Cerebral Fix – Disaster Of Reality

Si torna indietro di molti anni con i Cerebral Fix, tornati sul mercato tramite la Xtreem con questo nuovo lavoro fatto di death scarno e dallo spirito hardcore.

Si torna indietro di molti anni con i Cerebral Fix, tornati sul mercato tramite la Xtreem con questo nuovo lavoro fatto di death scarno e dallo spirito hardcore.

Il gruppo britannico fece parte di quella scena che, a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo, imperversò nel mondo metallico estremo capitanato da nomi storici come Bolt Thrower e Napalm Death.
Pur essendo meno famosi dei loro compagni di merende a base di musica violenta e senza compromessi, il loro approccio si differenziava non poco, con un’anima crossover che aleggiava sulla musica tra potenza death metal ed impatto hardcore.
Una discografia composta da lavori minori ed una manciata di full length, tutti licenziati tra il 1988 ed il 1992, poi un lungo silenzio fino ad un paio di anni fa e l’uscita di uno split in compagnia dei Selfless, era l’eredità lasciata dallo storico gruppo, fino ad oggi e a questo Disaster of Reality.
Della formazione storica sono rimasti in tre: Gregg Fellows e Tony Warburton alle chitarre e Andy Baker alle pelli, raggiunti da altri tre energumeni che corrispondono a Neil Hadden (voce), Chris Hatton (chitarra) e Nigel Joiner al basso, così da formare un combo di sei musicisti estremi con tanta voglia di spaccare a modo loro, cioè senza compromessi, assolutamente fuori da trend e modus operandi prestabiliti e con un’attitudine old school quasi commovente.
Disaster Of Reality è un lavoro basato tutto sull’impatto, con una serie di brani che risultano pugni nello stomaco, essenziali, violenti e in presa diretta.
Quello che esce dagli strumenti dei Cerebral Fix è ciò che sentite debordare dalle vostre casse, non c’è trucco né inganno, solo metal estremo che alterna momenti death oriented a sfuriate hardcore (Skate Fear) e vanno a comporre un album da cantina fumosa, sperduta in qualche sobborgo della città britannica, tenendo fede alla sua natura di lavoro registrato in presa diretta.
Disaster Of Reality ha dalla sua l’esperienza dei musicisti coinvolti ed un’anima vera e per questo va rispettato: a molti forse apparirà come il solito album di una vecchia band dimenticata dal tempo, ma sono sicuro là fuori ci sia più d’uno che un lavoro del genere lo aspettava da tempo.

TRACKLIST
01. Justify
02. Mosh Injury
03. Crucified World
04. Realities of War
05. Skate Fear
06. Reality Pill
07. Dear Mother Earth
08. Dead Cities
09. Never Say Never Again
10. Felted Cross
11. Inside My Guts
12. (Untitled Mystery Track)

LINE-UP
Neil Hadden – Vocals
Chris Hatton – Guitars
Gregg Fellows – Guitars
Tony Warburton – Guitars
Nigel Joiner – Bass
Andy Baker – Drums

CEREBRAL FIX – Facebook

Haan – Sing Praises

Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Arie Haan era il mio calciatore preferito nell’Olanda anni ’70 dei fenomeni guidati da Johan Cruijff, quella nazionale capace di giocare un calcio stupefacente e sfrontatamente moderno senza riuscire, purtroppo, a vincere quel mondiale che avrebbe meritato.

