Taiga – Cosmos

Da questa interpretazione del genere ciò che si richiede ai musicisti è la capacità di trasformare il senso di disperazione e tragedia incombente in sonorità intense ed in grado di scuotere ed emozionare: l’operazione ai Taiga riesce alla perfezione, dando alle stampe uno dei migliori album ascoltati nel settore negli ultimi anni.

Taiga è un duo russo dedito ad un atmospheric depressive black metal di ottima fattura.

Scorrendo i nomi della coppia di musicisti coinvolti nel progetto, non si può fare a meno di notare come entrambi siano già noti alle cronache trattandosi di Nikolaj Seredov, mastermind degli ottimi Funeral Tears ed Alexey Korolev, boss della Sathanath Records (che tramite la sub label Symbol Of Domination dà alle stampe il lavoro).
Se era lecito, quindi, attendersi qualcosa in più rispetto al solito si viene senza dubbio accontentati da questo Cosmos, album con il quale Seredov abbandona il funeral per lasciarsi andare ad una forma di disperazione musicale più esplicita com’è il DBSM. La voce quindi diviene il classico screaming straziato, con Alexey che dal canto suo tesse melodie tastieristiche di ampio respiro, andando a creare quel contrasto tra i due elementi che del sub-genere è caratteristica peculiare.
Da questa interpretazione del genere ciò che si richiede ai musicisti è la capacità di trasformare il senso di disperazione e tragedia incombente in sonorità intense ed in grado di scuotere ed emozionare: l’operazione ai Taiga riesce alla perfezione, dando alle stampe uno dei migliori album ascoltati nel settore negli ultimi anni.
Cosmos (che è il quarto full length pubblicato in quattro anni, a partire dal 2014) si ammanta di quelle melodie dolenti che sono nel bagaglio di chi si cimenta anche con il funeral, ma asservite alle ritmiche più incalzanti del DBSM: per chi ama il genere il disco è un qualcosa di irrinunciabile, in quanto si tratta di un espressione musicale in grado di evocare un turbinio di sensazioni, rappresentando via via vergogna, sgomento, smarrimento, rabbia, ribellione e infine abbandono.
Le liriche in russo sono solo un parziale ostacolo alla fruizione di testi dotati una notevole profondità, vista la comunque scarsa intelligibilità di questo tipo di screaming e il fatto che con un buon traduttore anche l’alfabeto cirillico cessa d’essere un ostacolo insormontabile: viene così meno anche l’ultimo motivo per privarsi dell’ascolto di un lavoro di grande sensibilità.

Tracklist:
1. Стыд
2. Жить
3. Космос
4. Ты
5. Всё позади
6. Религия мёртвых
7. Слова потеряют значение
8. Прах к праху
9. Своими руками

Line-up:
Nikolay Seredov – Vocals, Lyrics, Guitars, Drums, Bass
Alexey Korolev – Keyboards

TAIGA – Facebook

Retrace My Fragments – Tidal Lock Ep

I ragazzi riescono a semplificare musica altresì complessa, e a renderla in una maniera molto adeguata e piacevole all’orecchio, proponendosi come un ottimo ascolto trasversale, poiché riusciranno ad impressionare chi ama questa commistione, ma anche chi vuole un metal più avanzato.

Ep del 2017 per i lussemburghesi Retrace My Fragments, un gruppo di metal strumentale con un suono che va molto oltre i generi, per creare un grande effetto di insieme.

Si potrebbe definire ciò che si ascolta dentro Tidal Lock come metal strumentale progressivo, dato che è un suono che va avanti invece di rimanere su stesso. Il gruppo ha ovviato in ottima maniera all’uscita del loro cantante storico Marti, che dopo dieci anni di attività insieme ha abbandonato. La musica del combo lussemburghese spazia davvero molto tra il djent, il math e il prog, che rimane una cifra stilistica sempre bene ferma. Il loro suono è sinuoso ma dolce, sempre molto espressivo attraverso linee melodiche che vanno trovate dentro a canzoni dall’andamento sempre molto ondulatorio, come dovrebbe essere qualcosa di progressivo. Una delle peculiarità maggiori dei Retrace My Fragments è quella di possedere un grande equilibrio e di avere tutto sotto controllo, e anche quando si decolla non c’è confusione, ma grande chiarezza, il che aumenta maggiormente la potenza del tutto. Questo terzo ep conferma quanto di buono hanno fatto sino a qui e, anzi, amplia ulteriormente il loro discorso stilistico, portandolo a livelli molto alti. I ragazzi riescono a semplificare musica altresì complessa, e a renderla in una maniera molto adeguata e piacevole all’orecchio, proponendosi come un ottimo ascolto trasversale, poiché riusciranno ad impressionare chi ama questa commistione, ma anche chi vuole un metal più avanzato. Una tappa importante per un gruppo che merita più di quello che ha ricevuto.

Tracklist
1. Khlav Kalash
2. Le Bison De Hoggs
3. Laserbrain

RETRACE MY FRAGMENTS – Facebook

Phendrana – Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi

Anuar Salum offre una sua personale interpretazione del black metal avvolgendolo in un involucro progressivo ed atmosferico, optando così per un approccio più melodico che avanguardista.

Phendrana è il nome di questa one man band messicana al suo primo full length anche se, in effetti, risultano altri due lavori pubblicati in precedenza con il monicker Pakistum.

Ad ogni buon conto il bravo Anuar Salum offre una personale interpretazione del black metal avvolgendolo in un involucro progressivo ed atmosferico, optando così per un approccio più melodico che avanguardista.
Il primo brano di Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi, la quasi title track, si rivela sufficientemente emblematico delle caratteristiche del sound con un impatto inizialmente piuttosto tradizionale ma diretto, per poi aprirsi in un rincorrersi travolgente tra chitarra e basso che, stranamente,  ricorda addirittura So Lonely dei Police.
Molto più eterea la terza traccia Ethereum, non solo per il titolo ma anche e soprattutto per il ricorso ad una voce femminile che ben conosciamo, trattandosi di quella di Vera Clinco dei Caelestis, solo sporadicamente sporcata dallo screaming del leader.
E’ sempre la brava Vera ad essere protagonista di Where Ages Meet che decolla, però, quando il musicista messicano sfoga la sua buon tecnica unita ad un indole compositiva di sicuro spessore, esaltata poi nella bellissima traccia conclusiva Gjenganger.
Forse Sanctum: Sic Transit Gloria Mundi soffre di un minimo di frammentarietà dovuta proprio all’anima progressiva che, talvolta, spazza via con prepotenza le più lineari partiture di matrice estrema; al riguardo non va sottovalutato il fatto che Anuar Salum, nonostante i cenni biografici iniziali possano far pensare il contrario, in realtà è giovanissimo essendo da poco diventato maggiorenne e sicuramente questo dato, alla luce delle basi già importanti gettate con questo suo primo lavoro su lunga distanza a nome Phendrana, ci induce a pensare a margini di miglioramento pressoché illimitati dei quali probabilmente vedremo i frutti in un prossimo futuro.

