Abyssic – High The Memory

Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi che superano entrambi i venti minuti di durata.

Gli Abyssic sono a loro modo una novità in ambito doom, in quanto fondono in maniera mirabile l’incedere rallentato del funeral con gli spunti sinfonici del black metal norvegese.

Non è un caso, del resto, se la band vede quale fondatore Memnoch, già membro oltre che dei notevoli Susperia anche degli Old Man’s Child di Galder, dei quali ha fatto parte anche il ben noto drummer Tjodalv (Dimmu Borgir) che assieme al tastierista Andre Aaslie (Funeral), alla bassista Makhashanah (ex Sirenia) e all’altro chitarrsta Elvorn, anch’egli nei Susperia, va a completare la line-up di quello che potrebbe sembrare a prima vista una sorta di supergruppo black metal e che, invece, è autore di uno degli album più solenni e luttuosi usciti quest’anno.
Quale possibile termine paragone per l’operato degli Abyssic si potrebbe prendere l’ultima opera dei redivivi Comatose Vigil (con il suffisso A.K.) con la differenza sostanziale di un approccio molto meno soffocante, favorito da un lavoro delle tastiere che sposta il sound su un piano atmosferico piuttosto che orrorifico o funereo.
High The Memory va ad aggiungersi allo splendido esordio del 2016 A Winter’s Tale, esaltando come in quell’occasione il tocco di Aaslie e, in generale, di tutta una band composta da musicisti di spessore asserviti alla creazione di brani lunghi, avvolgenti e melodicamente ineccepibili.
Quasi un’ora e venti di musica può sembrare un’enormità, ma non lo è affatto quando viene esibita in maniera così fluida e l’audience possiede il giusto approccio al genere: ciò che meraviglia è appunto il fatto che in un lavoro di tali dimensioni non vi siano cali di tensione, specialmente nei due brani più lunghi come la title track o Where My Pain Lies, che superano entrambi i venti minuti di durata.
Gli Abyssic portano alle estreme conseguenze livello melodico il pathos che sono stati capaci di creare in passato band come gli Ea o i Monolithe; peraltro, proprio con questi ultimi, i norvegesi intraprenderanno in primavera un tour europeo che farà tappa in Italia il prossimo 18 aprile allo Slaughter di Paderno Dugnano: una serata che si preannuncia imperdibile per gli amanti di queste magnifiche sonorità.

Tracklist:
1. Adornation
2. High the Memory
3. Transition Consent
4. Where My Pain Lies
5. Dreams Become Flesh

Line-up:
Memnock – vocals, contrabass
Elvorn – guitars
Andre Aaslie – keys, orchestration
Tjodalv – drums
Makhashanah – bass, additional vocals

ABYSSIC – Facebook

 

Octopus – Supernatural Alliance

Oscuri, epici e fantastici: gli Octopus si candidano a essere la nuova sensazione del dark-doom. Per coloro i quali amano Coven, Lucifer e naturalmente Electric Wizard.

Un disco come questo poteva uscire solo per la Rise Above. Senza dubbio.

Solo il genio e il talento del grande Lee Dorrian potevano cogliere i significati della proposta di questi Octopus (attenzione, da non confondersi con le due band dallo stesso nome degli anni Settanta: quelli anglo-britannici di psichedelia e quelli tedeschi di hard prog sinfonico). Quello degli Octopus è doom e non solo doom: oggi al riguardo si parla non solo più di dark, ma anche – ed una volta tanto la definizione sembra essere del tutto azzeccata e calzante – di occult rock. In effetti, in queste dieci canzoni – mai troppo lunghe, in vero – si respira un alone volutamente magico, esoterico, spirituale e misticheggiante. Le scelte compiute da Supernatural Alliance non guardano peraltro solo agli scenari del metal classico ed oscuro, lento e cadenzato, funereo e tombale, ma altresì (e con notevole frutto) alla tradizione di stampo epic della fantasy eroica (pezzi come The Sword and the Stone e Dragonhead). E’ la stessa grafica dell’album, bellissima e inquietante, a metterci del resto sull’avviso in merito. Veramente un ottimo lavoro, valorizzato nella fattispecie dalla voce femminile e dai tocchi prog delle tastiere e dei sintetizzatori.

Tracklist
1- Beyond the Center
2- Supernatural Alliance
3- Slave and Master
4- Strike
5- Child of Destiny
6- The Unknown
7- The Sword and the Stone
8- Fleetwood Mac
9- Black Dynamite
10- Dragonheart

Line-up
Masha Marjieh – Vocals
J. Frezzato – Guitars
Matt O’ Brien – Bass
Adam Cox – Keyboards / Synthesizers

OCTOPUS – Facebook

Vessel of Iniquity – Void of Infinite Horror

Un’opera notevole, alla quale però è necessario approcciarsi con la consapevolezza che questo viaggio “nell’orrore infoinito” non sarà affatto una passeggiata.

Ci sono diverse maniere per esprimere il disagio ed il malessere interiore che in misura diversa attanaglia ciascuno di noi.

A livello musicale quelli più espliciti e conosciuti sicuramente sono il funeral death doom ed il depressive black, l’uno volto ad esibire il lato poi luttuoso e dolente dell’umano sentire e l’altro invece quello intriso della più esplicita disperazione.
Questo progetto solista dell’inglese S.P. White si spinge ad esplorare altri mezzi espressivi, andando idealmente ad estremizzare quanto sopra per approdare ad un rumorismo che a primo acchito respinge, per poi fagocitare in maniera irrimediabile i coraggiosi che accetteranno di farsi prostrare da un dolore definibile più contundente che non ottundente.
Il musicista britannico è attivo anche negli altrettanto insidiosi The NULLL Collective, per cui non è certo un neofita rispetto a tali sonorità che infatti vengono rese con la giusta perizia ed il necessario grado di convinzione per trasformare in un’opera di un certo peso quello che per molti può sembrare solo un’accozzaglia sonora senza arte né parte.
L’accostamento ad un terrorista sonoro come Maurice De Jong (Gnaw Their Tongues) può sorgere spontaneo alla luce di quanto sopra, ma l’operato di White è in qualche modo più organico, mostrando in diversi passaggi barlumi di ascoltabilità che rendono ancor più efficace la proposta, al cui buon esito contribuisce anche una durata ragionevole (poco meno di venticinque minuti).
Chi è abituato a forme di funeral più estreme, una traccia come Void of Infinite Sorrow fornirà un’idea eloquente del modus operandi di White, con l’avvertenza che si tratta comunque dell’episodio maggiormente “accessibile” dell’intero pacchetto assieme alla conclusiva Once More into the Abyss, in cui una prima metà di matrice ambient viene letteralmente spazzata via da un vento atomico capace di ricondurre il tutto allo stato di caos primordiale.
Un’opera notevole, alla quale però è necessario approcciarsi con la consapevolezza che questo viaggio “nell’orrore infoinito” non sarà affatto una passeggiata.

