquillità che pervade il sound poteva aver lasciato un minimo di perplessità, il ripetersi dei passaggi nel lettore conferma ampiamente che il valore degli Xanthochroid non è andato affatto disperso, anzi: Of Erthe and Axen Act I è diverso dal suo predecessore, ma resta comunque un altro capolavoro rilasciato da questa band di un livello talmente superiore alla media da rendere persino irritante il fatto che non abbia ancora raggiunto il meritato successo planetario.
Al riguardo, è auspicabile che l’uscita ravvicinata delle due parti di Of Erthe and Axen possa consentire di mantenere viva per più tempo l’attenzione sugli Xanthohchroid, rimediando a questa evidente stortura.

Tracklist:
01. Open The Gates O Forest Keeper
02. To Lost and Ancient Gardens
03. To Higher Climes Where Few Might Stand
04. To Souls Distant and Dreaming
05. In Deep and Wooded Forests of My Youth
06. The Sound of Hunger Rises
07. The Sound of a Glinting Blade
08. The Sound Which Has No Name

Line-up:
Sam Meador – Vocals, Keyboards, Guitars (acoustic)
Matthew Earl – Drums, Flute, Vocals (backing)
Brent Vallefuoco – Guitars (lead), Vocals
Ali Meador – Vocals

XANTHOCHROID – Facebook