Haan era il classico centrocampista di lotta e di governo, in grado di spezzare le trame avversarie ma anche di ricucire il gioco con piedi educati che erano capaci, soprattutto, di scagliare autentici missili verso la porta avversaria.
Non so se la band americana che porta come monicker il suo cognome ne conosca l’esistenza, mi piace però l’idea di accomunare il quartetto di Broooklyn a quel calciatore per  la maniera naif di interpretare un genere come lo sludge punk/noise che, se fosse già esistito negli anni ’70, sono convinto che sarebbe potuto essere una perfetta colonna sonora per il “soccer” giocato dai capelloni che vestivano la maglia arancione.
Così gli Haan ondeggiano tra corse furibonde (The Cutting, Shake the Meat), guidati dalla voce abrasiva di Chuck Berrett, ad aperture sotto forma di rallentamenti preparatori alle bordate rappresentate da riff ribassati e pesanti come macigni (War Dance).
I primi tre brani vengono esauriti in circa nove minuti, più o meno la durata equivalente della conclusiva Pasture/Abuela, titolo sghembo come una traccia che non fornisce punti di riferimento certi, se non un’immersione totale in una psichedelia capace di dilatare i suoni così come certe sostanze fanno con le pupille: questo è un pezzo che rappresenta il biglietto da vista perfetto per gli Haan, mettendone in luce tutto il notevole potenziale.
Del resto i ragazzi si sono guadagnati spazio da qualche anno nella scena newyorchese, ottenendo l’apprezzamento di gentaglia della risma di Eyehategod, Whores., Cancer Bats, e Black Tusk, per citare solo i nomi più conosciuti, e direi che il tutto non può essere affatto casuale.
Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Tracklist:
A1.The Cutting
A2.Shake the Meat
A3.War Dance
B1.Pasture / Abuela

Line-up:
Chuck Berrett – vocals
Jordan Melkin – guitar
Dave Maffei – bass
Christopher Enriquez – drums

HAAN – Facebook

Tactus – Bending Light

Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante.

Il progressive metal moderno dai rimandi estremi e core non fa più notizia, i gruppi che si dilettano con questa intricata e molte volte cervellotica musica non si contano più e così, finita la sorpresa, rimane la sola qualità a rendere un prodotto valido o meno.

Sulla tecnica niente da eccepire, i musicisti alle prese con il genere devono per forza avere qualcosa in più, manca molte volte però quel quid in più nelle idee proposte per non passare inosservati, in un mercato che non concede tempo per assimilare i vari prodotti, travolti dalle decine di uscite ogni giorno.
Prendete Bending Light, primo lavoro del gruppo canadese dei Tactus, un album ambizioso che del progressive metal moderno si nutre ma che, seppur suonato molto bene, a tratti appare caotico nel suo continuo cambio di sfumature ed atmosfere.
Si parte dal metal core come base per il sound, lo si seziona a dovere con scariche estreme ad iniziare dallo scream, molto presente ed in coppia fissa con le clean vocals, lo si imbastardisce con interventi jazzati e fughe progressive, pur mantenendo un mood estremo, ed il gioco è fatto.
Un album che gli amanti del genere potrebbero trovare gratificante per la propria voglia di cambi di ritmo, partiture all’apparenza inusuali e quella voglia di stupire che trova sfogo solo a tratti.
Bending Light, purtroppo, sa di già sentito e non parlo di influenze e ispirazione, ma di atmosfere ormai abituali ed abusate da tutti i gruppi del genere, e non basta l’ottima tecnica esibita per fare di un album un’opera da ricordare.
Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante, con una serie di brani incapaci di decollare e ripiegati su sé stessi, restando così appannaggio dei fans accaniti del genere.

TRACKLIST
1.Anamnesis
2.Aurora
3.Scimitar
4.All Roads
5.Feast or Famine
6.Colossus
7.Goliath
8.Cardinal
9.Red and Ivory
10.King of the Sky

LINE-UP
Jason McKnight – Vocals
Adrian Barnes – Guitar, Vocals
Alec Dobbelsteyn – Guitar
Ben MacLean – Drums
Steve Parish – Bass

TACTUS – Facebook

Árstíðir Lífsins – Heljarkviða

L’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Nuova uscita per una delle realtà più interessanti emerse nel decennio in corso in ambito black metal, anche se, come spesso accade, il confinare certe band al singolo genere appare riduttivo.