Tracklist:
Side A
1. Invocation of the Heart Girt with a Serpent
2. Babalon
3. Void of Infinite Sorrow
Side B
4. Mother of Abomination
5. Once More into the Abyss

Line-up:
S.P. White – Everything

Ossuarium – Living Tomb

Per gli Ossuarium, Living Tomb rappresenta un primo passo su lunga distanza di grande efficacia e che evidenzia come un’espressione stilistica apparentemente dai pochi margini di manovra possa essere, sempre e comunque, resa in maniera convincete e soprattutto coinvolgente.

Arriva da Portland, Oregon, questa nuova realtà dedita ai un death metal dai consistenti rimandi doom.

Se tutto questo può risultare poco stuzzicante in virtù di una quasi certa adesione a consolidati schemi stilistici, va detto a beneficio di chi ci si voglia accostare che raramente al primo tentativo si riscontrano opere così ben focalizzate e di simile spessore. La band statunitense infatti maneggia questa insidiosa materia con grande perizia: il sound non assume mai ritmiche troppo veloci attestandosi su tempi cadenzati sui quali vengono spesso inseriti passaggi più rarefatti o efficaci parti di chitarra solista.
In Living Tomb l’immaginario putrido e catacombale non è fine a se stesso perché l’approccio degli Ossuarium è del tutto adeguato alla bisogna, con il valore aggiunto di una bontà esecutiva che non lascia dubbi, così come la produzione.
I nostri sanno coinvolgere pur con il loro sound per nulla ammiccante, grazie a spunti melodici che vengono inseriti nel contesto con grande fluidità e che. ovviamente. corrispondono per lo più ai momenti in cui l’anima doom viene messa in primo piano (emblematica l’ottima Corrosive Hallucinations), un aspetto questo che si manifesta maggiormente nella seconda metà del lavoro.
Per gli Ossuarium, Living Tomb rappresenta un primo passo su lunga distanza di grande efficacia e che evidenzia come un’espressione stilistica apparentemente dai pochi margini di manovra possa essere, sempre e comunque, resa in maniera convincete e soprattutto coinvolgente.

Tracklist:
1. Intro
2. Blaze Of Bodies
3. Vomiting Black Death
4. Corrosive Hallucinations
5. Writhing In Emptiness
6. End Of Life Dreams And Visions Pt. 1
7. Malicious Equivalence
8. End Of Life Dreams And Visions Pt. 2

Line-up:
Ryan Koger – Drums
Daniel Kelley – Vocals, Guitar
Jeff Roman – Bass
Nate McCleary – Guitars (lead)

https://www.facebook.com/ossuariumdeath

A Sad Bada / Infame / Goethya / Aura Hiemis – 4 Ways To Die

4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

L’etichetta cilena Australis Records sta facendo un gradissimo lavoro begli ultimi tempi, volto a portare alla luce il maggior numero possibile di band che affollano il sottobosco underground delle nazione sudamericana che possiede la scena più attiva in ambito metal estremo.

Il genere trattato in questo 4 Ways To Die è il doom, radicato con forza in un paese che ha dato i natali a realtà seminali quali Ppema Arcanus e Mar de Grises, ad altre affermate come i Procession o in grande ascesa come Mourning Sun e Lapsus Dei, con la proposta che vede raggruppate quattro band capaci di offrire il genere nelle sue diverse sfumature.
Si parte quindi con due brani degli A Sad Bada, con It’s Just My Blood,breve traccia inedita a base di un urticante e pesantissimo sludge, e You Must Know, singolo uscito nel 2017 e qui riproposto nei suoi dodici minuti all’interno dei quali diviene preponderante un’anima post metal sempre opportunamente sporcata da fangosi riff.
Gli Infame appaiono molto più grezzi e meno predisposti ad aperture pseudo melodiche, infatti Putrido Reflejo e Planicies de Locura vengono letteralmente ingerite e poi vomitate da questo duo di Antofagasta che offre il meglio nel secondo dei due brani, in virtù di un sound più avvolgente e rallentato.
Dei Goethya nulla si sa, salvo che il brano proposto è una incompromissoria tranvata di oltre un quarto d’ora il cui titolo (Bilis Negra Sofocante) lascia poco spazio all’immaginazione, anche se non mancano momenti di discontinuità rispetto ad un sound che oscilla tra death e doom ma che nella fase centrale della traccia regala incisivi e reiterati passaggi di chitarra solista.
I più noti del quartetto di band incluse in 4 Ways To Die sono comqune gli Aura Hiemis, alla luce di quindici anni di attività che hanno fruttato quattro full length e del fatto che il leader V. ha fatto parte per un certo periodo dei citati Mar De Grises; quello offerto in questo caso è un più classico ed organico death doom, decisamente meglio prodotto e in generale più curato rispetto ai brani ascoltati in precedenza
Visceral Laments Pt II è un traccia notevole per intensità, varietà ed interpretazione vocale, e lo stesso si può dire anche per Broken Roots; insomma, il livello si alza notevolmente forse anche perché le sfumature del genere si prestano maggiormente ad un sound più organico e ben focalizzato.
Detto ciò, 4 Ways To Die si rivela uno spaccato attendibile dello stato di salute di una scena che si conferma in grande fermento e ricca di band dal potenziale probabilmente ancora inespresso.

