FVNERALS – Wounds

Suoni plumbei e oppressivi, ma che affascinano e feriscono noi ascoltatori

L’ oscurità ammanta costantemente la nostra anima e i Fvnerals, con il loro Wounds, ce lo ricordano in ogni momento; sono emersi dalle terre albioniche in quel di Brighton nel 2013 con il singolo The Hours, bissato nel 2014 con il full The Light per poi pubblicare, dopo un ulteriore singolo (The Path nel 2015), questo pregevole gioiellino.

La loro arte si nutre di doom, funeral, ambient, post-rock, drone miscelata e dosata in un suono che appare atmosferico, profondo, oppressivo con la voce della cantante Tiffany a sublimare e ad accompagnare in modo inquietante questo viaggio; qui non sono eretti muri di suono distorti e non ci sono vocals stordenti e aggressive, ma tutto è più “subdolo”, un lento flusso di coscienza che scava lentamente nella nostra anima ferendola e accentuando a ogni ascolto un profondo senso di isolamento.
Anche il fatto che i sette brani, per un totale di circa quaranta minuti, siano legati e scivolino uno sull’altro serve a rendere più affascinante, misterioso e desolante il percorso, come nell’ultimo brano Where, introdotto da note lontane di piano, accompagnato da una desolata voce e levigato da tristi e disperate note di chitarra; un po’ la summa di tutto il lavoro, come l’ ultimo granello di sale cosparso sulla nostra lacerata anima. Ottimo lavoro da una giovane band che mi ha molto emozionato e che spero possa “colpire” altre anime “torturate”.

TRACKLIST
1. Void
2. Wounds
3. Shiver
4. Teeth
5. Crown
6. Antlers
7. Where

LINE-UP
Tiffany Strom – vocals,bass,synth
Syd Scarlet – guitar
Chris Cooper – drums

FVNERALS – Facebook

Et Moriemur – Ex Nihilo in Nihilum

Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.

Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.

Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione.
Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.

Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below

Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums

ET MORIEMUR – Facebook

Blacksmoker – Rupture

Un album davvero convincente per chi non è mai sazio di ascoltare stoner/sludge.

Secondo full length per i tedeschi Blacksmoker, band formata da musicisti esperti e provenienti da diverse realtà della scena sludge/stoner teutoinica.

Rupture non è un lavoro che si perde in preamboli, e l’ottima title track è l’idale biglietto da visita, utile a far comprendere che la reazione nei confronti di ciò che non funziona al meglio nella società odierna si può esplicitare anche attraverso una musica senz’altro robusta, ma mai scevra di un certo groove unito ad un buon impatto melodico.
Infatti, se di sludge possiamo parlare a buon titolo, quello dei Blacksmoker è più virato verso lo stoner e all’heavy metal, in tal senso prossimo alla scuola americana, piuttosto che orientato ai plumbei rallentamenti o alla e ruvidità dell’hardcore che sono spesso insiti nella scuola europea.
I ritmi così sono per lo più sostenuti e i brani sono quasi sempre provvisti di chorus memorizzabili, tra i quali spicca senza’altro la magnifica Ouroboros 68, con tanto di riuscito assolo chitarristico di matrice heavy.
Rupture è un opera avvincente dal primo all’ultimo minuto, grazie ad una scrittura lineare che, difficilmente, si perde in rivoli sperimentali o rumoristici, i quali vengono sapientemente confinati nella traccia conclusiva Room 101, certamente diversa rispetto al resto della tracklist ma non per questo di livello inferiore.
La sensazione è che i Blacksmoker siano una potenziale macchina da guerra dal vivo, in virtù del loro approccio pesante quanto diretto, e sono convinto i muri sonori che il quartetto di Wurzburg appare in grado di erigere con buona continuità mieteranno dievrse vittime.
Un album davvero convincente per chi non è mai sazio di ascoltare stoner/sludge.

Tracklist:
1. Rupture
2. Herorizer
3. Ouroboros 68
4. Huntress
5. Neglect
6. Undefeated
7. Dark Harvest
8. Pariah
9. Ghost
10. Room 101

Line-up:
Sven Liebold – Vocals, Bass
Marco Reuß – Guitar, Vocals
Boris Bilic – Guitar, Vocals
Tobias Anderko – Drums

BLACKSMOKER – Facebook

Ufosonic Generator – The Evil Smoke Possession

The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.

Il doom classico ha avuto nella prima metà degli anni novanta un ritorno di fiamma che andava a braccetto con la qualità dei gruppi della Hellhound prima e, in seguito della, Rise Above di Lee Dorrian, label fondata dallo sciamano inglese dopo il buon riscontro dei suoi Cathedral.