Tracklist:
1. Sanctum
2. The Threshold
3. Ethereum
4. The Dream
5. Where Ages Meet
6. The Bog
7. Gjenganger

Line-up:
Anuar Salum – All instruments, Vocals

Guests:
Vera Clinco – Vocals (tracks 3, 5)
AraCoelium – Vocals (choirs) (track 7)

PHENDRANA – Facebook

Hadeon – Sunrise

La musica progressiva degli Hadeon è fortemente influenzata da una manciata di icone del genere e non potrebbe essere altrimenti, ma le ottime melodie create si sommano ad un’innata presa dei brani che, pur concedendosi cambi di tempo e tecnicismi vari, puntano tutto sulla qualità di un songwriting ispirato.

Un’altra giovane band si affaccia sul panorama progressivo tricolore con un esordio che farà la gioia degli amanti del genere vecchi e nuovi.

Loro sono gli Hadeon, si sono formati a Udine quattro anni fa e Sunrise è il loro debutto, formato da una cinquantina di minuti di rock progressivo che si rafforza di sferzate metalliche ed ispirazioni che vanno dagli anni settanta ai giorni nostri.
Sette brani, sette malattie che i protagonisti raccontano tramite la musica che si fa sempre più drammatica e cupa in una escalation emozionale che risulta il punto di forza di Sunrise.
La musica progressiva degli Hadeon è fortemente influenzata da una manciata di icone del genere e non potrebbe essere altrimenti, ma le ottime melodie create si sommano ad un’innata presa dei brani che, pur concedendosi cambi di tempo e tecnicismi vari, puntano tutto sulla qualità di un songwriting ispirato.
Parti intimiste si alternano a più grintosi momenti nei quali il metal progressivo prende il sopravvento, per poi tornare a regalarci delicate trame semiacustiche (Never Thought), in un crescendo artistico che lascia a Lightline ed alla splendida Hopeless Dance il compito di accompagnarci alla porta musicale della title track ed entrare nel mondo degli Hadeon, tra eleganti attimi di poesia, crescendo metallici e aperture melodiche sopra le righe.
Con più Threshold che Dream Theater ad ispirare la parte moderna del sound, gli Hadeon non dimenticano gli insegnamenti dei maestri settantiani e ci consegnano un piccolo gioiello progressivo, contribuendo a mantenere su altissimi livelli la nuova scena prog tricolore.

Tracklist
1.Thoughts ‘n’ Sparks
2.Chaotic Picture
3.I, Divided
4.Never Thought
5.Lightline
6.Hopeless Dance
7.Sunrise

Line-up
Federico Driutti – Vocals & keyboard
Alessandro Floreani – Guitars
Fabio Flumiani – Guitars
Gianluca Caroli – Bass
Emanuele Stefanutti – Drums

HADEON – Facebook

Trigger – Cryogenesis

Un buon esordio per il gruppo australiano che si fa preferire nei momenti in cui la furia metallica strappa le redini dalle mani del gruppo ed è cosi libera di sfogarsi, ma che non mancherà di trovare estimatori anche per le sue parti melodiche.

Gruppo australiano nato a Melbourne nel 2011 e con ep alle spalle intitolato Machina e licenziato tre anni fa, i Trigger debuttano sulla lunga distanza con Cryogenesis, album che accomuna in un unico sound soluzioni tradizionali ed imput moderni in un’alternanza di atmosfere estreme, moderne, melodiche e cool.

Siamo in territori esplorati da gruppi come In Flames e Soilwork da una parte e Trivium dall’altra, con un comune denominatore chiamato Iron Maiden e la formula funziona abbastanza bene, anche se i Trigger li preferiamo quando la loro anima estrema prende il sopravvento sulla parte melodica che, come in molti act statunitensi, risulta un pò troppo leggera.
Per il resto Tim Leopold e compagni sanno come intrattenere l’ascoltatore, passando dunque con disinvoltura da ritmiche veloci e tritaossa ad assoli melodici e dal taglio heavy e refrain fatti oer scalare classifiche rock metal nelle radio della costa australiana.
Tutto questo porta ad una varietà che, brano per brano, trova la sua massima ispirazione nel duello tra la tradizione europea e quella statunitense, un bene per la fruibilità di Cryogenesis che sicuramente non annoia nei suoi cinquanta minuti di durata.
L’album in questione è il classico esempio di lavoro che, se ben supportato, dovrebbe fare sfracelli nei giovinastri con un occhio alla storia ed uno alle sonorità più attuali, per mezzo di piccole bombe come l’opener The Forge Of Hepaestus, il power/thrash melodico di Dead Sun, l’ottima Crowned, valorizzata da suoni tastieristici ed un refrain che si piazza al centro del cervello, e Dysphoria, con il suo alternare appeal e ferocia estrema così da risultare il brano più riuscito dell’intero lavoro.
Un buon esordio per il gruppo australiano che si fa preferire nei momenti in cui la furia metallica strappa le redini dalle mani del gruppo ed è cosi libera di sfogarsi, ma che non mancherà di trovare estimatori anche per le sue parti melodiche.

Tracklist
1.The Forge Of Hepaestus.
2.Dead Sun
3.Echoes Of The Silenced
4.Crowned
5.Tethered To The Tide
6.Devide
7.Alexandria
8.Deluzion
9.Dysphoria
10.Veins Of Ambrosia

Line-up
Tim Leopold- Lead Vocals
Luke Ashley – Guitar
Sean Solley – Guitar
Matt Ambrose – Bass
Darcy Mulchay – Drums

TRIGGER – Facebook

Ophe – Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude

Nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.