Tracklist:
1. A Sad Bada – It’s Just My Blood
2. A Sad Bada – You Must Know
3. Infame – Putrido reflejo
4. Infame – Planicies de locura
5. Goethya – Bilis negra sofocante
6. Aura Hiemis – Visceral Laments Pt II
7. Aura Hiemis – Broken Roots

Line-up:
A Sad Bada
Gastón Cariola – Guitars
Fernando Figueroa – Guitars, Vocals
Roberto Toledo – Bass
Alejandro Ossandon – Drums

Infame
D.A. – Guitars, Drums, Vocals
I.M. – Guitars, Vocals

Aura Hiemis
V. – Bass, Keyboards, Drum programming, Vocals, Guitars

A SAD BADA – Facebook
INFAME – Facebook
AURA HIEMIS – Facebook

Cloak Of Shadows – Where Do I Hide (Pregabalin Hex)

Thy Haunted Kingdom e Where Do I Hide sono due canzoni che vanno ascoltate come se fossero tracce rimaste fuori dalla scaletta di un qualsiasi album uscito in terra albionica all’inizio degli anni ottanta: tale riesumazione resta qualcosa di assolutamente piacevole, ma nulla più.

Where Do I Hide è la prima uscita targata Cloak Of Shadows, duo inglese che offre un doom dai tratti quanto mai vintage e che di certo non verrà ricordato per la propria spinta innovativa.

I due brani che si aggirano sui 6/7 minuti di durata saccheggiano abbondantemente tutti i nomi più noti del genere nella sua veste più tradizionale, quindi è abbastanza superfluo andare a scomodarli, basti solo sapere che il vocalist Craig come nome d’arte ha scelto Osbourne, e qui direi che il cerchio si chiude abbondantemente.
Il buon Dave Gilbert offre un contributo strumentale diretto ed essenziale su cui il cantante, che rispetto al suo modello ha una voce se possibile anche più nasale oltre che effettata, fa comunque degnamente il suo maledetto e sporco lavoro.
Thy Haunted Kingdom e Where Do I Hide sono due canzoni che vanno ascoltate come se fossero tracce rimaste fuori dalla scaletta di un qualsiasi album uscito in terra albionica all’inizio degli anni ottanta: tale riesumazione resta qualcosa di assolutamente piacevole, ma nulla più, ed è improbabile che un’eventuale prossima uscita dal minutaggio più corposo possa essere foriera di particolari scostamenti rispetto a questo ep.

Tracklist:
1. Thy Haunted Kingdom
2. Where Do I Hide (Pregabalin Hex)

Line-up:
Dave Gilbert – All instruments
Craig Osbourne – Vocals

 

Vanha – Melancholia

Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom

Questo secondo full length per il progetto solista dello svedese Jan Johansson, denominato Vanha, ci consegna una nuova splendida realtà musicale in grado di ammaliare gli amanti del death doom melodico.

Melancholia è un lavoro contenente spunti evocativi che si susseguono senza soluzione di continuità e pongono questo musicista quale vertice del genere nel suo paese, stante la fine dei When Nothing Remains e la perdurante mancanza di nuovi lavori da parte dei Doom Vs. di Johan Ericson.
Il nostro Jan maneggia la materia esattamente come si attende chi la ama, quindi nell’album altro non si troverà se non quanto programmaticamente promesso dal titolo. I sei brani medio lunghi si sviluppano esibendo costantemente un dolente sentire che trova, poi, puntualmente sfogo in magnifici spunti chitarristici e si fa davvero fatica a scegliere l’una o l’altra traccia come possibile emblema della bontà dell’opera.
Dovendolo fare, personalmente opto per le tracce incastonate al centro dell’album, Starless Sleep, dalle ritmiche ulteriormente rallentate e con le sei corde di Johansson che offrono linee strappalacrime e, soprattutto, Your Heart in My Hands, sette minuti di commozione provocata dall’alternarsi di un lieve tocco pianistico al consueto affastellarsi di melodie sempre evocative e mai stucchevoli.
Melancholia è un’opera matura ed impeccabile, da qualsiasi punto di vista la si voglia osservare: neppure la configurazione da one man band riesce a scalfire il valore di quello che è destinato a restare uno dei migliori lavori del 2019 in ambito melodic death doom

Tracklist:
1. The Road
2. Storm of Grief
3. Starless Sleep
4. Your Heart in My Hands
5. Fade Away
6. The Sorrowful

Line-up:
Jan Johansson – All instruments, Vocals

VANHA – Facebook

Officium Triste / Lapsus Dei – Broken Memories

In attesa dei prossimi e auspicabili full length da parte di queste due notevoli realtà del death doom melodico, questo split album è sicuramente un appuntamento da non mancare per chi ama, oltre al genere, anche questo particolare formato

Questo split album ci consegna degli ottimi brani ad opera di due realtà operanti in ambito melodic death doom attive fin dal secolo scorso, i cileni Lapsus Dei e gli olandesi Officium Triste.