Ovviamente anche per quegli ormai storici gruppi, gli anni settanta ed i gruppi pionieri del rock metal messianico erano le fonti massime di ispirazione per tornare a far risplendere i suoni diventati famosi grazie ai Black Sabbath, ma glorificati da enormi talenti come Pentagram e Candlemass.
Il successo dello stoner, figlio tossico e desertico del doom, ha lasciato qualche scoria nel sound dei nuovi gruppi che, nell’underground, intraprendono la strada lenta e monolitica della musica del destino: un bene per certi versi, visti i risultati e le ottime realtà che, specialmente. nel nostro paese arricchiscono il patrimonio sabbatico della scena metal.
Ufosonic Generator, monicker che ricorda non poco il mondo della cattedrale di Dorrian, sono un quartetto nostrano che arriva all’esordio con questo The Evil Smoke Possession, fulgido esempio di doom metal potente, molto rock’ n’ roll nell’approccio, con riferimenti ed ispirazioni che vanno dagli anni settanta ai gruppi della generazione successiva, senza farsi mancare di un pizzico di follia stoner, ormai presente nelle opere delle nuove generazioni.
Una quarantina di minuti tra potenza dirompente, frenate monolitiche ed andamento che si trascina tra la sabbia di un deserto reso rosso dal fiume vulcanico che gli scorre sotto, pronto ad esplodere tra le pachidermiche note di At Witches’Bell, Meridian Daemon e Silver Bell Meadows.
The Evil Smoke Possession ci riporta alle sonorità delle band che nei decenni scorsi hanno fatto la storia del genere, rivelandosi una bella sorpresa per gli appassionati.

TRACKLIST
1.A Sinful Portrait
2.Anapest
3.At Witches’Bell
4.Master Of Godspeed
5.Meridian Daemon
6.Silver Bell Meadows
7.Mowing Devil
8.The Evil Smoke Possession

LINE-UP
Gojira – Vocals
Carmichael Bell – Bass
DD Morris – Guitar
S.McManchester – Drums

UFOSONIC GENERATOR – Facebook

 

Crypt Of Silence – Awareness Ephemera

La contiguità stilistica con i Mourning Beloveth è sempre piuttosto marcata e questa è l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere.

Poco più di due anni fa, quando mi ritrovai a parlare dell’album d’esordio dei Crypt Of Silence, Beyond Shades,
mi espressi in maniera non entusiastica nei confronti dell’operato del gruppo ucraino, pur valutandolo alla fine positivamente, in quanti mi appariva troppo appiattito su posizioni simili a quelle dei primi Mourning Beloveth, senza possederne però lo stesso impatto melodico e drammatico.

Oggi il gruppo irlandese rappresenta sempre la Stella Polare per la giovane band dell’est, ma il salto di qualità che auspicavo, confidando anche nell’innato fiuto della Solitude Productions nello scovare talenti, è avvenuto: Awareness Ephemera è un lavoro che rispecchia in molti aspetti il suo predecessore, con quattro lunghi brani per una durata complessiva attorno ai cinquanta minuti, ma la differenza la fa tutta l’incisività della scrittura.
Infatti, l’incedere dolente e rallentato di Longest Winter, fin dalle prime note fa capire quanto i Crypt Of Silence abbiano appreso al meglio la lezione, ammantando ogni nota del pathos necessario per avvincere e convincere i potenziali ascoltatori: il letale mix fra My Dying Bride, Mourning Beloveth e Daylight Dies (evocati questi ultimi soprattutto in Insignificant Sense) prende corpo srotolandosi dolorosamente, con ritmiche che sovente si fanno asfissianti spingendosi ai confini del funeral, particolarmente nella pachidermica Life Passed By.
E’ la meravigliosa Meridian, comunque, la traccia che chiude l’album, a fotografare nella maniera più nitida l’attuale status dei Crypt Of Silence, i quali scendono senza timore sullo stesso terreno dei loro maestri d’oltremanica, avvicinandoli non poco se non addirittura eguagliandoli a tratti; certo, la contiguità stilistica è sempre molto marcata e questa è, forse, l’unica perdonabile pecca di un album bellissimo a prescindere, anche perché per incidere brani di questo spessore non è sufficiente essere solo dei buoni copisti, ma bisogna possedere la giusta dose di talento.
Il compito che affidiamo ai ragazzi ucraini, alla prossima occasione, sarà soltanto, quindi, quello di farci affermare “sembrano … i Crypt Of Silence”, perché diciamo tranquillamente che il death doom proposto in Awareness Ephemera è inattaccabile per potenziale ed impatto emotivo, il che non è affatto poco per chi si nutre di questo genere musicale.

Tracklist:
1. Longest Winter
2. Insignificant Sense
3. Life Passed By
4. Meridian

Line-up:
Andriy Buchynskyi – Drums
Roman Komyati – Guitars (lead)
Mikhael Graver – Vocals, Bass
Vitalii Kaigorodtsev – Guitars (rhythm)

CRYPT OF SILENCE – Facebook

Ill Neglect / Lambs – Trisma

Due maniere diverse, ma ugualmente efficaci, di maneggiare una materia incandescente come quella del metal che, sposandosi all’hardcore, ne porta alle estreme conseguenze l’impatto virulento.

Edito da un pool di etichette transazionale, questo split mette in mostra un connubio potenzialmente esplosivo tra i tedeschi Ill Neglect e gli italiani Lambs.

Trisma, in poco meno di dieci minuti, scarica la rabbia repressa covata in una vita intera, e ciò avviene con gli Ill Neglect tramite un grind dalle sfumature sludge che a tratti può ricordare, per attitudine e per riferimenti non casuali i seminali Brutal Truth (il monicker ne riprende il titolo di uno dei brani più noti), e con i Lambs attraverso un metal estremo che sovente disorienta con repentini cambi di scenario, sempre all’insegna di sonorità comunque disturbanti e facenti capo sempre allo sludge, almeno a livello di orientamento generale.
Troviamo, quindi, due maniere diverse, ma ugualmente efficaci, di maneggiare una materia incandescente come quella del metal che, sposandosi all’hardcore, ne porta alle estreme conseguenze l’impatto virulento.
Per entrambe le band un significativo biglietto da visita da esibire in occasione dei rispettivi, ed auspicabilmente prossimi, esordi su lunga distanza.