Dopo aver accolto gli ottimi Område, duo francese dedito ad una forma di black metal decisamente poco convenzionale, la My Kingdom cattura anche gli Ophe, che di quella band sono una diretta emanazione trattandosi del progetto solista di Bargnatt XIX.

Parlando l’anno scorso di Nåde, avevo evidenziato come gli Område, pur nella loro vis sperimentale, riuscivano a mantenere il tutto nell’alveo di una forma canzone che rendeva l’ascolto sicuramente non semplice ma neppure eccessivamente cervellotico.
Ben diverso è il discorso da farsi per questo Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con il quale il musicista lascia sfogare ogni sua pulsione senza porsi particolari limiti stilistici o compositivi, consentendo ad elementi musicali teoricamente alieni al black metal quali il jazz o il noise di arricchire e allo stesso tempo di avvelenare ulteriormente un’atmosfera già abbondantemente malata.
Ne scaturisce così un lavoro non troppo lungo ma intenso e sfidante per le capacità di assimilazione dell’ascoltatore medio: eppure, nonostante quella targata Ophe sia una forma di avanguardismo quanto mai estrema, l’album possiede una sua logica, per quanto a tratti destrutturata, riuscendo così ad attrarre piuttosto che respingere ogni tentativo d’approccio.
Con Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, Bargnatt XIX si spinge anche oltre la tradizione del black sperimentale transalpino ben rappresentata da band come Deathspell Omega e Blut Aus Nord, alzando l’asticella dell’incomunicabilità per raggiungere l’illogica schizofrenia di una band come i Fleurety; però, al contrario del duo norvegese, gli Ophe non illudono l’ascoltatore con passaggi più fruibili per poi quasi deriderlo con momenti a loro modo sconcertanti, ma ne mantengono la testa sempre ben al di sotto della linea di galleggiamento consentendo che un’effimera bolla di ossigeno si palesi solo con la conclusiva Cadent, le cui dissonanze acustiche e la voce carezzevole riescono parzialmente ad edulcorare l’impatto squassante di gran parte del lavoro.
Personalmente ritengo i folli sei minuti di XVIIII l’emblema di Litteras Ad Tristia Maestrum Solitude, con le riminiscenze zorniane che vanno a sovrapporsi all’ottimo lavoro chitarristico del musicista francese, ma anche l’ossessivo mantra recitato sottovoce di Decem Vicibus non è da meno, andando a formare una coppia di tracce più brevi che fungono quasi da spartiacque tra il black metal deviato di Somnum Sempiternum e la cacofonia di Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude.
In buona sostanza, se black metal avanguardista deve esserci, questa è la strada maestra, proprio perché l’operato di Bargnatt XIX non si disperde in mille rivoli di breve gittata, ma rimane nell’alveo in un discorso musicale coerente, per quanto possa apparire nell’immediato inquieto e scostante.

Tracklist:
1. Somnum Sempiternum
2. Decem Vicibus
3. XVIIII
4. Missive Amphibologique D’Une Adynamie A La Solitude
5. Cadent

Line-up:
Bargnatt XIX

OPHE – Facebook

Structural Disorder – …And The Cage Crumbles In The Final Scene

All’ascolto di …And The Cage Crumbles In The Final Scene vi troverete al cospetto di dettagli e sfumature che porteranno alla mente molti gruppi amati negli ultimi trent’anni di metal progressivo, perfettamente inglobati in un sound personale di altissimo livello.

Uno dei punti forti del metal progressivo è l’assoluta mancanza di barriere stilistiche o binari su cui incatenare la creatività degli artisti, specialmente se poi si dimostrano di un’altra categoria come gli svedesi Structural Disorder.

Questo magnifico lavoro intitolato …And The Cage Crumbles In The Final Scene segue di un paio d’anni il secondo album (Distance) e di quattro il debutto con cui si fecero conoscere ai più attenti fans del progressive animato dalla forza espressiva del metal (The Edge Of Sanity).
Il quintetto di Stoccolma capovolge il cilindro e come un mago in elegante frac estrae una buona fetta di quello che la musica metal/rock ha regalato in questi anni, amalgamando e modellando a suo piacimento note e spartiti in un sound vario, originale e perfettamente calato nel progressive moderno.
Inside è l’intro che ci prepara al capolavoro The Fool Who Would Be King, dieci minuti di musica totale, una serie infinita di sorprese compositive che passano dal metal prog, al death, dalla musica teatrale alla fusion, in un caleidoscopio di luci e ombre che cambiano tempi ed atmosfere al sound di cui si compone il brano.
Il resto continua sulla strada intrapresa dalla prima straordinaria traccia, allargando ancora di più i confini (Nine Lies) con sfumature di metal classico e ritmiche power che si alternano ad atmosfere intimiste care al progressive moderno.
Assolutamente non cervellotica né troppo intricata, la musica del gruppo splende di un songwriting assolutamente digeribile anche per ascoltatori di generi dall’andamento molto più lineare delle bellissime ripartenze di The Architect Of The Skies, delle melodie tradizionalmente prog di Kerosene o della forza espressiva del secondo brano capolavoro di questo album, Mirage, che chiude l’opera come era iniziata, fra decine di cambi d’atmosfere ed ispirazioni.
All’ascolto di …And The Cage Crumbles In The Final Scene vi troverete al cospetto di dettagli e sfumature che porteranno alla mente molti gruppi amati negli ultimi trent’anni di metal progressivo, perfettamente inglobati in un sound personale di altissimo livello.
Dopo il bellissimo lavoro dei norvegesi In Vain, gli Structural Disorder regalano un’altra perla progressiva di provenienza scandinava imperdibile per gli amanti della musica a 360°.

Tracklist
1. Inside
2. The Fool Who Would Be King
3. Drowning
4. Nine Lies
5. The Architect of The Skies
6. Kerosene (Birgersson)
7. Mirage

Line-up
Markus Tälth – Guitar & Vocals
Johannes West – Acoustic Accordion, Electric Accordion & Vocals
Erik Arkö – Bass & Vocals
Kalle Björk – Drums
Hjalmar Birgersson – Keyboard, Guitar & Vocals

STRUCTURAL DISORDER – Facebook

Infamous Sinphony – Manipulation

Indimenticabile esordio, nel panorama underground americano di fine anni Ottanta, imperdibile per gli amanti del thrash più estremo e brutale, nero e tirato.

