Cruthu – The Angle Of Eternity

Un lavoro che non supera i confini del mood nostalgico di moda in questi tempi, quindi ad esclusiva degli amanti dell’hard rock tradizionale pervaso da atmosfere doom metal di scuola seventies.

Nella rivalutazione delle sonorità old school, il doom metal entra diritto nella schiera di quei generi a cui il trend ha sicuramente reso giustizia, soprattutto se lo sguardo cade, inevitabilmente sulle sonorità classiche.

Gli anni settanta, decennio d’oro e natale anagrafico per molti generi che vanno a comporre l’universo metal/rock, possono vantare tra i suoi nipoti gli statunitensi Cruthu, quartetto del Michigan attivo dal 2014 e al debutto con The Angle Of Eternity, album che in sé porta attitudine doom metal ed heavy per una proposta che più vintage di così non si può.
Licenziato dalla The Church Within Records, l’album risulta un primo esempio del credo musicale del gruppo: doom metal infarcito di ispirazioni settantiane, vintage e fuori dal tempo quel tanto che basta per accontentare principalmente i reduci dalle battaglie hard rock psichedeliche avvenute quarant’anni fa, tra citazioni occulte e rock di non facile presa ed assolutamente underground.
Si ritorna alle messe sabbatiche di inizio del decennio storico per il rock, anni in cui l’audience si divideva tra le sonorità progressive e quelle più orientate al credo hard & heavy di Black Sabbath ed Uriah Heep, maestri del combo in brani come Seance, per poi sconfinare negli anni ottanta e nella NWOBHM con la conclusiva title track.
Un lavoro che non supera i confini del mood nostalgico di moda in questi tempi, quindi ad esclusiva degli amanti dell’hard rock tradizionale pervaso da atmosfere doom metal di scuola seventies.

Tracklist
1. Bog Of Kildare
2. Lady In The Lake
3. Seance
4. From The Sea
5. Separated From The Herd
6. The Angle Of Eternity

Line-up
Ryan Evans-Vocals
Dan McCormick-Guitar
Erik Hemingsen-Bass
Matt Fry-Drums

CRUTHU – Facebook

Tra Mozart e Lovecraft: le molte vite artistiche dei Mekong Delta

Questo straordinario gruppo, soprattutto ad inizio carriera, ha sempre saputo creare, attorno a sé, un alone di mistero, specie circa le sue origini e la sua prima formazione.

Il nome, Mekong Delta, è da riferirsi alla foce di un fiume del Vietnam, mentre l’intero progetto venne organizzato dalla mente, a dir poco geniale, di Ralph Hubert, ingegnere del suono di Living Death, Warlock e Steeler, nonché proprietario e factotum dell’etichetta discografica Aaarrg dal 1985.
I primi demo tapes dei Mekong Delta furono incisi da una line-up composta dal cantante Wolfgang Borgmann, dalle due asce dei Living Death (Reiner Kelch e Frank Fricke), da Hubert al basso (sotto lo pseudonimo di Bjorn Eklund) e da Jorg Michael, in quel momento già batterista di Avenger, Rage e Paganini (e in seguito con Tom Angelripper, Axel Rudi Pell, Headhunter, Schwarzarbeit, Running Wild, Grave Digger, Stratovarius e Saxon, tra i molti altri). Con questa formazione, i Mekong Delta realizzarono nel 1987 il loro primo album omonimo, contenente un thrash metal durissimo e vicino alla scuola newyorkese degli Anthrax.

Nel 1988 apparve il capolavoro del gruppo, il concept album The Music of Erich Zann, prodotto dal medesimo Hubert, bissato dal mini Toccata, sul finire dell’anno. Con questi due lavori, in pratica, i Mekong Delta si posero come gli ELP del thrash. I testi e la copertina si ispirano alla fantascienza horror dell’omonimo racconto lovecraftiano ed offrono qualcosa di diverso ai tanti thrashers europei di fine anni Ottanta. In ambito techno-thrash, del resto, i precedenti erano pochissimi, solo Release From Agony dei connazionali Destruction e Killing Technology dei Voivod, oltre ai Watchtower. In anticipo pertanto su Coroner, Megadeth, Annihilator, Deathrow e Despair, i Mekong Delta mettono in mostra un approccio di tipo orchestrale, che necessita di ascolti ripetuti, per essere capito. Tempi dispari, riff imprevedibili, controtempi e cambi improvvisi di tempo abbondano. L’energia dei MD è inesauribile: si ascoltino Age of Agony, Confession of Madness, Prophecy e Memories of Tomorrow, oppure il thrash sinfonico dello strumentale Interludium (una versione riarrangiata della musica che Bernard Hermann scrisse per Psycho di Hitchcock, tratto dal noto romanzo di Robert Bloch, amico e discepolo di Lovecraft). Per dirla altrimenti, The Music of Erich Zann dimostra quanto la band di Ralph Hubert fosse “avanti” nella concezione musicale, sperimentale come negli Eighties sono stati in fondo pochi (vengono giusto in mente, per stare in territori metal, Celtic Frost e Prong).
La band tedesca si conferma con il terzo disco, The Principle of Doubt (1989), apparso per la Major Records, label sorta dalla fusione tra la Aaarrg e la Atom H degli Accuser. Intanto, Mark Kaye, alla chitarra, ha preso il posto di Kelch. Per il lavoro di scrittura, registrazione e produzione del quarto lavoro, Dances of Death (1990, di nuovo per la sola Aaarg) i Mekong Delta si chiudono in studio e per un anno intero: il segno del modo di lavorare di Ralph Hubert, certosino e maniacale, attento ai dettagli ed alle sfumature anche più minute. Il Robert Fripp del metal, verrebbe da dire, anche se il techno-thrash mutante e progressivo dei Mekong Delta è maggiormente debitore verso il fantasioso gusto emersoniano del virtuosismo, mai fine a se stesso e spesso giostrato sulle scale minori.

Nel 1991, mentre il thrash canonico si avvia ad entrare in crisi, i Mekong Delta celebrano, alla loro maniera, i vent’anni di Pictures at an Exhibition di ELP – lo storico e personale omaggio, in chiave pomp rock, reso dal celeberrimo trio inglese a Mussorgsky, nel 1971 – con il concerto di Live at an Exhibition. E’ la spia del fatto che ormai la creatura partorita dalla mente di Ralph Hubert intende da par suo guardare oltre, non solo i confini del thrash tradizionale, ma altresì quelli dello stesso metal, per abbeverarsi, sorretta del resto da doti tecniche e di scrittura impressionanti, alla scuola del prog anglo-britannico e della stessa musica classica, che lo aveva ispirato, in moltissimi casi. Escono così dischi coraggiosi e sperimentali, innovativi ed avventurosi, originali e creativi, come Kaleidoscope (1992) e soprattutto Vision Fugitives (1994), forse l’apice del gruppo: un post-thrash ipertecnico con archi, di ispirazione settecentesca e segnatamente mozartiana. Un lavoro realmente incredibile, a cui peraltro manca, oramai, un pubblico in grado di apprezzare e davvero le complesse quanto intricate stratificazioni armonico-melodiche dei Mekong Delta e le loro ricerche ritmiche sulle strutture degli accordi. Forse, il gruppo si è paradossalmente spinto troppo oltre e inevitabile arriva un temporaneo scioglimento.
Nella seconda metà degli anni Duemila, Hubert ha infine rimesso in piedi i MD ed ancora una volta ne sono venuti quattro dischi strepitosi: Lurking Fear (2007), Wanderer on the Edge of Time (2010), Intersections (2012) e In a Mirror Darkly (2014), forse meno orientati al techno-thrash degli esordi e più in linea con un comunque strabiliante ed eclettico metal prog neo-classico. Musica che rimane aristocratica e d’élite, esoterica (nel senso etimologico del termine), e quindi per pochi iniziati e non per tutti: di certo superbi esperimenti di metal sinfonico, da riscoprire.