Tracklist:
1.Cold Turkey (Ill Neglect)
2.Permanent Euphoria (Ill Neglect)
3.You, the Drawback (Lambs)
4.Unfeeling (Lambs)

Line-up:
ILL NEGLECT
Daniel Powell – vocals
Jan T-Beat – drums
Thomas Conrad – guitar
André Beyer – bass

LAMBS
Cristian Franchini – vocals
Mattia Bagnolini – drums
Gianmaria Mustillo – guitar
Steven Teverini – bass

ILL NEGLECT – Facebook

LAMBS – Facebook

Uktena – Our Path to Trouble

Il tema del lavoro degli Uktena verte su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.

Esordio molto interessante per questa band del North Carolina denominata Uktena.

Portatori di un sound decisamente molto psichedelico ma nel contempo anche robusto, questi americani puntano per il loro passo d’avvio su un unico brano di venti minuti, esattamente ciò che serve per rendere poco appetibile il tutto ad ascoltatori pigri o disattenti …
Meglio così, del resto, in tal modo solo i più meritevoli potranno godersi le sonorità di Our Path to Trouble, un lavoro che, alla fine, non è neppure così facile da catalogare, tra sfumature lisergiche, ritmiche prossime al doom e una voce dal taglio quasi punk, anche se i suoi interventi non sono particolarmente frequenti.
L’opera acquista un peso ancor maggiore per la presenza, in diverse parti del lungo brano, di samples riferiti a John Trudell, cantautore, poeta ed attivista che è stato, fino alla sua morte avvenuta circa un anno fa, una vera spina nel fianco nei confronti di intendeva mettere a tacere per sempre la voce dei nativi americani.
Il tema del lavoro degli Uktena, le cui redini sono nelle mani di Nate Hall, verte proprio su quel senso di libertà e di simbiosi con la natura che ha sempre costituito il modus vivendi degli indiani d’America, prima d’essere oppressi e confinati nelle riserve dall’invasore “pallido”.
Our Path to Trouble, così, si snoda in maniera genuina e nemmeno troppo prevedibile, con un mood psichedelico quasi d’altri tempi che, nella parte finale, lascia spazio ad umori folk, il tutto eseguito con un certo slancio dalla band. Peccato per la durata piuttosto limitata, perché ho trovato davvero moto valida questa nuova formazione ed il suo operato, sia dal punto di vista strettamente musicale che concettuale. In attesa di sviluppi futuri, non resta che supportare per ora gli Uktena, il cui esordio peraltro è avvenuto sotto l’egida di un’etichetta italiana, la Hypershape Records.

Tracklist:
1. Our Path to Trouble

Line-up:
Nate Hall – voce, chitarra, mandolino elettrico;
Joe Anderson – basso;
Scott Thomas – batteria;
Ben Brower – chitarra

UKTENA – Facebook

Bethlehem – Bethlehem‬

L’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Ho sentito più di una persona attendere con una certa fiducia questo nuovo album dei Bethlehem, alla luce di una storia che colloca la band tedesca tra quelle fondamentali per la crescita e lo sviluppo di un certo modo di interpretare la materia estrema.

Allo stesso modo, da parte mia, c’erano diversi dubbi legati al precedente Hexakosioihexekontahexaphobia, album che non mi aveva lasciato ricordi indelebili, e questa nuova fatica autointitolata ne dissipa alcuni ma ne fa crescere altri.
Sicuramente la creatura che, ormai da molti anni, viene guidata dal solo Bartsch , non produce musica che possa lasciare indifferenti e, nonostante la matrice black sia sempre bene in vista, il risultato finale non può essere mai scontato.
D’altra parte, però, pur non volendo togliere ai Bethlehem il titolo di band seminale e imprescindibile per quella che sarebbe diventata poi la scena black metal tedesca, resta il fatto che la loro produzione è sicuramente di buon livello, considerando anche che il leader si e circondato di musicisti di spessore (tra tutti il notevole batterista Stefan Wolz) ma senza raggiungere picchi corrispondenti allo status acquisito.
Anche questo nuovo lavoro, quindi, non sposta il mio giudizio pur se, rispetto al suo predecessore, si rivela leggermente più diretto e meglio focalizzato su un’indole black doom che offre più di un passaggio avvincente e ben memorizzabile.
Un altro aspetto che potrebbe fungere da spartiacque per più di un ascoltatore è l’interpretazione fornita dalla vocalist polacca Onielar, improntata su un registro isterico, a tratti anche molto teatrale, comunque più adatto a un disco di natura totalmente depressive piuttosto che ad un contesto simile, e che a mio avviso, oltre che stucchevole alla lunga, si rivela decisamente inferiore e meno versatile rispetto alla prova fornita da Guido Meyer su Hexakosioihexekontahexaphobia.
In definitiva, l’album dei Bethlehem mostra diversi sprazzi di genialità, ma i passaggi che si ricordano più volentieri sono quelli strumentali afferenti alla matrice doom e non quelli che, invece di stupire, finiscono solo per compromettere la fluidità di certe tracce.
Così è la diretta opener Fickselbomber Panzerplauze a convincere, così come i brani più meditati e melodicamente lineari quali Kynokephale Freuden im Sumpfleben e Arg tot frohlockt kein Kind, nelle quali trova spazio in maniera più concreta il qualitativo lavoro chitarristico di Karzov, mentre tra le tracce più anomale spicca Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr, oscillante tra riff plumbei e minacciosi e liquide pulsioni dark wave .
Bartsch si conferma compositore di vaglia e senz’altro una delle migliori menti musicali in circolazione, ma sono troppe le scelte che personalmente ritengo cervellotiche e non del tutto funzionali al risultato finale, incluso il rutto che accoglie l’ascoltatore all’inizio del lavoro e che fa solo venire voglia di restituirlo al mittente …
Detto questo, l’ottava fatica su lunga distanza dei Bethlehem è sicuramente un qualcosa che non deve essere trascurato, anche per il tentativo, spesso riuscito, di scandagliare l’oscurità in musica in tutti i suoi meandri, specialmente quelli più inaccessibili e ripugnanti: resta il fatto che, per il mio gusto personale, manca sempre il canonico centesimo per fare l’euro.