E ormai inutile rimarcare quanto la scena cilena sia quella preponderante in ambito di doom in Sudamerica e la band guidata da Rodrigo Poblete è una delle più longeve in tale ambito, benché la sua produzione in circa vent’anni di attività sia limitata a tre full length, oltre a qualche uscita di minor minutaggio. Sicuramente il turbinio di musicisti che si sono avvicendati nel corso degli anni ad accompagnare il leader non ha favorito la stabilità e quindi una maggiore produttività, fatto sta che i tre brani che vengono presentati in questo split album ci mostrano una band ispirata e in grado di offrire il genere nelle sue migliori vesti. L’afflato melodico che pervade una traccia come Human rimanda ai migliori Swallow The Sun, anche se la maggiore anzianità di servizio dei Lapsus Dei allontana ogni sospetto di eccessiva derivatività, e lo stesso vale per l’ancor più romantica Sleepless. Più nervosa a tratti è The Feeling Remains, nonostante venga addolcita non poco dal ricorso alle clean vocals.
Gli Officium Triste non hanno certo bisogno di presentazioni, nonostante il loro ultimo lavoro Mors Viri risalga al 2013. In questo periodo il vocalist Pim Blankenstein non è certo rimasto fermo, collaborando a più riprese con i Clouds di Daniel Neagoe e probabilmente questo può averlo indotto ad esibire l’approccio vocale suadente e melodico di The Weight of the World, cover di un brano degli Editors uscita anche come singolo nel 2017 ed episodio decisamente evocativo, per quanto non così canonico se prendiamo come riferimento il genere proposto dalla band olandese. Con le due tracce successive, Crossroads of Souls e Pathway (of Broken Glass), registrate dal vivo (anche se non sembrerebbe) a Malta nel 2014, si ritorna infatti al feroce growl di Pim e ad un sound che porta ben impresso il marchio degli Officium Triste, come sempre capaci di conferire in tali frangenti drammaticità e malinconia al loro sound.
In attesa dei prossimi e auspicabili full length da parte di queste due notevoli realtà del death doom melodico, questo split album è sicuramente un appuntamento da non mancare per chi ama, oltre al genere, anche questo particolare formato

Tracklist:
1. Lapsus Dei – Human
2. Lapsus Dei – Faithless
3. Lapsus Dei – The Feeling Remains
4. Officium Triste – The Weight of the World
5. Officium Triste – On the Crossroads of Souls (Live)
6. Officium Triste – Pathway (of Broken Glass) (Live)

Line-Up:
Officium Triste
Martin Kwakernaak – Drums, Keyboards
Gerard de Jong – Guitars
Pim Blankenstein – Vocals
Niels Jordaan – Drums
William van Dijk – Guitars
Theo Plaisier – Bass

Lapsus Dei
Luis Pinto – Drums
Rodrigo Poblete – Guitars (lead), Vocals
Jose Agustin Bastias – Bass
Alejandro Giusti – Vocals (on The Feeling Remains), Guitars

Julio Leiva – vocals on Human and Faithless

LAPSUS DEI – Facebook

OFFICIUM TRISTE – Facebook

Swallow the Sun – When a Shadow Is Forced into the Light

Un’opera da ascoltare con il cuore, lasciandosi trasportare dalle note di canzoni malinconiche, colme di dolcezza e nostalgia: “love is stronger than death”.

Difficile approcciarsi e spiegare a parole un’opera cosi pregna di significati per l’autore, Juha Raivio, da sempre leader dei finlandesi Swallow the Sun, giunti con When a Shadow Is Forced into the Light al loro settimo full length, a quattro anni di distanza dal monumentale Songs from the North.

Gli ultimi tre anni sono stati molto difficili per Juha, colpito negli affetti più profondi, con la morte della compagna Aleah: per un artista di tale sensibilità è impossibile non cercare di elaborare questa tragedia attraverso la musica, da sempre capace di veicolare sentimenti profondi come vita e morte. Nel 2016 il testamento sonoro dei Trees of Eternity fu incantevole con il suo atmosferico doom e le sue melodie soavemente cantate da Aleah, mentre le laceranti tensioni nel 2017 di Hallatar, con il growl di Tomi Joutsen a incendiare l’animo, hanno rappresentato il tributo per Aleah e il grido di dolore di Juha. Dopo aver pubblicato a fine 2018 l’EP Lumina Aurea, atmosferico e rarefatto funeral/drone doom che, come afferma Raivio, rappresenta qualcosa (a black bleeding wound) che non avrebbe mai pensato di scrivere, il nuovo anno ci porta l’ultimo viaggio sonoro della band madre con il quale l’artista vuole dimostrare che l’amore è sempre più forte della morte. Il lavoro non rappresenta un’evoluzione compositiva nella storia della band, ma piuttosto un amalgama tra le sonorità presenti nei primi due dischi di Songs from the North, l’anima melodica di Gloom e la dolcezza acustica di Beauty, per un risultato che deve essere ascoltato con il cuore, tralasciando valutazioni cerebrali o ricerche evolutive che forse ora all’artista non interessano particolarmente. Otto brani meditativi, quasi intimisti, con melodie cristalline nell’incipit di ogni brano, che si increspano e si inaspriscono durante lo svolgimento; atmosfere estremamente malinconiche, ombrose, profondamente nostalgiche, impregnano ogni nota, mantenendo sempre un grande gusto e un perfetto equilibrio, laddove clean vocals tenere ed espressive sono il veicolo ideale per esprimere i malinconici testi mantenendo il growl sullo sfondo. La title track ha una toccante maestosità e il violino lacera l’anima, Kotamaki dal canto suo canta con toni caldi e appassionati prima di esplodere in un growl violento e doloroso; la forte presenza di archi dona calore atmosferico, portandoci in un mondo desolato e dolente. When a Shadow Is Forced into the Light è un’ opera molto sentita ed emotivamente profonda: l’amore muove le corde dell’artista e prestando ad ogni passaggio la giusta attenzione, senza fretta, si è inebriati di sensazioni estremamente nostalgiche e malinconiche. E’ necessario infatti ascoltare l’album nella sua interezza, trovando il giusto tempo per lasciarsi trascinare in un viaggio che nessuno vorrebbe mai intraprendere, ma che ci intrappola in un abisso di dolore. Difficile dare una valutazione con un semplice ed arido voto ad un’opera cosi intensa, e neppure sarà importante ricordarla a fine anno tra i migliori dischi: è significativo, invece, viverla come un grande atto di amore verso la compagna di un’artista che nel brano finale ci ricorda che “it’s too late to dream again of tomorrow without the dark that will remain within me“.