Ministry – AmeriKKKant

Al ha prodotto un disco più che buono, e come sempre ha saputo incanalare la sua rabbia in un suono acido e debordante, che si insinua sotto pelle come un malware in un compute, e come un trojan si sedimenta piano piano attraverso il suo svolgimento, per poi arrivare alla conquista dell’ospitante.

Torna uno dei nostri preferiti assassini seriali della musica moderna, Al Jourgensen e la sua creatura preferita, i Ministry.

La situazione americana è molto peggiorata negli ultimi anni, si punta il dito contro Donald Trump che è davvero uno schifo, ma i Ministry è dal lontano 1981 che sezionano a fondo il sogno americano, facendoci vedere le sue puzzolenti pustole, che dallo schermo tv sembrano seni turgidi e rigogliosi. Al è un personaggio fondamentale per la musica alternativa americana e mondiale. Fin dagli inizi con altri soci nella sua Chicago, Al ha portato avanti una sperimentazione che fondeva diversi stili e che si può definire industrial ma in realtà c’è molto di più, come si può ascoltare in questo disco. AmeriKKKant è una cronaca alla sua maniera, di ciò che sta accadendo in America e nel mondo intero, questo impetuoso vento di estrema destra che altro non è che una sublimazione della paura e del trionfo del nuovo ordine mondiale. Questa situazione i Ministry l’avevano già prevista in molti dei loro lavori come in Killing Joke, e la ribellione è il motore primo del loro lavoro, l’essenza stessa del gruppo. Musicalmente AmeriKKKant è un disco inteso come narrazione, dove un filo logico lega le varie situazioni e i vari suoni. Il tutto si srotola come fotogrammi di un film che è una nemmeno tanto lenta discesa agli inferi, e l’inizio ha una data:  11/09/2001. Da quel giorno la terra del coraggioso è andata disgregandosi ancora di più e questo disco tira le somme del momento, ci fa sentire quanto è oscura questa notte. Il classico suono dei Ministry è la colonna portante del disco, che è composto da canzoni di lunga durata e da intermezzi narrativi molto interessanti. Le canzoni sono molto lunghe e sono quasi storie indipendenti che vivono di durezza e distorsioni. Non ci si discosta molto dalla cifra generale dei lavori dei Ministry, forse in questa occasione i suoni si contaminano di più e vi è una maggiore presenza di scratch oltre ai consueti innesti di discorsi e di narrazioni. Inizialmente non era piccolo il timore che fosse un episodio stanco e trascinato della discografia di un gruppo che ha fatto cose egregie: questo pregiudizio viene abbattuto fin dal primo ascolto del disco, che ci fa capire che pur non essendo davanti ad un altro Filthy Pig, e non se ne aveva nemmeno la pretesa, Al ha prodotto un disco più che buono, e come sempre ha saputo incanalare la sua rabbia in un suono acido e debordante, che si insinua sotto pelle come un malware in un computer e come un trojan si sedimenta piano piano attraverso il suo svolgimento, per poi arrivare alla conquista dell’ospitante. Questo è il primo lavoro dopo l’improvvisa morte del chitarrista dei Ministry Mike Sciaccia, dato che si sono verificate le condizioni ottimali per il suo ritorno. Il tutto funziona, ed è un film, uno di quelli che solo lui sa girare, fatto di rabbia e veemenza, stile originale e cronaca acida. AmeriKKKant è un lavoro che deve certamente molto alla situazione attuale, forse se le cose non andassero male non ci sarebbero i Ministry, ma tranquilli, le cose possono solo peggiorare.

Tracklist
1. I Know Words
2. Twilight Zone
3. Victims Of A Clown
4. TV5/4Chan
5. We’re Tired Of It
6. Wargasm
7. Antifa
8. Game Over
9. AmeriKKKa

Line-up
Al Jourgensen – guitars, vox
John Bechdel – keyboards
Sin Quirin – guitars
Tony Campos – bass
Cesar Soto – guitars
Derek Abrams – drums
DJ Swamp – turntables

MINISTRY – Facebook

Black Road – Black Road

Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.

La nuova ondata dei gruppi dai richiami vintage non si ferma solo all’hard rock classico ma, scavando nel tenebroso e mistico underground, il successo di band come Blues Pills ed Avatarium ha dato nuova linfa anche a quelle realtà che lontano dai riflettori suonano rock psichedelico, doom ed abbondantemente stonerizzato.

I Black Road per esempio sono un quartetto di Chicago fondato da solo un paio d’anni, la discografia vede il 2017 come anno zero, con un live e questo ep in uscita a pochi mesi l’uno dall’altro.
Black Road esce in cassette e vinile per la label olandese DHU Records, mentre la nostrana BloodRock Records curerà un’edizione limitata in cd.
L’album è composto da sei brani nei quali il doom e lo stoner incontrano l’hard rock e la psichedelia, facendo piccoli viaggi mistici a ritroso fino ai primi anni settanta con partenza dalla stazione chiamata From Hell, opener che avanza a passo lento e possente, dove il canto della sirena Suzi Uzi segue lo scorrere lavico delle note.
Black Road tiene il passo senza grossi scossoni, il gruppo intona nenie doom tossiche e stregate da pozioni stoner, la chitarra vomita riff sabbathiani e solos hard & heavy che eruttano lava blues, mentre la singer ci trascina ipnotizzati in danze diaboliche.
Il singolo Bloody Mary e la conclusiva title track sono pregne di umori vintage che, a tratti, tornano come in una vorticosa macchina del tempo verso gli anni novanta e ad un buon mix di doom e stoner tra Cathedral e Kyuss.
Un primo lavoro che sicuramente merita l’attenzione degli appassionati ai quali i è vivamente consigliato.

Tracklist
1.From Hell
2.Bloody Mary
3.Morte
4.Morte (Coda)
5.Red
6.Black Rose

Line-up
Casey Papp – Bass
Robert Gonzales – Drums
Tim M. – Guitars
Suzi Uzi – Vocals, Piano

BLACK ROAD – Facebook

Eïs- Stillstand und Heimkehr

Gli Eïs sono una band di livello assolutamente superiore alla media, della quale si vorrebbe ascoltare con più frequenza nuove composizioni che, come in questo caso, rasentano lo stato dell’arte nell’interpretazione del black metal.

A circa due anni e mezzo dall’ultima uscita discografica, tornano a mostrarsi agli appassionati di black metal gli Eïs, per quanto mi riguarda una delle migliori band dedite al genere, tenendo conto anche di quanto fatto in passato con il monicker Geïst.