Tracklist:
1. Fickselbomber Panzerplauze
2. Kalt’ Ritt in leicht faltiger Leere
3. Kynokephale Freuden im Sumpfleben
4. Die Dunkelheit darbt
5. Gängel Gängel Gang
6. Arg tot frohlockt kein Kind
7. Verderbnisheilung in sterbend’ Mahr
8. Wahn schmiedet Sarg
9. Verdammnis straft gezügeltes Aas
10. Kein Mampf mit Kutzenzangen

Line-up:
Bartsch – Bass, Keyboards
Wolz – Drums
Karzov – Guitars, Keyboards
Onielar – Vocals

BETHLEHEM – Facebook

Suffer Yourself – Ectoplasm

Ottima seconda prova di funeral doom da una band in costante evoluzione

Fin dalla cover alcuni dischi accendono l’ interesse di noi ascoltatori, di noi ” cercatori d’oro”; mi sbilancio ma questa mi è piaciuta tantissimo e anche il particolare titolo “Ectoplasm” mi ha spinto ad ascoltare il 2° full dei Suffer Yourself, già autori di un ottimo full nel 2014 (Inner Sanctum).

Nati come one man band di Stanislav Govorukha già EX AUTO DA FE (funeral death), CORAM DEO (melodic death), ILLUMINANDI (folk-gothic) si sono evoluti nella attuale band, locata in Svezia, che comprende altri tre musicisti che aiutano il leader a creare un grande disco di funeral death doom in cui si miscelano artigianalmente, con cura certosina, molte influenze per creare un opera che come sempre data la lunghezza, cinque brani per un ora di splendida musica, ha bisogno di numerosi ascolti per “entrare”. Il suono, come il titolo esplica, appare come una “sostanza mobile ectoplasmica” e può essere morbido, sinuoso, vaporoso, fluido, non ben definito, ma in ogni caso sempre emozionante e di infinita tristezza, come nel magnifico brano “The Core\Nika Turbina” in ricordo del trentennale del disastro di Chernobyl (…i’ll paint my name on the abandoned walls to come back in thirty years). Due brani anche per la loro lunghezza, Abysmal Emptiness di sedici minuti e Dead Visions di diciannove minuti sono l’ esempio migliore di come sono intersecate anche in modo inaspettato tutte le influenze del leader, da grandi muri di suono (come i grandi Esoteric) in perenne movimento a momenti più direttamente death (metà di Abysmal) che scivolano in parti più morbide, “melodiche”, in modo da rendere questa opera maestosa, misteriosa e cangiante; le vocals del leader passano da un lento salmodiare a un ottimo growl, con parti anche cantate in russo\ucraino. E’ sempre un piacere poter seguire ed ascoltare bravi musicisti che suonando con passione e idee, ci affascinano nel loro percorso musicale.

TRACKLIST
1. Ectoplasm
2. Abysmal Emptiness
3. The Core
4. Dead Visions
5. Transcend the Void

LINE-UP
Malcolm Sohlen – Bass
Kateryna Osmuk – Drums
Lars Abrahamsson – Guitars
Stanislav Govorukha – Guitars, vocals, programming

SUFFER YOURSELF – Facebook

The Human Condition – Pathways

Considerando che Pathways è il primo album del gruppo, il risultato può sicuramente considerarsi discreto, rimanendo confinato nel purgatorio dei lavori di genere.

Un viaggio rallentato e melanconico nel doom metal classico è il debutto sulla lunga distanza dei The Human Condition, un lavoro di genere che lascia buone impressioni e speranze per il futuro.

Il quintetto britannico, attivo da un po’ di anni,arriva all’agognato esordio solo quest’anno, dopo un demo, ormai dirialente a cinque anni fa, e la firma per Topillo Records.
Pathways è un lavoro incentrato sul doom classico, su questo non ci piove, anche se qualche arrangiamento richiama il doom/death dei primissimi Paradise Lost ed Anathema.
Un album che sulla drammatica ed introspettiva condizione umana costruisce ogni passaggio ed ogni riff con cui la band ha costruito questo monumento di desolante solitudine, con la musica del destino come colonna sonora.
Come scritto, qualche passaggio più intenso distrae da un mood in linea con i gruppi storici del genere, da ricercare tra le band storiche del periodo a cavallo tra gli anni ottanta ed il decennio successivo, lasciando ad altri le solite influenze sabbathiane e cercando nell’inesorabile ed evocativa lentezza del sound di Candlemass, Solitude Aeturnus, Solstice e Revelation.
Un dettaglio migliorabile è sicuramente la voce, un po’ troppo monocorde e qualche passaggio ripetuto in molti dei brani, per il resto il sound viaggia sui binari classici del genere e brani come The Things I Should Have Said e Chrysalis troveranno sicuramente estimatori tra i consumatori di musica del destino.
Considerando che Pathways è il primo album del gruppo, il risultato può sicuramente considerarsi discreto, rimanendo confinato per ora nel purgatorio dei lavori di genere.