Una leggenda. Truci e feroci. Grezzi e violentissimi, soprattutto per gli standard degli Eighties.

Da Los Angeles, gli Infamous Sinphony (è questa la grafia originaria del nome), esordirono nel 1989 su demo tape, con un prodotto volutamente sgraziato e lancinante, peraltro ottimamente registrato. La band si era fatta le ossa con anni di gavetta e concerti di spalla a Exploited, Beowulf, DRI, Blast ed Adolescents. Questa vicinanza a band hardcore punk andò molto ad influenzare il suono sporco ed estremamente rude, oscuro e orrorifico, del quintetto californiano. Manipulation presentava in tutto sedici velocissime tracce, che spingevano il thrash americano di allora in una direzione quasi proto-grind, con appena un paio di rallentamenti, più prossimi al doom. Sotto il profilo vocale, facevano sembrare Wattie degli Exploited un edulcorato maestro di sensibilità canora, il che già la dice lunga a proposito della loro furia cieca: pezzi che paiono un vero assalto all’arma bianca, senza tregua ed all’insegna di una insistita corrosività musicale. Puro underground, insomma. Dopo quella granitica e fulminante cassetta ed una fase di oblio, il gruppo si è riformato, incidendo altri dischi. Tuttavia – nella memoria di chi scrive, come in quella di molti thrashers – è vivo, quasi soltanto, il ricordo del formidabile Manipulation, ristampato poi su CD prima dalla Wild Rags e poi dalla Xtreem Music, nel 2014, con tre bonus-track.

Track list
– Manipulation
– Let’s Move to Another Planet
– Process of Denial
– Siamese Twins
– Outa the Black
– Cadavers-n-stiffs
– Dead Bumble Bees
– Get Out
– Sniveller
– Retribution
– Executioner
– Meth Lab
– Anti-buse
– Persian Gulf
– Blood Orgy
– Incapacitated

Line up
Greg Raymond – Vocals
Paul Leoncini – Guitars
J-sin Platt – Guitars
Anthony Chuck Burnhand – Drums
Scott Nelson – Bass

1989 – Autoprodotto

Eschatos – Mære

Ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Mi sto sempre più convincendo che, alla fine, la quantità di grande musica che ci perdiamo sarà infinitamente superiore a quella che riusciamo ad intercettare.

Allora diventa una questione di mera fortuna imbattersi in un lavoro come questo ep dei lettoni Eschatos, band con due full length all’attivo che a occhio e croce sembrano essere passati del tutto inosservati dalle nostre parti.
Quindi siamo costretti a cominciare, volenti o nolenti, dal fondo, con Mære e le sue due lunghe tracce che squarciano ogni velo su una band dal talento enorme.
Intanto revisioniamo l’etichetta affibbiata agli Eschatos: progressive black metal vuol dire tutto e niente, perché in realtà del genere nato tra fiordi e le foreste della Norvegia troviamo prevalentemente l’attitudine, alcune sfuriate ritmiche e lo screaming che la stupefacente Kristiana Karklina esibisce all’interno di un’ interpretazione teatrale e a tratti spasmodica.
Mære consta di due soli brani per un fatturato complessivo di poco superiore ai venti minuti ma dal peso specifico notevole: Luminary Eye Against the Sky è un lento crescendo che può ricordare per impostazione gli olandesi Dool, benché con caratteristiche di base più metal e con un parossismo vocale che culmina con il disperato ripetuto urlo “is my death”.
The Night of the White Devil è una traccia divisa in tre parti, con la prima che pare ripartire da dove era terminato il precedente brano con l’isterica reiterazione della frase “I step into the sun with face covered in blood“, preludio ad un incedere più atmosferico e melodico che asseconda uno sviluppo ritmico che con il trascorrere dei minuti si increspa e si placa senza soluzione di continuità: gli Eschatos manipolano la materia con la spiccata personalità della band di livello superiore, esaltata dall’apporto di una vocalist fuori dal comune alla quale offre talvolta un valido supporto il più profondo growl del tastierista Marko Rass (anche se quello di Kristina non è affatto da meno per ferocia).
La band lettone proviene come detto da due lavori di buona fattura che non le è valsa ancora la fama che pare meritare incondizionatamente, fosse solo in base a quanto offerto in Mære; ascoltare questo ep per chi apprezza il post black/metal è un passo fondamentale, in attesa che giunga auspicabilmente quanto prima un nuovo full length che potrebbe definitivamente far brillare come una supernova il nome degli Eschatos.

Tracklist:
1. Luminary Eye Against the Sky
2. The Night of the White Devil (part I, II and III)

Line-up:
Kristiana Karklina — vocals
Edgars Gultnieks — guitars
Martinš Platais – guitars, bass, keyboards
Tomass Bekeris — bass,
Edvards Percevs — drums,
Marko Rass — keyboards, organ, effects, vocals.

ESCHATOS – Facebook

Crescent – The Order Of Amenti

Una continua e crescente tensione viene portata al massimo da brani pieni di malvagità, tutti medio lunghi ed elaborati quel tanto che basta per farne otto dimostrazioni di pura malvagità fatta musica.

Non é sicuramente il primo album estremo che come tematiche si concentra sulle atmosfere misteriose ed oscure dell’antico Egitto, ma dalla sua questo mastodontico e devastante album ha nell’origine dei suoi creatori quel di più che lo rende ancora più affascinante.

Infatti proprio dai vicoli più nascosti del Cairo nascono i Crescent, notevole creatura estrema che picchia forte il pugno sul tavolo della scena underground mondiale con The Order Of Amenti.
Persi così nell’inferno egiziano veniamo travolti dal blackened death metal del quartetto, a tratti supportato da sinfonie oscure che rendono ancora più soffocante il sound che raccoglie in sé una serie di riff che richiamano la tradizione locale, in un turbinio di musica estrema che arriva improvvisa come una tempesta di sabbia nel deserto.
L’album è una discesa terrorizzante nel profondo degli inferi, dove statue di divinità avvolte tra le spire di rettili letali, sono di guardia ai segreti di una civiltà che ancora difende, tra leggende e verità, la sua misteriosa esistenza.
I Crescent ci vanno giù pesante, seguendo la strada già tracciata con il primo album (Pyramid Slaves) e portando male in musica come e meglio di tanti act più famosi.
Una continua e crescente tensione viene portata al massimo da brani pieni di malvagità, tutti medio lunghi ed elaborati quel tanto che basta per farne otto dimostrazioni di pura malvagità fatta musica.
Stupende si rivelano Obscuring The Light, Beyond The Path Of Amenti e la conclusiva In The Name Of Osiris, che vi trascineranno in un clima maligno, valorizzato da un metal estremo che avvicina le proposte di Nile e Behemoth e le ingloba in un sound che tocca vette di rabbrividente atmosfericità: un’opera oscura da far vostra senza riserve.