Stillstand und Heimkehr è un ep che ,con i suoi venti minuti di durata, è il giusto contentino per chi attendeva nuovo materiale da parte di Alboin, che oggi si fa accompagnare dal chitarrista Abarus, suo compare anche nei Frendal.
Gli Eïs appartengono alla categoria delle band che non tradiscono e non deludono mai, e se in An den schwarz besandeten Gestaden lo sciabordio delle onde che fa da sottofondo a rarefatte note pianistiche crea il giusto pathos, prima che il brano esploda e ci mostri il volto evocativo e drammatico del duo, la title track, ispirata al dipinto Il Viandante sul Mare di Nebbia di Caspar David Friedrich, regala ispirati passaggi di chitarra solista che si appoggiano su ritmi più cadenzati, prima delle ulteriori variazioni ritmiche propedeutiche ad un nuovo inarrestabile crescendo conclusivo, una sorta di opprimente parossismo che ben si attaglia alle tematiche introspettive esibite ancor più in questo frangente.
Unico motivo di recriminazione è, quindi, il fatto che Stillstand und Heimkehr offra solo due brani, per quanto splendidi, perché questa è un band di livello assolutamente superiore alla media, della quale si vorrebbe ascoltare con più frequenza nuove composizioni che spesso rasentano lo stato dell’arte nell’interpretazione del black metal.

Tracklist:
1. An den schwarz besandeten Gestaden
2. Stillstand und Heimkehr

Line-up:
Alboîn – Bass, Vocals, Guitars, Keyboards
Abarus – Guitars (lead)

EIS – Facebook

The Julius Peppermint Band – Tides EP

Prendete sotto braccio il surf e cercatevi delle onde da cavalcare perché Tides EP profuma di spiagge assolate, più o meno in uno spazio temporale tra il 1968 e il 1972.

La vita artistica di un musicista non è solo ripetere all’infinito la solita formula, infatti per alcuni diventa vitale cambiare, rigenerarsi e ripresentarsi a chi ascolta sotto altre bandiere musicali.

Ed é così che passare dal metal estremo al rock diventa più facile di quello che si possa pensare: la conferma arriva proprio da questo mini cd di debutto dei The Julius Peppermint Band.
Il gruppo nasce da un’idea di Bertuzz, alias Julius Peppermint, musicista nostrano incontrato più volte nel corso di questi ultimi anni, come chitarrista e cantante nei seminali e quanto mai estremi Anthem Of Sickness e chitarrista degli Underwell, band metalcore di casa Wormholedeath.
Bertuzz torna quindi con un nuovo progetto e con nuova musica, questa volta facendoci fare un viaggio a ritroso nel rock con la sua The Julius Peppermint Band, accompagnato da Tiaz (batteria), Mali (basso) e Clod (chitarra).
Tides EP è composto da cinque brani, registrati e mixati da Bertuzz, con Wahoomi Corvi (guru di casa Wormholedeath) ad occuparsi della masterizzazione nei Realsound Studio.
Prendete sotto braccio il surf e cercatevi delle onde da cavalcare, perché Tides EP profuma di spiagge assolate, più o meno in uno spazio temporale tra il 1968 e il 1972, e la title track è un trip che arriva fulmineo, con quel riff che sa tanto di rock psichedelico e che continua a girare in testa anche quando White Cadillac ci porta a spasso in compagnia di Marc Bolan.
The Mad Cat e With You It’s Alright sono due brani irresistibili che fondono punk rock alla Ramones al garage suonato dai leggendari Miracle Workers, mentre lo strumentale che conclude l’ep (Jellyfish Suite) torna a farci viaggiare sulle ali di un trip dai colori vintage.
Un buon inizio, quindi, per questa nuova avventura del musicista nostrano, lontana dalla musica alla quale ci ha abituato in questi anni, ma altrettanto affascinante.

Tracklist
1.Tides
2.White Cadillac
3.The Mad cat
4.With You It’s Alright
5.Jellifish Suite

Line-up
“JP” Bertuz – Vocals, guitars
Tiaz – Drums
Mali – Bass
Clod – Guitars, backing vocals

THE JULIUS PEPPERMINT BAND – Facebook

Evil Nerfal – Bellum Est Pater Omnium

Bellum Est Pater Omnium non rappresenta qualcosa di imperdibile ma neppure un’uscita deprecabile: il duo di Bogotà conosce la materia e proprio l’approccio diretto e privo di mediazioni, anche a livello lirico, può costituire il principale motivo di interesse così come un elemento capace di tenere lontano l’ascoltatore dai gusti un po’ più ricercati.

Ad ampliare utilmente la già vasta geografia del black metal planetario troviamo i colombiani Evil Nerfal, al loro secondo full length dopo quello d’esordio risalente al 2016.

Come da abitudine, quando il genere proviene dal Sudamerica si dimostra per lo più del tutto privo di fronzoli, in questo caso sotto certi aspetti anche approssimativo nell’esecuzione ed ingenuo nel suo proporre istanze misantropiche ed antireligiose, ma altrettanto genuino e ricco di urgenza espressiva.
Valga un brano emblematico come Fuck Off Jesus Christ, blasfemo in maniera esplicita, a far capire dove voglia andare a parare il duo; così nel suo prosieguo l’album si snoda lungo coordinate prevedibili, a volte avvincenti (En las fauces del demonio), in altri casi molto meno (Satanic Madness Black Metal Unleashed), catturando l’attenzione in maniera piuttosto intermittente.
Bellum Est Pater Omnium non rappresenta qualcosa di imperdibile ma neppure un’uscita deprecabile: il duo di Bogotà conosce la materia e proprio l’approccio diretto e privo di mediazioni, anche a livello lirico, può costituire il principale motivo di interesse così come un elemento capace di tenere lontano l’ascolatore dai gusti un po’ più ricercati.

Tracklist:
1. Coriolan (Overture)
2. Fuck Off Jesus Christ
3. In Endless Torment
4. Foedus Versus Deus (Against the Great Drone of History)
5. En las fauces del demonio (Taedium Daemoni)
6. Agon (Bellum Est Pater Omnium)
7. Satanic Madness Black Metal Unleashed
8. Sathanas Kingdom Rises
9. Vestigial (Manifiesto de misantropía)
10. Egmont (Finale)

Line-up:
Brannagh Bapheker – Vocals, Guitars
Purzon Dominus – Drums

EVIL NERFAL – Facebook

Wild Mighty Freaks – Guns N’ Cookies

Il gruppo fa un rapcore notevolmente influenzato dal nu metal, con sprazzi di dancehall ed una solida base pop. Il suono è potente, melodico ed esaltato da una sapiente produzione.

In Francia sanno fare molto bene la commistione fa vari generi, con un respiro fumettistico che non hanno neppure in America.

I Wild Mighty Freaks sono di Parigi, sono nati nel 2015 e questo disco è il loro ep di debutto che denota una notevole chiarezza di intenti. Il gruppo fa un rapcore notevolmente influenzato dal nu metal, con sprazzi di dancehall ed una solida base pop. Il suono è potente, melodico ed esaltato da una sapiente produzione. L’ep ha la giusta lunghezza che permette di gustare la meglio le peculiarità di questi ragazzi parigini, i quali non inventano nulla di nuovo, ma fanno le loro cose molto bene, con passione e cura per i particolari. Oltre alla musica c’è una grande attenzione per la parte visuale, grazie all’uso di costumi e maschere, come dal vivo o nel video. Il suono diventa fisico e diventa un fumetto, fatto di sangue e di supereroi, un grande videogioco per adulti, molto divertente e fatto molto bene. Il disco è autoprodotto è ciò è un punto in più per questo giovane gruppo che rinverdisce i fasti di un suono che pareva morto, ma che invece grazie a gruppi come questi continua a divertire. Certamente non sono i tempi di maggior successo per questo tipo di suono, ma si deve dare una possibilità agli Wild Mighty Freaks, una band che vi divertirà lasciandovi  un buon gusto mentre affilate le katane.