TRACKLIST
1.The Tempest
2.The Things I Should Have Said
3.The Gifts I Gave
4.Pathways
5.Chrysalis
6.22 Years
7.My Will Has Gone

LINE-UP
James Moffatt – Bass
Phil Purnell – Drums
Jonathon Gibbs – Guitars
Kieron Tuohey – Guitars
Nathan Harrison – Vocals

THE HUMAN CONDITION – Facebook

Serpent – Trinity

Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

Ennesimo gioiellino metallico pescato tra polverosi scaffali e riedito dalla Vic Records.

Si parla di doom metal classico con gli svedesi Serpent, trio che nel 1993, anno della sua nascita, vedeva collaborare Lars Rosenberg (ex Entombed) e Andreas Wahl (Therion) più Johan Lundell.
La discografia del gruppo è limitata a tre album: il primo, In the Garden of Serpent uscito nel 1996, seguito da Autumn Ride dell’anno dopo, poi riedito nel 2007, anno in cui esce questo ultimo lavoro, Trinity.
Il trio ad oggi è completamente rivoluzionato e vede Piotr Wawrzeniuk (ex-Therion, basso e voce), Ulf Samuelsson alla sei corde e Per Karlsson alle pelli.
Trinity, masterizzato agli Unisound da Dan Swanö, è un buon esempio di musica del destino che da una base sabbathiana sviluppa le sue coordinate stilistiche verso il genere di ispirazione Candlemass e Count Raven.
Lunghe litanie cadenzate si danno il cambio con brani dai ritmi leggermente più sostenuti, le atmosfere messianiche e la voce evocativa rientrano nei canoni della musica del destino di stampo classico ed old school, e il gruppo dà il meglio quando il ritmo diventa un battito cardiaco che si avvia ad un lento spegnersi.
Brani più lineari si intervallano a tracce ispirate come in Serpent Bloody Serpent (chiaro tributo ai Black Sabbath) e December Mourning, un episodio sofferto, lentissimo e violentato da una sei corde satura di watt.
Chasing The Oblivion, più aperta ed heavy, torna ai Count Raven di High on Infinity, mentre la conclusione è affidata a Monolith, che come promette il titolo risulta uno strumentale granitico, dalle atmosfere nere come la pece.
Trinity per i fans del doom è un album da riscoprire: non imperdibile, ma senz’altro consigliato agli appassionati del genere.

TRACKLIST
1.Lamentation
2.Serpent Bloody Serpent
3.Nightflyer
4.Erlkönig
5.December Morning
6.Disillusions
7.Chasing The Oblivion
8.Monolith

LINE-UP
Piotr Wawrzeniuk – Bass, Lead Vocals
Perra Karlsson – Drums
Ulf Samuelsson – Guitar

Shambles – Realm Of Darkness Shrine

Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

A quasi vent’anni dalla nascita i deathsters thailandesi Shambles licenziano il primo full length, questo oscuro e morboso Realm Of Darkness Shrine.

Il gruppo orientale in tutti questi anni si era affacciato sul mercato solo con una serie di lavori minori e finalmente quest’anno giunge a noi un’opera sulla lunga distanza, traguardo raggiunto dopo anni passati nell’underground più profondo.
Il sound del gruppo rispecchia l’attitudine dei quattro musicisti, un death metal marcissimo, fortemente old school e reso ancora più morboso e catacombale da lunghe parti doom.
Un lento corteo funebre parte dai meandri di Bangkok e arriva, oscuro e malvagio, nel vecchio continente: una lunga discesa nelle catacombe, imputridite dalla morte e dai vermi che banchettano su resti umani dimenticati dal tempo.
Il growl cavernoso di Chainarong Meeprasert ci fa da Caronte nei cunicoli dove l’oscurità regna sovrana, le ritmiche sono lente marce mortifere, a tratti pervase da un urgenza estrema che attanaglia la gola, bruciante dall’aria malata che si respira nelle tetre atmosfere dei brani che non concedono il minimo richiamo ad una luce ormai abbandonata.
Rosarium è l’opener che ci introduce in questo mondo di blasfemia e morti orrende, seguita da una serie di brani sempre più oscuri e malati, con la title track apice doom/death dell’album, inquietante nelle sue esplosioni di violenza a destabilizzare il ritmo lentissimo del suo magmatico e funereo incedere.
Realm Of Darkness Shrine è il classico album per puri appassionati, senza compromessi e circondato da un’aura malsana: un lavoro che va assaporato nella sua natura estrema, e se siete amanti del doom/death vecchia scuola un ascolto è sicuramente consigliato.

TRACKLIST
1.Rosarium
2.Call from the Further Tomb
3.Breath of the Deathprayer
4.Onward into Chasms
5.Haxanwomb
6.Realm of Darkness Shrine
7.Bitter Abysmal Depths

LINE-UP
Issara Panyang – Guitars
Thotsaphon Ayusuk – Bass
Thinnarat Poungmanee – Drums
Chainarong Meeprasert – Vocals

SHAMBLES – Facebook

Dead End – Reborn from the Ancient Grave

Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.