Tracklist
1.Reciting Spells to Mutilate Apophis
2.Sons of Monthu
3.Obscuring the Light
4.Through the Scars of Horus
5.The Will of Amon-Ra
6.Beyond the Path of Amenti
7.The Twelfth Gate
8.In the Name of Osiris

Line-up
Moanis Salem – Bass
Amr Mokhtar – Drums
Ismaeel Attallah – Guitars, Vocals
Youssef Saleh – Guitars

CRESCENT – Facebook

Emphatica – Metamorphosis

Metamorphosis fa parte di quelle opere di musica totale, che lasciano stupefatti, un’esperienza di viaggio che ci fa perdere in una marea di suoni e sensazioni molte volte difficili da interpretare.

Emphatica è la creatura di Gerardo Sciacca, musicista campano dal grande talento che, con il suo progetto solista, nel giro di poco più di due anni ha dato alle stampe ben sette lavori, di cui quattro nel 2014 (“Winterscape”, “Atlas Of The Universe”, “Minimal Clouds” e Metamorphosis), per lo più strumentali ai quali probabilmente l’etichetta di symphonic metal sta stretta, almeno per i canoni del genere.

Metamorphosis fa parte di quelle opere di musica totale, che lasciano stupefatti, un’esperienza di viaggio che ci fa perdere in una marea di suoni e sensazioni molte volte difficili da interpretare; musica senza tempo che esce fuori dai binari dell’usa e getta, ormai abitudine anche nei generi meno popolari, e si eleva ad opera d’arte.
Ho immaginato, all’ascolto dell’album, di attraversare il corridoio di un museo, volgendo lo sguardo alle opere esposte, ora quadri, ora sculture, ed accomunando ad ognuna di esse un momento di questo capolavoro, così che la musica di Gerardo potesse avere un volto, un paesaggio, una storia.
Di solito queste sensazioni si manifestano leggendo, nel raffigurarsi volti e luoghi descritti dallo scrittore che il lettore, senza volerlo, disegna nella sua mente, proprio per dare una fisionomia a personaggi ed eventi: sensazioni che la musica racchiusa in Metamorphosis esalta, portando l’ascoltatore a lavorare di fantasia.
Molto vicino ad un’opera classica, questo lavoro non aggiunge elementi sinfonici al metal, ma li amalgama sapientemente, facendo risultare il tutto un’unica stupenda sinfonia di musica a 360°, e creando un mastodontico caleidoscopio di suoni dove la voce risulterebbe superflua, come se potesse rompere l’incantesimo, fragile opera di cristallo di cui la conclusiva The Time Traveler è un manifesto di celestiale armonia di note.
Un album consigliato a tutti gli amanti della buona musica: tra le sue note (tanto per darvi dei riferimenti) ho rinvenuto echi di progressive settantiano, gothic, metal prog, qualche digressione elettronica e naturalmente musica classica, il tutto amalgamato per creare un lavoro sublime. Non lasciatevelo sfuggire.

Tracklist:
1.The Abstract Manifesto
2.Metamorphosis
3.Once In A Lifetime
4.Northern Stars
5.Anima
6.The Eyes Of Darkness
7.The Time Machine
8.The Time Traveler

Line-up:
Gerardo Sciacca- All Instruments

EMPHATICA – Facebook

Sar Isatum – Shurpu

L’album viaggia piuttosto bene, magari senza guizzi indimenticabili ma corrosivo il giusto per tenersi lontano da svenevolezze assortite, mantenendo ben saldo il carico di gelida ferocia che il genere richiede.

Il symphonic black continua ad essere interpretato con buon proprietà un po’ in tutti i continenti e se appare comunque difficile poter rinverdire i fasti del passato, le band che vi si dedicano lo fanno con grande competenza e risultati apprezzabili .

Vedremo se i capostipiti della specie, ovvero i Dimmu Borgir (almeno per quanto riguarda l’approccio al genere più pomposo e ammiccante), saranno in grado di riprendere in mano lo scettro con l’album di prossima uscita dopo una pausa creativa piuttosto lunga, ma per ora vale la pena di prestare attenzione a band dall’inferiore pedigree ma dalle sicure capacità.
E’ questo il caso dei Sar Isatum, gruppo del Colorado che sembra comunque provenire dall’altra parte dell’oceano per approccio: Shurpu è il primo album per questi buoni epigoni della scena scandinava di fine secolo, prendendo come riferimenti band dall’impatto sinfonico ma ben più ortodosso come i primi Emperor, i Limbonic Art o gli stessi Dimmu Borgir fino ad Enthrone Darkness Triumphant.
L’album viaggia piuttosto bene, magari senza guizzi indimenticabili ma corrosivo il giusto per tenersi lontano da svenevolezze assortite, mantenendo ben saldo il carico di gelida ferocia che il genere richiede: è anche grazie ad un lotto di tracce di buona intensità (tra le quali citerei l’opener autointitolata e le furiose Black Gate e Gormandizer) che i nostri riescono ad imprimere un marchio sufficientemente personale in un ambito nel quale è arduo schiodarsi da certi stilemi.
I Sar Isatum arricchiscono il tutto con un immaginario che riporta alla civiltà sumera, con tanto di sfumature orientaleggianti che si manifestano anche nei momenti più burrascosi: un elemento in più che contribuisce a rendere appetibile questo buonissimo primo passo per il gruppo di Denver.