Tracklist
1. When a Shadow Is Forced into the Light
2. The Crimson Crown
3. Firelights
4. Upon the Water
5. Stone Wings
6. Clouds on Your Side
7. Here on the Black Earth
8. Never Left

Line-up
Juha Raivio – Guitars, Keyboards, Songwriting, Lyrics
Matti Honkonen- Bass
Mikko Kotamäki – Vocals, Songwriting, Lyrics (track 6)
Juuso Raatikainen – Drums
Juho Räihä – Guitars
Jaani Peuhu – Keyboards, Vocals (backing)

SWALLOW THE SUN – Facebook

Cloud Taste Satanic – In Search Of Heavy

Ogni riff è rilevante e va a comporre insieme agli altri elementi un quadro pesante e pensante: le composizioni ad ampio respiro sono da ascoltare e riascoltare, dato che contengono tantissime cose notevoli e che si scoprono mano a mano che si procede nell’ascolto.

Un lento incedere, distorte maledizioni che provengono da eoni lontani, pensieri che si palesano nel fumo pesante e legnoso di droghe che bruciano su carni umane …benvenuti in un disco dei newyorchesi Cloud Taste Satanic.

L’opera completa di questo fondamentale gruppo di musica pesante per la prima volta insieme in un cofanetto di quattro cd intitolato In Search Of Heavy è uscito a dicembre in edizione super limitata di cinquanta copie, e contiene tutti loro quattro bellissimi dischi To Sleep Beyond The Earth, Your Doom Has Come, Dawn of The Satanic Age e The Glitter of Infinite Hell. Tutto ciò per preparare il terreno alle loro due nuove uscite del 2019, la prima sarà fuori la notte di Valpurga e la seconda ad Halloween, per un anno che si preannuncia molto pesante in casa Cloud Taste Satanic. Per chi non li avesse mai ascoltati si può dire che essi suonano come dei Karma To Burn più acidi e metallosi, più psichedelici ma al contempo più pesanti, come una valanga di neve che si muove sinuosamente ma che poi a terra rompe ogni cosa. Il suono è molto piacevole e ha la forma di lunghissime jam, quasi tutte sopra il quarto d’ora, nelle quali i riff montano come hashish sotto la fiamma, e il groove è continuo, una rotazione che non si ferma mai, un continuo andare avanti, bianche spirali che salgono in cielo. Nati nel 2013 a Brooklyn questi signori disco dopo disco stanno portando la commistione doom stoner sludge ad un altro livello, alzando e di molto l’asticella. La loro musica ed il loro immaginario sono descritti molto bene dai quadri di Hieronymus Bosch che spesso compaiono in loro presenza, o anche le incisioni dantesche di Gustavo Doré, perché la loro musica è una dolcissima dannazione. Pochissimi gruppi possiedono un groove equivalente a questi americani, e ancora meno un talento simile nel riuscire ad esprimere miliardi di cose con una bellissima musica strumentale. Che non è noiosa, ma è molto difficile da fare in una maniera credibile e strutturata. Ogni riff è rilevante e va a comporre insieme agli altri elementi un quadro pesante e pensante: le composizioni ad ampio respiro sono da ascoltare e riascoltare, dato che contengono tantissime cose notevoli e che si scoprono mano a mano che si procede nell’ascolto. The Glitter Of Infinite Hell del 2017 è forse la loro opera più compiuta, ma bisogna dire che tutta la discografia contenuta in questa uscita è degna di nota, mostrando molto bene la loro crescita. Un’uscita eccezionale per un gruppo assolutamente fuori dal comune.

Tracklist
1.To Sleep Beyond The Earth (Parts I & II)
2.To Sleep Beyond The Earth (Parts III & IV)

1.Ten Kings
2.One Third of The Sun
3.Beast From The Sea
4.Out of The Abyss
5.Dark Army
6.Sudden…Fallen

1.Enthroned
2.We Die We Live
3.Retribution
4.The Brocken
5.Just Another Animal
6.Demon Among The Stars

1.Greed
2.Treachery
3.Violence
4.Wrath

Line-up
Steve Scavuzzo – Guitar
Sean Bay – Bass
Greg Acampora – Drums
Brian Bauhs – Guitar

CLOUDS TASTE SATANIC – Facebook

Dictator – Dysangelist

Dysangelist, album uscito nel 2008 e riedito oggi dalla Aestethic Death, è una dimostrazione di di musica minimale e a tratti inaccessibile nel suo intento di scarificare lentamente la coscienza dell’ascoltatore.

Ed eccoci arrivare anche dalla soleggiata isola di Cipro un esempio di cupo metal estremo degno di una provenienza da lande ben piu desolate e meno vivibili.

Del resto abbiamo ormai imparato che la necessità di esimere un certo disgusto esistenziale è indipendente dal punto del pianeta in cui il fato ha deciso di farci nascere, anche se non c’è dubbio che almeno statisticamente chi vive in luoghi freddi è in qualche modo più portato a sviluppare una certa indole depressiva o misantropica (il fatto che sia il black che il funeral doom abbiano avuto la loro genesi nell’estremo nord europeo qualcosa vorrà pur dire).
Il nostro Dictator, nonostante non viva per gran parte dell’anno tra neve e ghiaccio e neppure sia costretto a provare l’alienazione chi risiede nelle grandi metropoli, ci investe con un’ora e un quarto di musica di difficile assimilazione che, se ha il funeral doom quale base di appoggio, conserva molto del depressive black a livello di approccio: questo letale mix va a formare Dysangelist, album uscito nel 2008 e riedito oggi dalla Aestethic Death, una dimostrazione di di musica minimale e a tratti inaccessibile nel suo intento di scarificare lentamente la coscienza dell’ascoltatore.
Dissonanze urla, cori gregoriani si susseguono all’interno di una ritmica sempre uguale ed incessante, andando a creare un quadro di inascoltabilità per gran parte di chi si dovesse incautamente avvicinare all’opera senza essere in possesso dei necessari anticorpi; chi, invece, è aduso alla frequentazione di queste desolate lande psichiche, troverà in questa opportuna riedizione di quello che è rimasto l’unico full length marchiato Dictator il fascino irresistibile che può rivestire una così cruda e devastante rappresentazione di disagio esistenziale.