Gli olandesi Dead End provengono dalla scena death metal olandese dei primi anni novanta e fanno parte di quella variante estrema che vi accostava al potenti rallentamenti doom e sfumature gotiche, tipiche di quello che viene consciuto dagli amanti dei suoni estremi come doom/death.

Gli inizi del gruppo portano al 1988 e ai primi tre anni del decennio successivo, periodo dove il gruppo rilasciò due demo ed un ep ed affiancò in sede live nomi storici del metal nato nei Paesi Bassi come Gorefest, Phlebotomized e Pestilence.
Un silenzio durato più di vent’anni, rotto lo scorso anno dall’annuncio da parte della Vic Records del ritorno in pista del gruppo, in mano all’unico membro originario, il bassista Alwin Roes.
Puntuale arriva dopo circa dodici mesi un nuovo lavoro, il primo sulla lunga distanza, un album che, nel genere, è da considerare certamente old school.
Non sono più molte infatti le band che adottano queste sonorità, all’epoca nuova frontiera del metal estremo, poi evolutosi con l’aggiunta di sfumature dark/gothic e sinfonie, accompagnate molto spesso da femminee voci operistiche.
Niente di tutto questo, Reborn from the Ancient Grave torna al sound primordiale, un lento incedere catacombale, a tratti agitato da tempeste death metal, ma per gran parte della sua durata mosso dall’inerzia del doom, potente, oscuro e monolitico.
Meno gotici dei primissimi Paradise Lost, oscuri e pesanti come i primi The Gathering e Celestial Season, con il sound potenziato da dosi massicce di Bolt Thrower e Asphyx, l’album nel suo genere è un toccasana per le anime oscure che a dolci sinfonie preferiscono le malate trame chitarristiche pervase da un malsano odore di morte, tratti magmatici che si ritrovano a profusione tra le trame delle buone Haze of Lies, Mea Culpa e la sepolcrale Wearing the Cloak, la più gotica ed emozionante traccia del lotto che conclude alla grande questo manifesto ai primi passi del genere.
Un buon ritorno, c’è da sperare che i Dead End riescano a trovare ulteriore nuova spinta da questo lavoro.

TRACKLIST
01. David’s Theme (Intro)
02. Dead End (Reborn)
03. Haze of Lies
04. Trail of Despair
05. Mea Culpa
06. Wither
07. Another Weakness
08. Venture
09. Nails of the Martyr
10. Wearing the Cloak

LINE-UP
Bryan – Vocals
Jeroen R – Guitar
Arjan – Guitar
Alwin Roes – Bass
Harald – Drums

DEAD END – Facebook

Ordog – The Grand Wall

The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere.

I finlandesi Ordog sono una band già abbastanza longeva e capace di pubblicare, nel 2011, un magnifico disco come Remorse, autentico monumento al funeral doom.

Sembra passato molto più tempo da allora, forse anche perché la band di Tornio ha dato seguito a quel lavoro con una prova ben più opaca nel 2014 (Trail for the Broken).
In effetti è difficile pensare di passare, senza subire contraccolpi, da una proposta basata su un sound granitico e rallentato all’inverosimile ad un gothic senz’altro più orecchiabile ma fondamentalmente inoffensivo, anche per le caratteristiche stesse della band che vede un vocalist perfettamente a suo agio con il growl ma piuttosto zoppicante quando so trova alle prese con le clean vocals.
Il nuovo The Grand Wall non riporta ai fasti di Remorse, il cui feeling unico pare non essere definitivamente più nelle corde degli Ordog, ma dimostra un raddrizzamento della barra verso una direzione stilistica più confacente alla band.
L’album, infatti offre una buona serie di brani in cui il substrato gothic è molto ben accompagnato da una robusta componente death doom, e il ritorno, seppure parziale, ad una materia che calza a pennello al gruppo finnico fa il resto, fornendo così un risultato del tutto soddisfacente.
Proprio una traccia che maggiormente riporta alla componente death, come In the Looming Bitterness, mostra una certa  appaiono le più peculiarità, laddove, ad un avvio che lascia poco spazio alla melodia per offrire libero sfogo ad una certa veemenza, segue un addolcimento del sound con l’apparizione, a tratti, anche di quell’hammond che fu in grado di fare la differenza in un brano epocale come la title track di Remorse.
The Grand Wall gode di una compattezza invidiabile e non c’è davvero nulla che non vada: ogni episodio scorre con buona fluidità, con i picchi rinvenibili in brani melodici e malinconici come Open the Doors to Red e The Perfect Cut, andando a costruire un insieme sonoro che verrà apprezzato non poco dagli appassionati del genere ma, d’altro canto, per riuscirci appieno è necessario utilizzare quale termine di paragone Trail for the Broken e non sicuramente Remorse o ancor più Life Is Too Short for Learning to Live.
Del resto, quella degli Ordog e stata un’evoluzione stilistica naturale e simile a quella di molte altre band del settore: è possibile che chi ama il funeral nelle sue forme più esasperate possa non esserne del tutto convinto, ma alla fine si tratta solo di valutare l’operato in base a quanto prodotto nel presente, lasciando per quanto possibile da parte il passato.