Tracklist:
1. Sar Isatum
2. Chenoo
3. Black Gate
4. Gormandizer
5. Celestial Diaspora
6. Vanaspati
7. Halls of Pestilence

Line-up:
Gadreel – Guitars
Memitim – Keyboards
Cannibal Chris – Bass
JP Dalkhu – Drums
Demothi – Vocals

SAR ISATUM – Facebook

Black Wizard – Livin’ Oblivion

Per gli amanti dei suoni old school i Black Wizard, con il loro heavy rock d’alta scuola vario e potente, sono una band da annotare sul biglietto della spesa in questo inizio di 2018.

Una band che non faticherà a trovare nuovi estimatori con il suo nuovo lavoro è quella dei canadesi Black Wizard, il cui sound infatti pesca a piene mani dalla tradizione heavy metal e hard rock a cavallo tra gli anni settanta ed il decennio successivo, alla quale saggiamente i musicisti nord americani aggiungono dosi letali di stoner rock così da renderne l’approccio squisitamente retrò ma molto cool.

Siamo arrivati al quarto album di una carriera iniziata sui banchi di scuola e che ha portato i quattro amici ad unirsi in una band nel 2008, per poi esordire due anni dopo con l’album omonimo; Young Wisdom è il secondo lavoro uscito nel 2013 ,  seguito da un live e dal precedente New Waste licenziato due anni fa.
Livin’ Oblivion non porta con sé grossi cambiamenti, ma non è quello che si cerca da un gruppo come i Black Wizard, quindi chi ama l’heavy rock pregno di umori vintage e potenziato da dosi massicce di doom e stoner non avrà di che lamentarsi all’ascolto di questa apoteosi di riffoni ultra heavy.
Come sul precedente album il sound varia mantenendo una buona alternanza tra brani più orientati verso l’heavy metal, altri splendidamente doom (bellissima James Wolfe) e, come la title track, avventurosi tuffi nello stoner di fine millennio.
L’album non fa prigionieri, anche quando la furia metallica si placa e il gruppo ci regala una perla sabbathiana come Cascadia, brano semi acustico che prelude alla veloce Portraits.
Continua fino alla fine questa altalena tra atmosfere doom e heavy/stoner metal, con la conclusiva Eternal Illusion a donare gli ultimi botti di questo gran bel lavoro.
Per gli amanti dei suoni old school i Black Wizard, con il loro heavy rock d’alta scuola vario e potente, sono una band da annotare sul biglietto della spesa in questo inizio di 2018.

Tracklist
1. Two Of These Nights
2. Feast Or Famine
3. James Wolfe
4. Livin Oblivion
5. Cascadia
6. Portraits
7. Poisoned Again
8. Heavy Love
9. Eternal Illusion

Line-up
Eugene Parkomenko – Drums
Adam Grant – Vocals, Guitars
Evan Joel – Bass
Danny Stokes – Guitars

BLACK WIZARD – Facebook

Dirty Shirt – FolkCore DeTour

Una grande festa dal vivo di metal e di folk romeno, una gioia per le orecchie e per le gambe.

Un progetto musicale davvero interessante, già bello sulla carta, che poi diventa un qualcosa di bellissimo nella pratica, e soprattutto nella musica.

I Dirty Shirt sono un gruppo romeno di metal moderno molto fresco e conosciuto in patria, ma hanno anche girato fuori dalla loro nazione. Questo disco dal vivo è il risultato di una trionfale tournée in patria con l’Ansamblul Transilvania, un’orchestra di folclore della Transilvania, la splendida regione romena che è diventata famosa come patria del Conte Dracula, ma che è molto più di quello. L’unione dei due gruppi riesce benissimo, come si può ascoltare nel disco, che è un perfetto esempio di come due flussi di energia in apparente contraddizione abbiano invece tante cose in comune ed insieme ne escono entrambi potenziati. La forza dei Dirty Shirt sta nella loro capacità di creare groove metallici freschi e potenti, di grande forza dal vivo. L’orchestra transilvana porta nel loro suono una ventata di folclore romeno che è già molto metal di par suo. Il concerto vive di momenti anche molto differenti fra loro, con un pubblico trascinato dai gruppi e trascinante di per sé, che diventa esso stesso un’entità ben precisa che partecipa al concerto. Stupisce la nuova veste dei brani dei Dirty Shirt e gli arrangiamenti dell’Ansamblul Transilvania che sono molto azzeccati e calzano a pennello. Metal e folk verace vanno perfettamente a braccetto, e come in una osmosi si scambiano reciprocamente vita e fluidi, creando una nuova entità totalmente inedita e molto potente, che ha nella dimensione live la sua ragion d’essere. Da tempo non si ascoltava un disco così potente dal vivo, caldo ed interessante in ogni suo frangente. Questo lavoro è stato pianificato e preparato nei minimi dettagli, e ciò si evince nella cura riposta e nell’andare oltre i propri limiti. FolkCore DeTour è un disco che mostra un percorso mai battuto in precedenza dal metal romeno, e che lascia davvero una grande gioia dentro e dietro di sé. L’album è molto divertente e non si riesce a stare fermi mentre lo si ascolta: il progetto è perfettamente riuscito, anzi è andato oltre le più rosee aspettative.

Tracklist
1. Rapsodia Romana
2. Ciocarlia
3. Moneyocracy
4. Dulce-i Vinu’
5. Cobzar
6. Ride
7. Freak Show
8. UB
9. Balada
10. Manifest
11. Rocks Off
12. My Art
13. Dirtylicious
14. Hungarian Dance No.5
15. Mental Csardas
16. Hotii
17. Maramu’
18. Calusarii
19. Saraca Inima Me
20. Bad Apples

Line-up
Dan «Rini» Craciun : vocals
Robert Rusz : vocals
Mihai Tivadar : keys, guitars
Cristian Balanean : guitars
Dan Petean : guitars
Pal Novelli : bass
Vlad «X» Toca : drums
Cosmin Nechita : violin

DIRTY SHIRT – Facebook

Wolfhorde – The Great Old Ones

Gradevole ep offerto dai Wolfhorde, i quali omaggiano con un brano ciascuno Finntroll, Moonsorrow ed Amorphis, ovvero le più importanti tra le band che ne hanno influenzato il sound.

Anche se un ep contenente tre cover di norma non dovrebbe trovare cittadinanza su queste pagine, facciamo un eccezione visto l’ambito abbracciato  da questo lavoro.