Tracklist:
1. Dysangelist
2. Sanctus
3. Monolithos
4. Phantom Cenotaphium

Line-up:
Dictator – Everything

Onset – Unstructured Dissemination

Unstructured Dissemination è una prova davvero convincente e la sensazione è quella che gli Onset siano tranquillamente in grado di reggere un lavoro su più lunga distanza, nonostante la loro natura di progetto esclusivamente strumentale.

Gli Onset sono un duo proveniente da Singapore autore di un doom metal strumentale di buonissima fattura.

L’estrazione esotica della band non deve trarre in inganno perché qui abbiano a che fare con musicisti esperti come Shamtos e Calvin, con quest’ultimo che è anche il proprietario della notevole etichetta Pulverised Records.
A chiudere questo cerchio di matrice asiatica, va detto che questo ep d’esordio degli Onset esce per Weird Truth, label a sua volta gestita da una figura storica del doom giapponese come Makoto Fujishima.
I due lunghi brani offerti dal duo si snodano lungo coordinate oscillanti tra il funeral ed il post metal, un qualcosa che a tratti può anche rimandare ai primi Monolithe, scremato però di buona parte della loro aura cosmica a favore di un maggiore impatto melodico.
La chitarra di Calvin tesse sovente buone linee melodiche e bisogna dire che quando si arriva alla fine del lavoro, dopo circa venticinque minuti, il fatto di non aver mai ascoltato l’intervento di una voce è una constatazione del tutto marginale, visto che il sound si regge ampiamente da solo anche grazie ad una lunghezza complessiva non eccessiva.
Le due tracce, ovviamente, seguono coordinate comuni anche se Permeation: The Ordeal ha un incedere più canonicamente funeral rimarcato da dolenti linee di chitarra solista, mette Pestis: The Suppressing & Recurrence mostra caratteristiche più robuste ed ossessive.
Il giudizio finale rappresenta la media del valore di queste due tracce, con la prima davvero splendida e coinvolgente in ogni suo momento e la seconda decisamente buona ma, in qualche modo, più ordinaria e comunque meno ricca delle brillanti intuizioni e dell’impatto emotivo esibito in Permeation.
Unstructured Dissemination è una prova davvero convincente e la sensazione è quella che gli Onset siano tranquillamente in grado di reggere un lavoro su più lunga distanza, nonostante la loro natura di progetto esclusivamente strumentale.

Tracklist:
1.Permeation: The Ordeal
2.Pestis: The Suppressing & Recurrence

Line-up:
Shamtos – Drums / Bass
Calvin – Guitars

ONSET – Facebook

Majestic Downfall – Waters Of Fate

Waters Of Fate è un’opera densa, rocciosa e al contempo piuttosto ricca di aperture melodiche che si alternano senza soluzione di continuità a robusti riff e al growl di Jacobo che, talvolta, assume sembianze più disperate e strazianti.

Giusto dieci anni fa l’album Temple Of Guilt mise in luce il nome di Jacobo Córdova, al passo d’esordio su lunga distanza con il suo progetto Majestic Downfall.

In questo lasso di tempo il musicista messicano ha consolidato la propria fama all’interno della scena doom d’oltreoceano e oggi giunge, con Waters Of Fate, al proprio quinto full length, un traguardo che normalmente viene raggiunto da chi ha realmente il talento e la continuità necessaria per mantenere viva la fiamma della passione musicale.
Il nuovo album non delude le giuste aspettative di chi ha imparato a conoscere questo interessante progetto nel corso degli anni, e l’opener Veins è il miglior viatico possibile in quanto ci mostra subito il volto più efficace dei Majestic Downfall, quello capace di unire con grande disinvoltura passaggi di grande robustezza ad ampie aperture melodiche, mantenendo il tutto nell’alveo dei death doom melodico più tradizionale.
Nonostante una traccia come questa offra diversi e stimolanti cambi di scenario nel corso dei propri tredici minuti, ci sarà sempre qualcuno che non perderà l’occasione di ricordarci come in tali occasioni il tutto appaia già sentito: un parere lecito e spesso fondato, ma al riguardo il mio consiglio è di farsi un’idea propria, perché chi considera il doom estremo alla stregua di altri generi continuando a battere su questo tasto (a meno che, ovviamente, non ci si trovi di fronte ad un vero e proprio plagio) significa che non ne ha colto né l’essenza né la sua vera natura.
Waters Of Fate è in realtà un’opera densa, rocciosa e al contempo piuttosto ricca di aperture melodiche che si alternano senza soluzione di continuità a robusti riff e al growl di Jacobo che, talvolta, assume sembianze più disperate e strazianti: i quattro lunghi brani portanti sono esemplari per quanto riguarda l’interpretazione ottimale del genere e, come sempre, per poterne assimilare al meglio i contenuti sono necessari diversi ascolti; d’altra parte qui il dolore non viene esibito in maniera esplicita tramite passaggi dall’irresistibile potenziale evocativo, bensì va ricercato all’interno delle pieghe di un sound che, forse mai come in quest’occasione, trae linfa dai maestri Evoken, rielaborandone la lezione in maniera meno ottundente ed asfissiante e dando maggiore spazio a soluzioni acustiche e soliste, sia di chitarra che di basso.
Forse nei brani contenuti nello split con i The Slow Death del 21014 l’impatto emozionale era apparso ai massimi livelli, ma quest’ultimo lavoro esibisce una struttura solida e priva di cedimenti, frutto evidente di un lavoro compositivo ed esecutivo di grande maturità.

Tracklist:
1. Veins
2. Waters of Fate
3. Contagious Symmetry
4. Spore
5. Collapse Pitch Black

Line-up:
Jacobo Córdova – Vocals, Guitars, Bass, Keyboards, Drums
Alfonso Sánchez – Drums

MAJESTIC DOWNFALL – Facebook

A Vintage Death – Acrid Death Fragrance

Trattandosi di un demo, ovviamente, non siamo in presenza di suoni ottimali, ma tale aspetto passa in secondo piano rispetto a questa ventina di minuti abbondanti ricchi di spunti pregevoli che necessitano appunto solo di una rifinitura a livello formale per essere al 100% competitivi.