Tracklist:
1. Open the Doors to Red
2. Sundered
3. In the Looming Bitterness
4. The Perfect Cut
5. Wings in Water
6. The Grand Wall

Line-up:
Valtteri Isometsä – Guitars
Aleksi Martikainen – Vocals (lead)
Jussi Harju – Keyboards
Opie – Bass, Vocals (backing)
Tapio Hautalampi – Drums

ORDOG – Facebook

Haast’s Eagled – II: For Mankind

Magnifico secondo disco dai creatori del “kaleidoscopic doom”

Credo che capiti a chiunque ascolti MUSICA: la ricerca continua di nuovi suoni, emozioni e sensazioni in grado di migliorare il nostro stato d’ animo logorato dagli accelerati ritmi di vita; nel grande mare di band dedite al doom, in tutte le sue oscure varietà, ho scoperto questa band del sud del Galles dedita, come riferisce la loro casa discografica la Holy Roar, a un “kaleidoscopic doom” o se preferite a un “doomlounge jazz”.

In ogni caso il disco è splendido e vi invito, come al solito, a provarlo e a dare fiducia a questa nuova realtà denominata Haast’s Eagled, giunta alla sua seconda opera, II: For Mankind (la prima è omonima e si può scaricare dal bandcamp). Il nome particolare deriva da una specie estinta di aquila della Nuova Zelanda; la cover in rosso intenso è inquietante e il full contiene quattro lunghi brani dai sette ai venti minuti che dipanano un sound denso, imponente con grandi suoni di chitarra che possono ricordare gli statunitensi Yob per come lentamente sviluppano il loro brano; esempio è il mastodontico brano Zoltar (venti minuti) che inizia con delicate, tristi note di pianoforte e dopo un minuto vira (doom meets Pink Floyd) con uno splendido caldo, ampio e circolare riff di chitarra che accompagna la lenta ascesa verso le vocals che intonano una litania misteriosa, per poi esplodere in un doom sludge potentissimo e terminare con il piano doppiato da un romantico sax: la traccia è eccellente e per me è tra le migliori di questo 2016 ricco di belle uscite in campo doom e non solo. Anche gli altri tre brani, più contenuti nel minutaggio, offrono delizie sonore tendenti a creare il loro personale sound. Preferisco il termine caleidoscopico a lounge jazz e credo che questi quattro musicisti abbiano un grande potenziale, una loro visione del doom e spero che si possano ascoltare live prima o poi anche nelle nostre terre.

TRACKLIST
1. Pyazz Bhonghi
2. The Uncle
3. Zoltar
4. White Dwarf

LINE-UP
Greg Perkins – Bass
Joseph Sheehy – Drums
Adam Wrench – Guitars, Vocals
Lee Peterson – Unknown

HAAS’T EAGLED – Facebook

Lesbian – Hallucinogenesis

Dall’underground del metal estremo una piccola gemma da scoprire lentamente!

Logo black metal, nome che colpisce l’attenzione, questi cinque musicisti, alcuni derivanti dagli Accused (“Martha splatterhead”), dagli Asva e dai Burning Witch, sono giunti al quarto full in circa dieci anni di attività e continuano ad elaborare, attorcigliare il loro suono attorno a derive doom, sludge, death, progmetal, black, stoner per un risultato che appare caotico ma sempre intelligibile.

Non è assolutamente facile “catalogarli” ma forse il modo migliore per approcciarli è lasciarsi trasportare in questo caos sonoro, stordente, talvolta anche fuori fuoco, ma del resto anche già a partire dalla cover ci indicano la strada; non parliamo poi del concept che regge tutta l’opera “collisione sulla terra di un asteroide ripieno di spore fungine con la creazione di una nuova alba e di una nuova coscienza\spiritualità in cui sopravvive il KOSMOCERATOPS come signore di questa nuova terra”.
Mentre nel loro precedente “Forestelevision” avevano deflagrato con il brano omonimo di quarantacinque minuti, ora il nuovo full presenta quattro brani (dai nove ai quindici minuti) ed è pubblicato dalla americana Translation Loss, nota per pubblicare molte band dal suono “indefinito” (Mouth of an Architect, Intronaut, Rosetta…); fino dal primo loro lavoro “Power Hor” del 2007 i Lesbian continuano a miscelare nel modo più “weird” (con titoli delle song come Pyramidal existinctualism o La brea borealis) possibile i vari generi dal black al death, dal progmetal allo stoner lanciandosi in selvagge cavalcate volte a fondere tutti i suddetti generi, il tutto accompagnato dal growl o dallo scream del nuovo singer Brad Mowen.
Bisogna, come spesso accade, essere nel mood giusto per poter apprezzare, anche dopo ripetuti ascolti queste miscele sonore create da musicisti che non hanno mai timore di ampliare i loro e i nostri orizzonti sonori.

TRACKLIST
1. Pyramidal Existinctualism
2. La Brea Borealis
3. Kosmoceratops
4. Aqualibrium

LINE-UP
Daniel J. La Rochelle – Guitars (rhythm)
Bradley J. Mowen – Vocals
Arran E. McInnis – Guitars (lead)
Dorando P. Hodous – Bass, Vocals
Benjamin P. Thomas-Kennedy – Drums, Percussion

LESBIAN – Facebook

Qaanaaq – Escape From The Black Iced Forest

Cinque brani piuttosto lunghi e ricchi di repentine aperture melodiche, alternate a qualche accelerazione e a fughe strumentali di matrice prog, sono quanto offre un album anomalo come Escape From The Black Iced Forest.

Più o meno dal nulla sbucano questi Qaanaaq, band bergamasca che propone una stramba mistura tra doom, death, gothic e progressive.