La band che si cimenta con la riproposizione di un brano ciascuno di Finntroll, Moonsorrow e Amorphis si chiama Wolfhorde, è ovviamente finlandese e si lancia un questa operazione per omaggiare fin dal titolo  (The Great Old Ones)  quelli che sono stati i gruppi che hanno fornito un impronta al loro sound.
Indubbiamente qui troviamo tre maniere ben diverse nel maneggiare la materia folk all’interno del metal estremo, a partire dagli Amorphis per i quali tale elemento è sicuramente parte integrante del loro stile, ma certo in maniera meno esplicita di quanto non lo sia per i Moonsorrow e tanto meno per i Finntroll.
Il trio di Keuruu va comunque a pescare giustamente nelle prime opere dei propri numi tutelari offrendoci la loro versione della title track di Jaktens Tid dei campioni dell’humppa metal, Kylän Päässä da Voimasta ja kunniasta, secondo album di una delle più grandi band contemporanee (almeno per quanto mi riguarda ) e Sign from the North Side, tratta addirittura da The Karelian Isthmus, full length d’esordio per quello che diverrà poi una dei nomi di punta in assoluto nella terra dei “thousand lakes”.
Le versioni sono interessanti in quanto ben eseguite e comunque non risultano insipide fotocopie degli originali, nel senso che i Wolfhorde hanno cercato per quanto possibile di conferire una loro impronta a ciascun brano; ovviamente, al di là di questo gradevole passaggio interlocutorio, per la band non resta che trarre il meglio dalla lezione dei “great old ones” per cercare, nel prossimo futuro, se non di raggiungerne  il livello (molto difficile) almeno di avvicinarlo, e noi non possiamo che augurarcelo con loro.

Tracklist:
1. Jaktens Tid (Finntroll cover)
2. Kylän Päässä (Moonsorrow cover)
3. Sign from the North Side (Amorphis cover)

Line-up:
Nuoskajalka – Bass
Hukkapätkä – Vocals, Drums, Percussion
Werihukka – Guitar, Traditional instruments, Keyboards

WOLFHORDE – Facebook

Riffocity – Under A Mourning Sky

Under A Mourning Sky non può certo distinguersi per l’originalità, ma è un album suonato e prodotto molto bene, e se siete fans degli Iced Earth il consiglio è di cercarlo e farlo vostro, non ve ne pentirete.

Ecco un caso nel quale il monicker del gruppo (Riffocity, sinceramente bruttino) potrebbe frenare gli appassionati di thrash metal al momento di un primo ascolto, per poi farli stropicciare gli occhi davanti all’ottimo album di debutto sulla lunga distanza, dal titolo Under A Mourning Sky.

Prodotto dal gruppo con l’aiuto di Bob Katsionis (Firewind), il lavoro vede i Riffocity impegnati in un heavy/thrash statunitense dall’atmosfera drammatica ed oscura, dura come l’acciaio e melanconica come i più suggestivi momenti di un capolavoro come Something Wicked This Way Comes degli ormai storici Iced Earth.
E alla band di Jon Schaffer i Riffocity si ispirano maggiormente per questo album che a tratti entusiasma per la sagacia con cui la band passa da sfuriate metalliche pesantissime, ricamate da solos granitici ma oltremodo melodici, e da ritmiche mozzafiato a emozionanti brani nei quali il cantante Thomas Trampoyras può dare sfoggio della sua naturale somiglianza vocale con il Barlow di Melancholy (Holy Martyr) o Watching Over Me.
Da qui la band greca parte per la sua (poco) personale rivisitazione del thrash metal d’oltreoceano, e oltre agli Iced Earth tra le trame del disco escono in maniera marcata i soliti Metallica ed una vena progressiva che porta i Riffocity a costruire tracce lunghe ed assortite di cambi di tempo e ottime parti strumentali che vedono salire in cattedra i due chitarristi (Dimitris Kalaitzidis e George Lezkidis).
L’album sfiora l’ora di durata ma consiglio di non scoraggiarsi perché merita comunque di essere ascoltato per intero, dedicando particolare attenzione a Fortunes Of Death, alla devastante From Inside the Arrows Come, a Perish Unloved e alla conclusiva Above The End.
Under A Mourning Sky non può certo distinguersi per l’originalità, ma è un album suonato e prodotto molto bene, e se siete fans degli Iced Earth il consiglio è di cercarlo e farlo vostro, non ve ne pentirete.

Tracklist
1. Hail Thy Father
2. Arnis Oblivion
3. Bitter Sunday
4. Fortunes of Death
5. This Eternal Secret Lies Above
6. From Inside the Arrows Come
7. Isolation
8. Perished Unloved
9. Under a Mourning Sky
10. Above The End

Line-up
Thomas Trampoyras – Vocals
Dimitris Kalaitzidis – Guitars, Backing Vocals
Giorgos Lezkidis – Guitars
Panos Sawas – Bass

Current Line-up
Thomas Trabouras-Vocals
Dimitris Kalaitzidis-Guitars and Backing Vocals
George Lezkidis-Guitars
Panos Savvas-Bass Guitar
Tasos Daimantidis -Drums

RIFFOCITY – Facebook

Mortis Mutilati – The Stench Of Death

Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente.

Della one man band francese Mortis Mutilati ci si era già occupati diversi anni fa in occasione del precedente full length Mélopée funèbre.

Macabre, che in passto ha militato in ottime band come Azziard, Moonreich e The Negation, tra le altre, porta avanti da anni un idea di black metal molto personale benché nel complesso priva di particolari spunti sperimentali.
Il punto di forza del sound offerto è un buon gusto melodico che va ad intersecarsi con un mood drammatico e intenso, che abbraccia sonorità che vanno dal dsbm fino al doom, e non è un caso se lo stesso musicista parigino definisce il suo stile funeral black metal.
The Stench Of Death è il quarto full length che va ad aggiungersi ad una discografia finora impeccabile, con il nostro che, dopo i primi anni in perfetta solitudine, ha iniziato recentemente ad avvalersi di contributi da parte di altri musicisti, tra i quali in particolare quello del chitarrista Rokdhan: questo finisce inevitabilmente per arricchire un sound che ha le sue fondamenta nel black metal ma da lì si muove per costruire un qualcosa di più composito, che attinge parimenti dal doom più catacombale come da quella dark wave che andò ad influenzare i Katatonia della superba coppia The Discouraged Ones / Tonight’s Decision.
Macabre possiede un notevole gusto melodico che favorisce la fruizione di un lavoro lungo ma ricco di momenti dal forte impatto emotivo, coincidenti per lo più con i passaggi maggiormente ragionati all’interno di brani bellissimi come Echoes From The Coffin, Onguent Mortuaure e Invocation A La Momie, oltre che nella lunghissima Portrait Ovale.
Pur senza possedere un forte impulso innovativo, il nome Mortis Mutilati si fa ricordare per un’interpretazione musicale delle pulsioni più oscure dell’animo umano tutt’altro che inflazionata, con il suo incedere tragico e allo stesso tempo decadente che va a comporre un quadro stilistico ben rappresentato graficamente dalla copertina horror/vintage.