Acrid Death Fragrance è il demo che porta a conoscenza degli appassionati di metal estremo il nome A Vintage Death, one man band creata dal musicista abruzzese Carmine D’Annibale.

Carmine è stato in passato batterista in diversi gruppi, tra i quali i Rising Moon sono stati i più rilevanti, ma qui si occupa dell’intera strumentazione svincolandosi dal death melodico di quella band per approdare ad un’intrigante forma di metal che ingloba elementi black, death e doom.
Trattandosi di un demo, ovviamente, non siamo in presenza di suoni ottimali, ma tale aspetto passa in secondo piano rispetto a questa ventina di minuti abbondanti ricchi di spunti pregevoli che necessitano appunto solo di una rifinitura a livello formale per essere al 100% competitivi.
Se un brano come When the Spirit Smell His Corpse, posto in apertura del lavoro, si dimostra già abbastanza esaustivo riguardo la bontà della proposta, con il suo incedere dolente e allo stesso tempo melodico, in Gloomy Tombs è invece una componente black metal non distante da quella dei Forgotten Tomb a prendere il sopravvento, mentre Ominous Dream possiede diversi cambi di ritmo e di scenario passando da repentine sfuriate a momenti più evocativi; la title track esibisce un’indole più sognante e melodica, con la chitarra a tessere linee dal buon impatto emotivo, e infine Lume chiude il demo con sonorità piuttosto rarefatte nella sua prima parte ed un’indole complessivamente più atmosferica e sperimentale.
Fatte le debite tarature, il passo d’esordio targato A Vintage Death è senz’altro positivo, in quanto il sound esibito appare decisamente affascinante ancorché piacevolmente naif e genuino: mi piace pensare che Carmine abbia tentato di far proprio l’approccio diretto e privo di orpelli del suo illustre conterraneo Mario Di Donato, rivestendolo di una struttura decisamente più robusta e metallica.
In prospettiva di una possibile uscita di più lunga durata da immettere con tutti i crismi sul mercato discografico, ritengo che l’aspetto sul quale il musicista di Ortona debba lavorare maggiormente sia il comparto vocale, in quanto sia il growl sia le clean vocals sono decisamente perfettibili, all’interno di una struttura compositiva che di suo appare già abbastanza rilevante.

Tracklist:
1. When the Spirit Smell His Corpse
2. Gloomy Tombs
3. Ominous Dream
4. Acrid Death Fragrance
5. Lume

Line-up:
Carmine – Everything

A VINTAGE DEATH – Facebook

Sinoath – Anamnesis

Quello del quartetto catanese è un dark metal personale e ben suonato che prende le mosse, come è ovvio che sia, da un retaggio sabbathiano per arricchirlo con soluzioni ingegnose ed interessanti.

Se la nosografia è nelle scienze naturali ed anche in medicina catalogazione dei dati racconti, con la anamnesi si giunge ad interpretarli. Un passo ulteriore.

Ed il passo compiuto dai siciliani Sinoath è, realmente, ottimo. Quello del quartetto catanese, attivo fin dai primi anni novanta, è un dark metal personale e ben suonato, Si parte, come è ovvio che sia, da un retaggio sabbathiano (diversi frangenti musicali del disco sono omaggi, quasi, alla creatura di Tony Iommi) per arricchirlo con soluzioni ingegnose ed interessanti. La title-track ci introduce a Saturnalia, pezzo di indubbio spessore che si diffonde in ambientazioni oscure e sonorità spettrali. Piace nella fattispecie l’impiego dell’organo. Le atmosfere sono quasi magiche, gli arpeggi medievaleggianti. Il tocco della band è spesso ipnotico e conturbante, tetro e misterioso, naturalmente con la giusta dose di dinamismo. Join Us appare maggiormente legata ai canoni dell’hard rock più classico, sia pure in un contesto che resta saldamente ancorato al doom tradizionale. Dopo la funerea Brainstorming, è la volta dello strumentale Hyperuranius e degli oltre dieci minuti di The Absolute Nowhere, varia ed a tratti piacevolmente acustica. Chiude la soave elegia di Arcadia, degno suggello dell’album.

Track list
1 Anamnesis
2 Saturnalia
3 A Journey Unknown
4 Join Us
5 Brainstorming
6 Hyperuranius
7 The Absolute Nowhere
8 Arcadia

Line up
Fabio Lipera – Guitars
Alessio Zappalà – Bass
Salvatore Fichera – Drums
Francesco Cucinotta – Guitars / Vocals

SINOATH – Facebook

Doomcult – Life Must End

I Doomcult non finiranno sui rari libri dedicati al doom (e in quei pochi non vengono citate neppure band che meriterebbero interi capitoli …) ma sono un’alternativa tutto sommato stimolante e a suo modo abbastanza originale ai soliti nomi.

Eccoci alle prese con un nuovo lavoro dei Doomcult, progetto solista dell’olandese J.G. Arts.