Se, in teoria, questi indizi parrebbero portare su territori affini ad Opeth e successiva genia, in raelta, nonostante la band di Åkerfeldt sia un riferimento dichiarato dal quintetto lombardo, il sound gode di una personalità sorprendente, offerta in particolare dal lavoro tastieristico di Luca Togni, capace di caratterizzare ogni brano con un approccio misurato quanto incisivo.
Niente a che vedere quindi, con ampie aperture sinfoniche od invadenti orchestrazioni plastificate: il tocco di Luca Togni è quanto mai legato al progressive settantiano ed è volto più a punteggiare il sound che non ad assumerne il controllo, lasciando che gli altri strumenti (suonati da altri due Togni, Mattia e Luca, rispettivamente al basso e batteria, e da Dario Leidi alla chitarra) si sbizzarriscano nel contribuire a creare un tappeto sonoro sul quale esibisce un growl piuttosto efficace Enrico Perico (dalle tonalità che ricordano non poco quelle di Mancan degli Ecnephias).
Cinque brani piuttosto lunghi e ricchi di repentine aperture melodiche, alternate a qualche accelerazione e a fughe strumentali di matrice prog, sono quanto offre un album anomalo come Escape From The Black Iced Forest, frutto compositivo di musicisti non più di primo pelo che vi hanno riversato una freschezza compositiva raramente riscontrabile oltre che la dote, anche’essa in via d’estinzione, di non interpretare il proprio ruolo in maniera seriosa, a partire dall’immaginario groenlandico che aleggia sull’intero progetto, almeno a livello lirico (Qaanaaq è, appunto, la città più a nord di quella che qualche buontempone pensò di chiamare “terra verde” ).
Probabilmente i suoni di tastiera esibita da Luca Togni potranno lasciare perplessi i più, mentre personalmente li trovo geniali nel loro apparente minimalismo, in quanto capaci di insinuarsi in maniera velenosa nel cervello (micidiali in tal senso il finale di Body Walks e la parte centrale di High Hopes); resta oggettivamente difficile catalogare i Qaanaaq in maniera esaustiva, perché il doom, che è il primo genere dichiarato, viene esibito nella sua forma più riconoscibile solo nella traccia finale Red Said It Was Green, perché anche la stessa Untimely At Funerals, che parte proprio come una vera marcia funebre, cambia volto più volte fino ad approdare a passaggi che lambiscono la fusion.
In definitiva, l’opera prima dei Qaanaaq si rivela tutt’altro che cervellotica o particolarmente ostica ma è ugualmente rivolta a menti sufficientemente aperte.

Tracklist:
1. Body Walks
2. Eskimo’s Wine Is A Dish Best Served Frozen
3. Untimely At Funerals
4. High Hopes
5. Red Said It Was Green

Line-up:
Enrico Perico – vocals
Dario Leidi – guitar
Mattia Togni – bass
Luca Togni – keyboards
Nicola Togni – drums

QAANAAQ – Facebook

Barbarian Swords – Worms

Secondo full length per i catalani Barbarian Swords, band capace di offrire un interpretazione piuttosto interessante del black metal imbastardendolo con una massiccia dose di doom.

Secondo full length per i catalani Barbarian Swords, band capace di offrire un interpretazione piuttosto interessante del black metal imbastardendolo con una massiccia dose di doom.

Worms è un album che mostra, volutamente, gli aspetti meno politically correct del metal, con la sua ricerca di passaggi ad effetto che vanno ad enfatizzare brutalità assortite (ne sono testimonianza titoli di brani come The Last Virgin On The Earth, Sodomized o Carnivorous Pussy, che non lasciano molto spazio ad equivoci).
Detto questo, l’operato della band si rivela interessante, sicuramente non tedioso e, fatte tutte le debite proporzioni e sostituendo la componente thrash con quella black, Worms ricorda non poco per modus operandi quel Slow, Deep And Hard che fu il primo dirompente album dei Type O Negative.
E’ bene precisare che le similitudini si fermano all’alternanza tra sfuriate e rallentamenti mortiferi e, soprattutto, all’ostentata misoginia dei loro interpreti, perché si tratta alla fine di due lavori che sono ben lungi dal poter essere avvicinabili l’un l’altro per importanza e valore, ma non per questo però Worms va sottovalutato o messo nel dimenticatoio
I Barbarian Swords svolgono infatti il loro compito al meglio, portando alle estreme conseguenze le proprie peggiori perversioni senza porsi particolari limiti né etici ne musicali: ne scaturisce un album sporco, cattivo e pervaso da un filo di humour nerissimo, con brani notevoli come Christian Worms (che, seppur solo nel titolo richiama un’altra traccia storica della band di Steele come Christian Woman) o The Last Virgin On The Earth, Sodomized, senza contare l’interminabile incubo doom di Requiem.
Ecco, forse al gruppo di Barcellona viene meno solo il dono della sintesi, perché settanta minuti di questo tenore potrebbero rivelarsi indigesti per molti, esclusi gli appassionati di doom che non disdegnano atmosfere truculente e grottesche.

Tracklist:
1. I’m Your Demise
2. Outcast Warlords
3. Pure Demonology
4. Christian Worms
5. Total Nihilism
6. The Last Virgin On The Earth, Sodomized
7. Carnivorous Pussy
8. Requiem
9. Ultrasado Bloodbath

Line-up:
Panzer – Bass
Joe Beltza – Drums
Steamroller – Guitars
Voice Of Noise – Guitars
Von Pax – Vocals
BARBARIAN SWORDS – Facebook