Tracklist:
1.Nekro
2.Echoes From The Coffin
3.Crevant-Laveine
4.Regards D’outre Tombe
5.Onguent Mortuaure
6.Portrait Ovale
7.Homicidal Conscience (feat. Devo Andersson)
8.Invocation A La Momie
9.L’odeur du Mort
10.Ecchymoses

Line-up:
Macabre – All instruments, Bass, Vocals

Guests:
Rokdhan – Guitars
Asphodel – Vocals (female)
Devo – Guitars (lead) (track 7)

Premarone – Das Volk Der Freiheit

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante.

Tornano nell’etere le pesanti e psichedeliche note dei Premarone, notevolissimo gruppo psych doom alessandrino.

A due anni dal bello e tenebroso Obscuris Vera Involvens, arriva un disco che lascerà spiazzate anche le menti più aperte, e potrebbe essere facilmente l’uscita dell’anno italiana nel campo della musica pesante e pensante. Das Volk Der Freiheit è la colonna sonora più adeguata alla crepuscolare fine che noi chiamiamo vita, alla nostra folle corsa verso una distopica dittatura dove noi saremo felici di essere tecno zombie. Questa opera è davvero un capolavoro di musica sociale, nel senso che riesce a cantare la nostra italianità attraverso i nostri difetti e le nostre quotidiane tragedie. L’Italia è un paese terribile, tanto bello quanto bastardo e corrotto, molle e sempre con dei soldi in mano insieme al cazzo che non si rizza nemmeno più. I Premarone ci portano in giro per la nostra psiche collettiva, ispirandosi ad un altro bellissimo viaggio lisergico del passato, il debutto della krautrock band German Oak, una comune hippie di cinque membri di Dusseldrorf, che registrò un disco eccezionale sulla Germania in un bunker. I Premarone partono da lì per spaziare tantissimo, usando la formula della jam, e ci regalano molta gioia e molta inquietudine. Das Volk Der Freiheit è un viaggio potentissimo che va affrontato senza paure, bisogna immergersi in questo lungo flusso di coscienza dove si può ritrovare il gusto del krautrock nell’esplorare senza timore, la forza del doom, il cantato in italiano con stile molto Cccp e Disciplinatha, per raccontare ciò che viviamo ogni giorno. La bellezza di questo lavoro è la sua totale e brutale sincerità, riuscendo ad arrivare dove è difficile spiegare, in quell’intrico di merda e sangue che è l’Italia. La produzione è curata assai bene, supporta benissimo la narrazione. Ci sono anche droni e momenti di stasi, anche perché questo disco ha una fisicità molto importante, è come viaggiare su un tappeto magico e ci sono cose sotto e sopra di te. I Premarone sono dei fantastici narratori, non perdono un colpo, dilatano e restringono il campo visivo del nostro terzo occhio a loro piacimento, spiegando in forma quasi subliminale concetti altresì difficilmente esplicabili. Un disco di psichedelia pesante fatto per farci pensare e per portarci lontano, sopra questo mare di dolorosa plastica tricolore.

Tracklist
1.Intro – Mani pulite
2.Parte I – D.V.
3.Interludio – Interferenze
4.Parte II – D.F.

Line-up
Pol – Bass
Ale – Drums
Fra – Guitars, Vocals
Mic – Keyboards

PREMARONE – Facebook

Garhelenth – About Pessimistic Elements & Rebirth of Tragedy

I Garhelenth propongono un buon black metal devoto alla scena scandinava, molto cupo, dai ritmi mai eccessivamente sostenuti e con una propensione verso il DSBM che affiora di tanto in tanto nel corso dei brani.

Eccoci di fronte ad un non così consueto album di black metal offerto da una band di origine araba.

Infatti i Garhelenth sono un duo formatosi a Teheran anche se, attualmente, Hilnorgoth e Sagroth risiedono in Armenia, nazione nella quale sicuramente il genere può essere suonato e sviluppato senza le problematiche esistenti al riguardo in gran parte dei paesi mediorientali.
About Pessimistic Elements & Rebirth of Tragedy è il secondo full length per i Garhelenth e ci mostra una band decisamente a proprio agio nel proporre un buon black metal devoto alla scena scandinava, molto cupo, dai ritmi mai eccessivamente sostenuti e con una propensione verso il DSBM che affiora di tanto in tanto nel corso dei brani.
L’album è piuttosto breve ma ficcante il giusto, rivelandosi meritevole d’attenzione ben oltre gli aspetti prettamente legati alla curiosità derivante dalla desueta provenienza geografica.
Indubbiamente l’ortodossia stilistica esibita limita abbastanza le variazioni sul tema, anche se in brani come Self-Humiliation e To Impersonal Mankind certi rallentamenti, uniti a vocals più lancinanti, conferiscono come detto un’aura depressive che non stona affatto, soprattutto se poi quale contraltare troviamo una traccia incalzante come Moral to Pessimist.
Quello preso in esame è sicuramente un buon lavoro che va a collocarsi nella media, invero piuttosto elevata, delle offerte che vengono portate alla nostra attenzione nell’ultimo periodo.

Tracklist:
1. Pessimistically (Abolish the Idols)
2. Destruction of the Will
3. Foolish Conscience
4. Self-Humiliation
5. To Impersonal Mankind
6. Moral to Pessimist
7. Perspective of Exorbitant

Line-up:
Hilnorgoth – Guitars, Vocals
Sagroth – Guitars

GARHELENTH – Facebook