Tracklist
1. The Last Time
2. Freaks
3. Empty Skies
4. High
5. Jungle
6. Get Out

Line-up
Crazy Joe
Flex
Tonton
Yaboy

WILD MIGHTY FREAKS – Facebook

Myrholt – Vinter

Il black metal offerto da Myrholt è senz’altro apprezzabile e, se questi sono i frutti tangibili di una nuova fase compositiva, ci sono tutti i presupposti per seguire anche in futuro le mosse del musicista scandinavo.

Questo breve ep targato Myrholt arriva dopo un 2017 molto intenso, nel corso del quale l’omonimo musicista norvegese, dopo un lungo silenzio, ha rimesso mano al materiale composto sotto altri monicker (l’ultimo dei quali Tremor) tra la metà degli anni novanta e la fine dello scorso decennio, pubblicando una serie piuttosto corposa di singoli, un Ep e due full length.

Vinter, se non ho inteso male, presenta invece due tracce inedite che vedono il nostro alle prese con un black metal piuttosto legato alla tradizione ma piacevolmente atmosferico, attestato su ritmi ragionati e in definitiva di buona fattura per scrittura e produzione.
Heimdall è un brano molto bello che cresce in intensità nei minuti finali, mentre Hieros Gamos presenta maggiori variazioni ritmiche, per poi stemperarsi in una elegante chiusura pianistica che offre la misura della buona sensibilità artistica di Ole Alexander.
Il black metal offerto da Myrholt è senz’altro apprezzabile e, se questi sono i frutti tangibili di una nuova fase compositiva, ci sono tutti i presupposti per seguire anche in futuro le mosse del musicista scandinavo.

Tracklist:
1. Heimdall
2. Hieros Gamos

Line-up:
Ole Alexander Myrholt – All instruments

MYRHOLT – Facebook

Helel – A Sigil Burnt Deep into the Flesh

La durata ridotta inferiore alla mezz’ora sicuramente agevola la digestione di un piatto altrimenti indigesto se ingerito in dosi più massicce: l’industrial black degli Helel, benché sia passato quasi un decennio, si dimostra ancor oggi molto efficace, rifuggendo soluzioni ammiccanti o più attente alla forma che alla sostanza.

Dopo diverse riproposizioni arriva anche quella in vinile per quest’album dei francesi Helel, band davvero interessante ma che non ha poi dato seguito, se non con una raccolta, al lavoro in questione risalente ormai al 2009.

Il fatto stesso che l’album sia stato riedito in diversi formati e da diverse etichette (ultime delle quali la Dead Seed e la Necrocosm) depone a favore delle potenzialità di una band capace di imprimere una ferocia non comune al proprio sound, tramite un impalcatura fondata su un estremismo dai ritmi incessanti e a tratti quasi parossistici.
Non è solo brutalità quella che si rinviene tra le note degli Helel: le aperture melodiche sono inesistenti ma il fragoroso incedere degli strumenti è placato di tanto in tanto da rallentamenti nei quali è possibile scorgere ancora meglio le dissonanze, per il resto imprigionate nelle fitte maglie di un sound che non prevede compromessi.
La durata ridotta inferiore alla mezz’ora sicuramente agevola la digestione di un piatto altrimenti indigesto se ingerito in dosi più massicce: l’industrial black degli Helel, benché sia passato quasi un decennio, si dimostra ancor oggi molto efficace, rifuggendo soluzioni ammiccanti o più attente alla forma che alla sostanza.
Perché l’operazione possa assumere maggiormente un senso compiuto, sarebbe ovviamente necessario che gli Helel fornissero un segno sul loro status attuale, perché l’eventuale notizia di un nuovo lavoro in preparazione potrebbe far aumentare l’interesse anche per questa uscita, destinata altrimenti a rimanere appannaggio di pochi estimatori fedeli del genere.

Tracklist:
1.Mass Destruction / Mass Alienation
2.A Sigil Burnt Deep into the Flesh
3.This Is Hel(e)l
4.Cosmos Is Out of Order

Line-up:
Zaal – Bass, Vocals (backing)
Skvm – Guitars (lead), Vocals (backing)
Mz. – Guitars, Drums, Samples, Keyboards, Vocals (backing), Lyrics, Songwriting

HELEL – Facebook

Claudio Signorile – Groove Experience

Come ci hanno abituato ormai da tempo i musicisti che si cimentano in lavori strumentali, anche Claudio Signorile riesce ad impressionare senza necessariamente smarrire la strada maestra che conduce ad una scrittura rivolta non solo agli iniziati, bensì a chiunque ami la buona musica.

La musica contemporanea ha dato, da parecchi anni, sempre maggiore importanza agli strumenti ritmici, con il basso ad ergersi a protagonista principale, in più di un caso anche più della stessa chitarra: nell’economia dei vari generi con il suo suono caldo ha abbracciato migliaia di ascoltatori, ed anche nel metal e nel rock ha sempre trovato maestri indiscussi.

Groove Experience è il secondo ep del musicista pugliese Claudio Signorile, che i cultori del basso e dei lavori strumentali ricorderanno con A song 4 each day…, primo album uscito nel 2011 che lo vedeva impegnato quasi completamente con la programmazione degli altri strumenti, registrazione e mix.
Questa volta il bassista barese è accompagnato da una serie di ottimi musicisti che valorizzano i brani presenti in Groove Experience, dove il basso viene presentato sia come accompagnamento sia come strumento principale, offrendo una panoramica soddisfacente sul mondo delle quattro corde.
Ovviamente, in un album interamente strumentale, i pericoli dietro l’angolo sono l’ autocompiacimento e la tecnica fine a se stessa, a discapito di una fruibilità che per chi ascolta diventa vitale se non si è musicisti e non si ha confidenza con le tecniche di esecuzione.
Invece, per fortuna, Groove Experience lascia trasparire la voglia da parte di Signorile di rendere partecipi tutti quelli che si soffermeranno su queste sette gemme strumentali, nelle quali le capacità tecniche sono esclusivamente funzionali allo scorrere del fiume di musica che passa da rimandi jazz, al funky, dal rock, al metal, con il basso a dettare i tempi e, di conseguenza, le emozioni scaturite da bellissime cascate strumentali come Bass Suite, Groove Experiment e la magnifica Mosaic.
Come ci hanno abituato ormai da tempo i musicisti che si cimentano in lavori strumentali, anche Claudio Signorile riesce ad impressionare senza necessariamente smarrire la strada maestra che conduce ad una scrittura rivolta non solo agli iniziati, bensì a chiunque ami la buona musica.

Tracklist
01. Horizon
02. Bass Suite
03. Unforgettable
04. Groove Experiment
05. When love ends
06. Mosaic
07. In my memory

Line-up
Claudio Signorile – bass
Pierluigi Balducci,Vincenzo Maurogiovanni – Lead bass
Michele Campobasso – piano
Francesco Adessi and Danny Trent – acoustic guitar
Aurelio Follieri – electric guitar
Rha Stranges Francesco “Frums” Dettole – drums
Marcello Leanza – sax
Aurelio Follieri – electric guitar
Danny Trent – acoustic guitar

CLAUDIO SIGNORILE – Facebook

LE INTERVISTE DI OVERTHEWALL: ZEPHYR

Grazie all’avvio della reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni mercoledì alle 21.30 ed ogni domenica alle 22.00 su www.energywebradio.it.