Life Must End contiene anche i tre brani inseriti nell ep Ashes (del quale abbiamo parlato alcuni mesi fa), il che ovviamente è un indicatore della continuità stilistica dell’operato di questo musicista.
Anche in questo caso, quindi, troviamo pertanto un doom essenziale ma non privo di spunti interessanti, ai quali viene meno il supporto di una voce più incisiva o comunque più adatta al genere rispetto al ringhio messo in campo da Arts.
Va detto che, comunque, è sicuramente preferibile questa opzione piuttosto che una voce pulita incerta e priva di nerbo perché, quanto meno, questa scelta pur non essendo ottimale garantisce un impatto adeguato alla bisogna.
In generale Life Must End è un opera che conferma in toto le impressioni fornite con i tre brani di Ashes, dei quali Black Fire si riconferma il picco con i suoi toni più evocativi: Arts propone la musica che più ama senza troppi fronzoli né particolari contraffazioni e questo già non e poco. Poi, evidentemente, ciò non può bastare per rendere quello dei Doomcult un nome che verrà ricordato tra qualche decina d’anni ma è abbastanza per ottenere l’apprezzamento degli appassionati del genere.
In generale i brani hanno il pregio di possedere il giusto groove per mantenere un buon livello di attrattività, sia quando i ritmi divengono un po’ più incalzanti, sia quando rallentano in ossequio alo spirito del doom più autentico (notevole la conclusiva Deathwish , ideale manifesto del progetto di Arts a giudicare anche dall’autocitazione).
Insomma, i Doomcult non finiranno sui rari libri dedicati al doom (e in quei pochi non vengono citate neppure band che meriterebbero interi capitoli …) ma sono un’alternativa tutto sommato stimolante e a suo modo abbastanza originale ai soliti nomi, sia per gli appassionati del genere nella sua veste più classica sia per quelli più orientati al suo versante estremo.

Tracklist:
1. Suffering
2. Sulphur
3. Black Fire
4. King of Bones
5. Ashes
6. Inferno
7. Deathwish

Line-up:
J.G. Arts – Everything

DOOMCULT – Facebook

Dawn Of Winter – Pray For Doom

Pray For Doom è un buon lavoro, il sound dei Dawn of Winter segue le coordinate delle leggende del genere come Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram, con un Mutz evocativo come non mai, ed un lotto di brani che si trascinano come mastodontici moloch, lenti ed inesorabili nella loro pesante marcia.

I Dawn Of Winter rappresentano il doom metal nella sua forma più pura e una lunga litania epico metallica divisa in otto capitoli è dunque quello che troverete tra i solchi di questo nuovo lavoro, il terzo a scadenza decennale dal primo album intitolato In The Valley Of Tears (1998) ed il suo successore, The Peaceful Dead (2008).

Tre opere sulla lunga distanza intervallati da una manciata di lavori minori è quindi quanto offerto in un ventennio dalla band tedesca che tra le sue fila vede Gerrit P. Mutz, singer dei power metallers Sacred Steel.
Pray For Doom è un buon lavoro, il sound dei Dawn of Winter segue le coordinate delle leggende del genere come Candlemass, Solitude Aeturnus e Pentagram, con un Mutz evocativo come non mai, ed un lotto di brani che si trascinano come mastodontici moloch, lenti ed inesorabili nella loro pesante marcia.
E’ sostanzialmente un album per appassionati questo Pray For Doom, avaro di soprese nel corso del suo viaggio nel mondo del doom metal classico, partendo da A Dream Within A Dream per arrivare tramite lunghi passaggi dal lento incedere alla title track, sicuramente il brano più rappresentativo di tutto l’album, valorizzato da armonie semi acustiche e da una eccellente prova del vocalist, al massimo dell’espressività.
Il resto si muove lento nei meandri più classici del genere, leggermente prolisso in alcuni passaggi, ma anche capace di far tremare le pareti con l’altro picco, la più movimentata e rocciosa The Orchestra Bizarre.
Ci congediamo dai Dawn Of Winter consigliando l’album agli amanti delle sonorità classiche e dei gruppi citati: il gruppo tedesco rimane comunque nel genere un’alternativa valida ai soliti nomi che del doom classico hanno fatto la storia.

Tracklist
1. A Dream Within A Dream
2. The Thirteenth Of November
3. Woodstock Child
4. The Sweet Taste Of Ruin
5. Pray For Doom
6. The Orchestra Bizarre
7. Paralysed By Sleep
8. Father Winter

Line-up
Jorg M. Knittel – Guitars
Dennis Schediwy – Drums
Joachim Schmalzried – Bass
Gerrit P. Mutz – Vocals

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The Black – Reliquarium / Infernus, Paradisus et Purgatorium

I due dischi, raccolti insieme da Black Widow, che rilanciarono il doom nel nostro paese. Un pezzo di storia.

Mario Di Donato. Un uomo ed un musicista che sono storia dell’heavy, del doom metal e del dark sound (non solo nostrani).

Con i Requiem e poi attraverso la sua lunga e coerentemente integerrima carriera da solista, come The Black, Di Donato ha scritto pagine importantissime, imprescindibili da più punti di vista. Ci riferiamo qui, infatti, non solo alla sua musica, ma anche ai suoi testi e alla sua attività pittorica. La Black Widow di Genova ristampa, ora, i primi due lavori in assoluto dell’artista di Pescara: Reliquarium (un mini-LP pubblicato nel 1989) e l’esordio-trilogia Infernus, Paradisus et Purgatorium (uscito nel 1990). L’alba di un mito, veramente. Questi due lavori riportavano in auge il doom primevo e incorruttibile, lento ed ossianico, cadenzato e gotico, nero e sepolcrale, di scuola Black Sabbath, attualizzandone il messaggio con tocchi prog e liriche di matrice esoterica, evidenti nel richiamo alla teologia scolastica ed al cristianesimo dantesco. Il ricorso al latino in Reliquarium, già di per sé, la dice lunga al riguardo. L’identica scelta si trova confermata dal disco successivo, al suo interno suddiviso in tre capitoli che ne fanno, a tutti gli effetti, un vero e proprio libro in musica, intenso ed evocativo. I primi passi di una leggenda. Ed il verbo dark-doom secondo The Black. Due pagine di storia, rituale e liturgica.

Tracklist
1 Post Fata Resurgo
2 Anguis
3 Mea Culpa
4 Mors
5 Ab Aeterno
6 MTMM
7 VII Orbis
8 IX Orbis
9 VIII Orbis
10 I Orbis
11 II Orbis
12 IV Orbis
13 IV Caelum
14 VIII Caelum

Line up
Mario Di Donato – Vocals / Guitars / Harmonium
Belfino De Leonardis – Bass
Giuseppe Miccoli – Drums
Gianni Bernardi – Keyboards / Organ

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