Grazie all’avvio della reciproca collaborazione con la conduttrice radiofonica Mirella Catena, abbiamo la gradita opportunità di pubblicare la versione scritta delle interviste effettuate nel corso del suo programma Overthewall, in onda ogni mercoledì alle 21.30 ed ogni domenica alle 22.00 su www.energywebradio.it.
Oggi è il turno degli Zephyr, storica band heavy metal guidata da Alessandro Zazzeri. Buona lettura.

MC Gli Zephyr si formano nel 1979 riscuotendo immediatamente un ottimo successo. Ci parli dell’inizio di quest’avventura?

Il primo nucleo degli Zephyr nacque per caso dalla passione per la musica da parte mia, il tastierista Nicola Castanò, il bassista Marco Capecci e il batterista Fabio Chiarini. Eravamo tre quattordicenni tranne il batterista che era quindicenne. Successivamente Capecci nel 1984 fu sostituito con Paolo Rinaldini al basso. Subito ci mettemmo a fare cover dei Deep Purple, Led Zeppelin, Black Sabbath, Uriah Heep e brani nostri in linea con quel sound, in
quanto erano quelli i nostri gruppi preferiti. Eravamo decisamente fuori moda per i tempi. In particolare in italia in quel periodo la musica mainstream era la disco music e la primissima new wave pop, niente a che fare con l’hard rock. Anzi la musica rock nel vero senso della parola era quasi sparita dai media italiani. Insomma eravamo una delle poche piccole realtà fuori dagli schemi imperanti del periodo. A dir la verità lo siamo sempre stati anche negli anni
a seguire. Questo a creato interesse nei nostri confronti da parte di una fedele, e devo dire, inaspettatamente numerosa nicchia di appassionati. Ovviamente ci ha chiuso anche qualche porta a livello mediatico, ma noi ce ne fregavamo, per noi contava suonare ciò che ci piaceva e facevamo parecchi concerti. Ci siamo molto divertiti. Questa era la nostra filosofia, lo è sempre stata. E ne andavamo fieri.

MC Nel 82 vincete il “Cantagiro Romagnolo” e immediatamente dopo trionfate al festival “Heavy Mass”, primo raduno hard rock/heavy metal per gruppi emergenti. Quali sono i ricordi più significativi di quelle esperienze?

Nel 1982 registrammo il primo nostro demo con pezzi originali e partecipammo al Cantagiro romagnolo, una kermesse molto popolare allora, per cantanti e gruppi emergenti… e lo vincemmo. Madrina delle numerose serate di quel festival era una certa Cicciolina, che poi faceva il suo spettacolo molto, molto osè… incurante dei minorenni (noi compresi). Che dire, altri tempi. Successivamente nel 1985 registrammo il nostro secondo demo e lo spedimmo a Clive Griffith, indimenticato presentatore della fu Video Music, poi diventata MTV, prima emittente di video musicali in Italia. A Clive piacemmo molto e ci intervistò all’interno di un programma della medesima emittente (Heavy con Kleever) primo programma di video heavy metal in Italia. In seguito Clive si ricordò di noi e quando Video Music organizzò il primo raduno di gruppi hard/heavy “Heavy Mass”, ripreso dalla emittente nel palazzetto dello sport di Pistoia, in occasione della uscita del primo numero di “H.M” prima rivista del genere in italia, ci chiamò per partecipare. Il tutto venne trasmesso dalla emittente Video Music e noi risultammo il gruppo più apprezzato, sia dal pubblico in loco sia da quello televisivo che dagli stessi organizzatori della emittente televisiva, tanto che ci
commissionarono la sigla per un programma, “Road show”, andato in onda nel 1987.

MC  Nonostante questi successi la band si scioglie e tu collabori con i Rex Inferi altra band storica dell’heavy metal italiano. Ci parli di questa parentesi della tua attività?

La pubblicità che ci venne dalla esperienza Video Music ci consentì di fare numerosi concerti molto apprezzati; ci sentivamo pronti per il grande salto…. Ma come spesso accade, e allora più di ora, il salto di qualità non avvenne; questo portò allo scioglimento del gruppo. Troppe aspettative tradite. Col senno del poi eravamo solo degli illusi, in quanto in quegli anni avere successo, nel vero senso della parola, per una band italiana hard/metal era praticamente impossibile. Tante le band che avrebbero meritato… In realtà però sempre rimaste un fenomeno di nicchia. Noi poi eravamo una band atipica, in quanto più sul versante hard rock, quindi fuori moda anche per quel movimento. Facevamo parte di una nicchia nella nicchia, e se da un lato questo ci caratterizzava in positivo, dal punto di vista commerciale ci castrava ulteriormente.
L’esperienza con i Rex Inferi è dovuta alla mia amicizia con Maurizio Samorì, grandissimo chitarrista. Cantai su tre brani (uno andò perso) nell’ottimo “Like a hurricane”. I Rex Inferi erano un grande e storico gruppo, sono orgoglioso di avervi partecipato

MC Ma gli Zephyr restano il fulcro della tua creatività musicale e con un provino dove suoni tutti gli strumenti, riesci a convincere la LM Records a mettere la band sotto contratto.
Quanto ti ha aiutato la passione per la musica in tutti questi anni?

La passione per me è tutto. Ho continuato e continuo a scrivere canzoni e ho realizzato due cd a nome Zephyr, a testimonianza di quella esperienza che nel mio piccolo porto nel cuore con grande orgoglio.

MC Nel 91 ti affermi in varie manifestazioni musicali molto importanti anche da solista e con un altro progetto, gli Washing Machine, e nel 97 riformi gli Zephyr e nel 2008 pubblicate finalmente”The Last Dawn”.
Cosa ha rappresentato questo disco per te?

Sì, io ho continuato a suonare e cantare in vari progetti e mi sono tolto anche qualche soddisfazione: come arrivare secondo nel 1991 al “Festival di Ariccia” trasmesso in diretta su Rai 2 e più recentemente, nel 2007, con gli Washing Machine con un nostro brano trasmesso Su Radio Rai 2.
Il mio primo disco The Last Dawn è uscito postumo nel 2008 per problemi (fallimento) della LM Records. In realtà si tratta di una registrazione del 1989. In quel disco suonai tutti gli strumenti e ovviamente cantavo. Sfortuna volle che uscì quasi 20 anni dopo e questo ha sicuramente nuociuto al nome Zephyr e all’esser meno popolari di quello che forse avrebbero meritato. Ma pazienza, sono cose che succedono.

MC  Nel 2015 Taste The Bomb, che contiene ben 18 tracce, conferma il definitivo ritorno della band. Ci parli di quest’album?

Più recentemente  ho realizzato Taste The Bomb … 18 tracce! Contiene numerose ballate, questo ha fatto storcere il naso a qualcuno, ma altri lo hanno apprezzato proprio per questo. Personalmente ne vado fiero. Forse la produzione non è all’altezza del precedente (nel 1989 il nome Zephyr aveva un’altra risonanza) ma i pezzi secondo me sono validi, gli arrangiamenti molto più complessi e maturi e la mia voce si esprime in varie coloriture, era quello che volevo. Anche in questo caso, tranne la batteria (Guido Minguzzi), tutte le voci e strumenti sono suonati da me. Ci sono anche brani in italiano.

MC  La componente live è sempre stata importante per te e per la band. Com’è cambiato il pubblico rispetto gli anni 80/90?

Penso di non sbagliare a dire che gli Zephyr siano state tra le band del genere ad aver all’attivo più live della media. Questo perché il pubblico rispondeva positivamente e semplicemente i gestori di festival e locali ci richiamavano volentieri. Noi ci divertivamo e ci facevamo le ossa. I nostri live duravano all’incirca 2 ore e mezza e davamo tutto noi stessi.
Forse è proprio questo che è cambiato negl’ultimi anni. Ora vedo gruppi tecnicamente molto validi ma freddi, quasi distanti, che si atteggiano molto, e soprattutto sembrano cloni di cloni. Ecco io penso che i gruppi della nostra generazione fossero più sinceri, più veri, anche perché le difficoltà erano talmente grosse che se non eri veramente convinto di quello che facevi non potevi sopravvivere. Al di là della qualità e della serietà (c’erano sfigati e figli di papà anche allora), ora vedo un sacco di gente che nonostante i capelli lunghi, le borchie, gli atteggiamenti e le classiche pose plastiche da rocker, sembrano, e spesso lo sono, degli “impiegati del catasto” che giocano a fare i duri su un palco. Sì, ritengo che il discrimine sia proprio la spontaneità e la credibilità; qualità che mancano a molti musicisti odierni. Il pubblico se ne accorge, secondo me.

MC Cos’è previsto nel futuro degli Zephyr? Ci sono progetti che vorresti realizzare?

Ora sto componendo nuovo materiale che registrerò in un Cd appena posso e ho voglia. Sarà più heavy del precedente anche se non mancherà qualche ballata acustica. Non per scelta “commerciale” ma perché mi va così. Il non dover dipendere dal successo ha almeno questo lato positivo: te ne puoi fregare altamente e fare quel che ti pare. Per me vale solo la testimonianza e il mio divertimento, poi se con la mia musica si diverte anche qualcun’altro, tanto meglio. Se devo essere sincero trovo un po’ patetico chi, come nel mio piccolo, arrivato agli ‘anta pretenda qualcosa di più di questo e si atteggi ancora a essere considerato la miglior rockstar del proprio pianerottolo…

MC Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi sul web?

Non sono un cultore del web e non mi interesso più di tanto a questo aspetto, ma comunque sul Web gli Zephyr sono presenti in qualche video su Youtube, oppure su Facebook direttamente come Zephyr dove si troveranno soltanto notizie veramente importanti; non qualsiasi “scorreggia” come fanno certi altri gruppi che pensano di essere i Rolling Stones “de noartri”. Ci tengo a non fare certe figure (da noi si dice: non sono un “pataca”).

MC Ti ringrazio di essere stato con noi. Ti lascio l’ultima parola

Coltivate le vostre passioni fino a che potete, al di là della qualità delle stesse. Non pretendete troppo, non tutti possono fare successo, non tutti se lo meritano, non tutti hanno fortuna e il carattere adatto. Il successo non deve essere il solo traguardo, l’importante è essersi divertiti ed aver espresso sé stessi o comunque una parte importante di sé stessi. Io ho avuto la fortuna di centrare questi obiettivi. Lo auguro a tutti

Crucifyre – Post Vulcanic Black

La band si muove a meraviglia tra sfuriate slayerane, devastanti ripartenze thrash/black e mid tempo metallici dai rimandi sabbathiani.

La title track di questo bellissimo nuovo album degli svedesi Crucifyre ci dà il benvenuto come meglio non si sarebbe potuto tra le note di Post Vulcanic Black, terzo full length del quartetto attivo in quel di Stoccolma dal 2006.

Non molto ricca, ma sicuramente di qualità, la discografia di questo satanico gruppo, fatta di un terzetto di lavori minori che fungono da corollario per lavori sulla lunga distanza che trovano in Post Vulcanic Black il picco qualitativo.
L’album si apre come detto con i sei minuti della title track, un mid tempo dai tratti heavy, molto atmosferica e dai solos armonici in un crescendo di tensione culminante nella seguente Thrashing With Violence che, come suggerisce il titolo, risulta un brano di ruvido thrash metal old school.
Si torna all’heavy metal con la splendida Mother’s Superior Eyes, mentre le sfumature black di War Chylde tornano a rivestire di estremo il sound del gruppo.
I nuovi arrivati (Karl Buhre alla voce e Cristian Canales al basso) risultano perfettamente a loro agio, inseriti in un contesto collaudatissimo capitanato dal batterista Yasin Hillborg (ex Afflicted), e la band gira come un orologio tra sfuriate slayerane (Murder And Sex And Sel-Destruction), devastanti ripartenze thrash/black (Död Människa?) e mid tempo metallici dai rimandi sabbathiani (Copenhagen In The Seventies, altro brano da applausi insieme alla title track).
Non resta quindi che cercare la vostra copia di Post Vulcanic Black, mentre la conclusiva Serpentagram , oltre a richiamare un noto gruppo doom nel titolo, vi accompagna lentamente verso la fine del viaggio nel mondo di questa ottima band estrema.

Tracklist
1. Post Vulcanic Black
2. Thrashing With Violence
3. Mother’s Superior Eyes
4. War Chylde
5. Hyper Moralist (Deemed Antichrist)
5. 200 Divisions
6. Död Människa?
7. Murder And Sex And Self-Destruction
8. Copenhagen In The Seventies
9. Serpentagram

Line-up
Karl Buhre – Vocals
Patrick Nilsson – Lead Guitar
Alex Linder – Lead Guitar
Christian Canales – Bass
Yasin Hillborg – Drums

CRUCIFYRE – Facebook

Satanic Surfers – Back From Hell

Back From Hell è un disco che porta direttamente al meglio dell’hardcore punk degli ultimi anni, e la conferma che la storia dei Satanic Surfers sarà ancora lunga e con molte soddisfazioni, sia loro che nostre.

In un momento in cui praticamente tutti i gruppi punk hardcore e non solo degli anni novanta si sono riformati, mancavano loro, uno dei migliori gruppi del genere, i Satanic Surfers da Lund, Svezia.

Ascoltando questo Back From Hell c’è la felicità di sentire che non hanno perso nulla della loro bravura, della loro immensa capacità di fare musica veloce e potente con una grandissima melodia, ottenendo un risultato che solo loro sanno dare. Chi si ricorda la magia di dischi come 666 Motor Inn, Going Nowhere Fast o Hero Of Our Time, sappia che i ragazzi sono ancora al loro massimo, e anzi, questo è uno dei loro dischi migliori, forse anche più di quelli usciti con la mitica etichetta svedese Burning Heart, una label che ci regalò molte gioie. Questo disco esce dopo tredici anni di silenzio discografico e non è una mera riproposizione delle glorie passate, ma un fantastico album di un gruppo che sa fare canzoni molto belle, con mille stop and go, molta melodia unita ad una grande potenza, in un connubio che ha un nome di due parole : Satanic Surfers. C’è sempre stata una particolare magia in questa band e questa ultima prova è un ulteriore passo in avanti. Come detto poc’anzi, molte riunioni sono un qualcosa di quantomeno triste, mentre questo disco è uno splendido esempio di cosa si può fare se si ha talento e voglia da vendere. Rodrigo è come sempre alla batteria ed alla voce, uno dei talenti più cristallini mai comparsi sulla scena hardcore punk mondiale, che con grande umiltà riesce sempre a regalarci grandi melodie. Back From Hell è un disco che porta direttamente al meglio dell’hardcore punk degli ultimi anni, e la conferma che la storia dei Satanic Surfers sarà ancora lunga e con molte soddisfazioni, sia loro che nostre.

Tracklist
1.The Usurper
2.Catch My Breath
3.Self-Medication
4.All Gone To Shit
5.Ain’t No Ripper
6.Madhouse
7.Going Nowhere Fast
8.Paying Tribute
9.Pato Loco
10.Back From Hell

Line-up
Rodrigo
Magnus
Andy
Stefan
Max

SATANIC SURFERS – Facebook

Inhibitions – La Danse Macabre

Forse gli Inhibitions peccano talvolta in omogeneità, ma nel proporre la loro idea di black metal perlomeno non si accontentano di un’espressione piatta, provando ad inserire con buona proprietà elementi, sempre riconducibili al metal estremo,  capaci di rendere meno prevedibile la proposta.

Symphonic black metal per i greci Inhibitions, al loro secondo full length all’interno di una carriera ancora relativamente giovane.

Detto così ci si potrebbe aspettare qualcosa di enfatico e basato totalmente sul suono delle tastiere, ma come abbiamo imparato in questi ultimi tempi non è necessariamente così.
La Danse Macabre è  infatti un album nel quale l’aspetto melodico viene tenuto in primo piano, ma gli Inhibitions conferiscono al tutto una certa varietà, inserita in un sound che mantiene il giusto grado di sporcizia che attiene al genere.
Peraltro in questo caso ritroviamo dopo nemmeno troppo tempo Dimons’ Night, musicista che non aveva impressionato più di tanto alle prese con il death doom dei suoi Humanity Zero: qui, invece, il connubio con Pain pare offrire frutti ben più pregiati perché l’album offre molti spunti di interesse, in virtù di un approccio versatile grazie al quale lo spirito del black metal non viene snaturato bensì arricchito dalle numerose digressioni presenti all’interno dei singoli brani.
Troviamo così  un brano davvero ricco come Toxic Rain, con un break centrale di chitarra acustica pregevole, e una più lineare e catchy No Escape nella quale però non si rinuncia a cambiare le carte in tavola nel finale, e anche una notevole Religion of Peace, dai rallentamenti asfissianti che rimandano ai Morbid Angel di Covenant, pur se inseriti su una struttura black alla quale fa da contraltare l’ariosa Harsh Awakening.
Chiude questo buonissimo album la cover di K.I.N.G., vera e proprio hit in campo black metal, la cui riproposizione è utile soprattutto per rendersi conto di quanto nei Satyricon possa fare la differenza il drumming di Frost (infatti, una delle controindicazioni matematiche nel proporre cover fedeli alla versione originale è quella di soccombere inevitabilmente nel confronto con chi il brano l’ha scritto).
Forse gli Inhibitions peccano talvolta in omogeneità, ma nel proporre la loro idea di black metal perlomeno non si accontentano di un’espressione piatta, provando ad inserire con buona proprietà elementi, sempre riconducibili al metal estremo,  capaci di rendere meno prevedibile la proposta.

Tracklist:
1. The Calling
2. Toxic Rain
3. Back to the Dust
4. No Escape
5. My Journey to Death
6. Religion of Peace
7. Harsh Awakening
8. Eternal Winter
9. Rusty Razor
10. K.I.N.G. (Satyricon cover)

Line-up:
Pain – Vocals, Guitars
Dimon’s Night – Vocals, All instruments

INHIBITIONS – Facebook

Eartheria – Awaken The Sun

L’ep, della durata di mezzora, fatica a tenere l’ascoltatore con l’attenzione concentrata su brani come Myriad o la conclusiva Nihil, tracce tenute prigioniere dalle catene di un sound che segue le peripezie tecniche di Gojira e compagnia, ma che fatica nel lasciare qualcosa in termini di emozioni in chi ascolta.

Secondo mini cd per i finlandesi Eartheria, metal band proveniente da Pori e formata da quattro ottimi musicisti.
Ed infatti la loro bravura strumentale si evince da questi cinque brani che formano Awaken The Sun, successore del primo lavoro uscito tre anni fa (Throes Of Time).

Il quartetto si dedica anima e corpo al death metal dai rimandi tecnici e progressivi, lasciando trasparire un anima melodica per un sound che risulta una via di mezzo tra il technical ed il melodic death.
Il risultato è altalenante, le emozioni latitano, lasciate agli attimi in cui la melodia prende il sopravvento sul tecnicismo, e questo impedisce ad Awaken The Sun di prendere definitivamente il volo.
L’ep, della durata di mezzora, fatica a tenere l’ascoltatore con l’attenzione concentrata su brani come Myriad o la conclusiva Nihil, tracce tenute prigioniere dalle catene di un sound che segue le peripezie tecniche di Gojira e compagnia, ma che fatica nel lasciare qualcosa in termini di emozioni in chi ascolta.
Due ep in quattro anni portano a pensare che al prossimo giro la band si dedicherà all’esordio sulla lunga distanza, e qui vedremo se gli Eartheria sapranno o vorranno sterzare verso un sound più lineare, lasciando maggiore spazio ad un elemento melodico che  sembrerebbe tutto sommato essere nelle loro corde.

Tracklist
1.A Wake (In the Sun)
2.Brought Before the Emperor
3.Myriad
4.Escapist
5.Nihil

Line-up
Leino Juha-Pekka – Guitar & Main Vocals
Unkila Lauri – Guitar & Backing Vocals
Rosholm Janne – Bass & Backing Vocals
Ojakoski Mikko – Drums & Backing Vocals

EARTHERIA – Facebook

Morbid Saint – Destruction System

Un ottimo gruppo statunitense, poco conosciuto dai più, che seppe traghettare il thrash verso i lidi del death metal floridiano.

I Morbid Saint – originari di Sheboygan, Wisconsin, e poi trasferitisi a Chicago – si formarono nel 1982 sotto le insegne del nascente US Metal.

L’avvento del thrash californiano cambiò loro la vita e il debutto del 1990, intitolato Spectrum of Death, fu folgorante. L’anno successivo, si sa, Nevermind dei Nirvana e l’omonimo dei ‘Tallica mandarono in crisi il thrash più tradizionale e i Morbid Saint si trovarono costretti a registrare solo su cassetta, in versione demo, il loro secondo disco, Destruction System, pubblicato su compact, insieme all’esordio, soltanto nel 2015 dalla Keltic, con distribuzione Century Media: otto tracce durissime e cattivissime, tra Slayer, primi Kreator, Sepultura, Possessed, Dark Angel e Sadus. Non mancavano contaminazioni con il black metal (primissimi Sodom, nonché Infernal Majesty) e nello specifico con il death di Malevolent Creation, Vader e Merciless (ormai la nuova frontiera dell’estremo in musica all’alba dei Novanta). Destruction System è dunque, oltre che una attestazione di indelebile coerenza ed integrità artistica, anche una significativa e preziosissima testimonianza storica circa l’evoluzione parallela ed intrecciata di thrash e death al principio dei ’90: un prodotto quindi assolutamente da avere.

Tracklist
– Darkness Unseen
– Death of Sanity
– Final Exit
– Destruction System
– Disciples of Discipline
– Halls of Terror
– Living Misery
– Sign of the Times

Line up
Pat Lind – Vocals
Jay Visser – Guitars
Jim Fergades – Guitars
Lee Raynolds – Drums
Gary Beimel – Bass

1991 – Autoprodotto

Special Ops – Baby Take It All

Ep di tre brani per gli alternative rockers canadesi Special Ops, band consigliata agli amanti dell’alternative metal e del crossover.

Gli Special Ops sono una band alternative metal canadese, nata all’inizio del nuovo millennio e con una discografia abbastanza nutrita, tra full length e lavori minori.

In passato il quartetto suonava una miscela originale di metal classico, digressioni jazz e musica tradizionale orientale, trovando un discreto successo per via di un brano utilizzato in uno spot pubblicitario.
Baby take It All è un mini cd di tre brani che segue di pochi mesi l’ultimo album (Tangents), il quarto della storia del gruppo di Montreal.
La title track è il classico brano alternative, un hard rock moderno dal metallico riff iniziale che sterza il tiro del sound verso un rock più radiofonico e mainstream, così come la seguente Dead Are Calling, traccia oscura e melodica che lascia spazio alla notevole Salt, un ritorno a quelle sonorità che che si riassumono in un unico termine: crossover.
Rock, jazz, sezioni di fiati che impreziosiscono ritmiche funky, fanno di quest’ultimo brano il motivo per dare un ascolto a questo ep e fare la conoscenza dei rockers canadesi.

Tracklist
1.Baby take It All
2.Dead Are Calling
3.Salt

Line-up
AK Johnson – Guitar/Vocals,
Weka BW – Lead Guitar,
Waldo Thornhill – Bass,
Clarence Mcgillucutty – Drums & Percussion

SPECIAL OPS – Facebook

Nydvind – Tetramental I – Seas of Oblivion

I Nydvind non si risparmiano, offrendo oltre un’ora di pagan black metal al suo massimo livello, intenso e robusto allo stesso tempo e privo di punti morti.

Un ottimo pagan black metal è quello che viene offerto dai Nydvind, band francese in circolazione fin dai primi anni del secolo e giunta con Tetramental I – Seas of Oblivion al terzo full length di una carriera dalle uscite piuttosto diradate, nonché di pregevole qualità.

In questo trio troviamo comunque personaggi abbastanza conosciuti nella scena transalpina, a partire dal fondatore della band Richard Loudin, qui con lo pseudonimo di Hingard, vocalist che gli appassionati di doom conoscono molto bene per la sua militanza prima nei Despond e poi nei Monolithe, per arrivare poi a Olivier Sans (Nesh, chitarrista anche negli ottimi Azziard) ed Eric Tabourier (Stig, batterista, ex-Temple Of Baal).
Con queste premesse, l’operato dei Nydvind non poteva che rappresentare il frutto del lavoro di musicisti competenti e capaci di raccogliere e con buona personalità i dettami di uno dei generi nordici per eccellenza.
Ne scaturisce, quindi, un lavoro di notevole spessore, coinvolgente ed epico come devono essere gli album di matrice pagan, con riferimenti stilistici che riportano ai campioni del genere come i Primordial; è bene far notare, comunque, come la storia della band parigina tragga origine dalla precedente militanza di Hingard e Nesh in un’altra band dedita a sonorità folk e celtiche come i Bran Barr, tanto per dimostrare come questa inclinazione verso certe sonorità non sia frutto di una folgorazione improvvisa ma arrivi decisamente da lontano.
Al di là di tali premesse, l’operato dei Nydvind parla attraverso la musica contenuta in questo lavoro splendido per intensità e capacità di coinvolgimento, che si avvicinano non poco al meglio della produzione della citata band irlandese; al proposito va ribadito che tale riferimento è un’indicazione di massima utile a far capire cosa di debba attendere chi ascolterà l’album, visto che il sound dei francesi ha un propria peculiarità stilistica che si esplicita tramite uno spiccato senso melodico sviluppato in una direzione più epica che solenne.
Composto e suonato e prodotto come meglio non si potrebbe, Tetramental I – Seas of Oblivion si pone fin d’ora come uno dei probabile album di punta del genere negli ultimi tempi: il mare in tempesta che ci accoglie fin dalla copertina è l’ambiente naturale lungo il quale si dipana il racconto, con la band che mantiene sempre vivo tale immaginario a partire dalla fatica dei rematori evocata nell’opener Plying the Oars, fino allo sciabordio delle onde od ai versi dei gabbiani che sovente si manifestano nel corso dell’opera.
I Nydvind non si risparmiano, offrendo oltre un’ora di pagan black metal al suo massimo livello, intenso e robusto allo stesso tempo e privo di punti morti, con le quattro lunghe tracce superiori ai dieci minuti di durata (Sailing Towards the Unknown, Till the Moon Drowns, Through Primeval Waters, Unveiling a New Earth) che costituiscono la spina dorsale di un’opera davvero ispirata, alla quale non manca nulla per raccogliere i favori di chi ama questo sonorità ricche di fascino ed emotività.
Il fatto che Richard Loudin non faccia più parte dei Monolithe, con i quali è stato impegnato in maniera piuttosto intensa in questo decennio, fa ragionevolmente pensare e sperare che probabilmente non sarà necessario attendere altri sette anni prima di ascoltare un nuovo album dei Nydvind.

Tracklist:
1. Plying the Oars
2. Sailing Towards the Unknown
3. Skywrath
4. Till the Moon Drowns
5. Sea of Thalardh
6. The Dweller of the Deep
7. Through Primeval Waters
8. Unveiling a New Earth

Line-up:
Hingard: Vocals, Guitars
Nesh: Guitars, Bass nad Bouzouki
Stig: Drums

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Hexis – XII EP

Qui tutto è malato, contaminato dal virus dell’umana corruzione: Dio esiste ed è cattivo come nella cosmogonia catara, viviamo in un fluido nero che ricopre tutto e questa musica rappresenta bene la fine dell’illusione.

Devastante hardcore caotico, pesante e dalla grande intensità, un nuovo evolversi di una pesante forma deviata di suono.

I danesi Hexis sono una band piuttosto attiva, che ha ben chiara la propria direzione e continua in maniera interessante un discorso iniziato cominciato sette anni fa. L’essenza del loro suono è nera, si può definire in diverse maniere, come hardcore caotico, quindi una mutazione di tale genere, ma può essere osservato anche da una diversa angolazione come quella del black metal, che è un mattone importante in questo muro sonoro che si staglia contro di noi. Qui tutto è malato, contaminato dal virus dell’umana corruzione: Dio esiste ed è cattivo come nella cosmogonia catara, viviamo in un fluido nero che ricopre tutto e questa musica rappresenta bene la fine dell’illusione. Il gruppo di Copenaghen raccoglie il testimone da gruppi come gli italiani The Secret ed amplia ulteriormente il discorso, dipingendo un quadro molto simile a quelli di Bosch. La composizione e l’esecuzione sono molto buone, come la produzione. Ci son pause, ripartenze, momenti che trasudano potenza e brutalità, e passaggi in stile Amen Ra. La scuola nordica della musica pesante è il principale riferimento dei nostri, che partono da lì per fare un discorso totalmente personale. Grazie alla loro bravura e alle loro capacità il disco è molto interessante, nonostante possieda un suono senza compromessi e privo di commerciabilità. Si soffre, si suda per vivere, ma se lo si riesce a sublimare con dischi come questo allora potrebbe avere un senso.

Tracklist
1.Derelictus
2.Nefarius
3.Famelicus
4.Miseria
5.Sacrificium

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