Gli Árstíðir Lífsins li abbiamo già commentati negli anni scorsi in occasione del precedente Ep (Þættir úr sǫgu norðrs) e dello split con gli Helrunar (Fragments – A Mythological Excavation): oggi tornano, dopo il terzo full length Aldafǫðr ok munka dróttinn, con questo altro Ep piuttosto corposo, essendo composto di due lunghe tracce di venti minuti ciascuna.
Le coordinate stilistiche sono sempre quelle di una musica che spazia dal folk, all’ambient, alla musica da camera, resa minacciosa dalle eccellenti sfuriate black condotte dalla voce dell’ottimo Marsél (Marcel Dreckmann,  ben conosciuto anche per il suo operato con Helrunar e Wöljager).
L’anima degli Árstíðir Lífsins è costituita da Árni, il quale caratterizza il sound con la sua consueta maestria nell’utilizzo degli strumenti ad archi, mentre il terzetto viene completato da un altro tedesco, il chitarrista/bassista Stefan (Kerbenok).
Árstíðir Lífsins è oramai divenuto, al di là del suo reale significato in islandese (le stagioni della vita), un sinonimo di qualità e Heljarkviða non fa certo eccezione; poi, personalmente, ritengo tutti i progetti che vedono coinvolto Dreckmann un qualcosa di irrinunciabile, in grado di elevare la musica a forma d’arte sublime.
Certo, le configurazioni sono diverse per stile e per intenti, ma la cura che viene immessa anche nella stesura dei testi rende ancor più speciali tutti questi lavori: non va trascurato quindi il concept lirico qui contenuto, trattandosi di un’efficace rilettura dei temi tipici della mitologia norrena, che trovano una colonna sonora ideale nelle partiture profonde e solenni degli Árstíðir Lífsins.
Da tre musicisti di simile livello è lecito attendersi sempre il massimo, e finora tali aspettative non sono mai andate deluse: l’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Tracklist:
1. Heljarkviða I: Á helvegi
2. Heljarkviða II: Helgrindr brotnar

Line-up:
Stefán – guitars, bass, vocals & choirs
Árni – drums, viola, keyboards, effects, vocals & choirs
Marsél – storyteller, vocals & choirs

ÁRSTÍÐIR LÍFSINS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=QDcdtAHFLns

Slechtvalk – Where Wandering Shadows and Mists Collide

Il gruppo torna a raccontare di epiche guerre ed eroi con Where Wandering Shadows and Mists Collide, un devastante esempio di metal estremo epico e con tutte le carte in regola per essere idolatrato dagli amanti di Amon Amarth e compagnia eroica.

Un ottimo lavoro incentrato su un melodic black metal epico, per molti conosciuto come viking metal, ma pur sempre di origine scandinava, anche se il gruppo in questione è un quintetto olandese.

Dall’impatto davvero impressionante, un muro invalicabile di epicità metallica, arriva il nuovo album dei guerrieri arancioni Slechtvalk, il quinto di una discografia iniziata all’alba del nuovo millennio con Falconry ed arrivata nel 2010 a quello che era l’ultimo parto, A Forlorn Throne.
Sono passati sei anni, dunque, e il gruppo torna a raccontare di epiche guerre ed eroi con Where Wandering Shadows and Mists Collide, un devastante esempio di metal estremo epico e con tutte le carte in regola per essere idolatrato dagli amanti di Amon Amarth e compagnia eroica.
Tastieroni a tappeto su ritmiche black, solos melodici che sprizzano epicità tanto quanto mid tempo che risultano marce verso una gloriosa morte a fil di spada, urla belluine tra growls e scream ed un impatto potente come una carica di truppe barbare contro il nemico nella bruma di prima mattina, dove il bianco della nebbia viene sporcato dal rosso porpora del caldo sangue cristiano: il ritorno del gruppo olandese non delude e si conquista il suo meritato posto al sole nelle uscite del genere negli ultimi mesi dello scorso anno.
Asternas, March To Ruin e Wandering Shadows vivono della furia metallica e dell’epicità che gli Slechtvalk sanno imprimere al proprio sound, i cori evocativi riecheggiano nella foresta, prima che il feroce scream detti i tempi della battaglia in un delirio di sangue e la gloriosa Wandering Shadows costringa la pelle ai brividi, non solo di freddo e paura, ma di emozione per un brano capolavoro, epico, oscuro ed esaltante e, probabilmente, il più vicino ai maestri Bathory.
La produzione è perfetta, il sound corposo e devastante, il songwriting sopra la media, in due parole … da avere.

TRACKLIST
1.We Are
2.Asternas
3.Betrayed
4.March to Ruin
5.Nemesis
6.Rise or Fall
7.The Shrouded Grief
8.Malagh Defiled
9.Wandering Shadows
10.Homebound

LINE-UP
Shamgar-vocals/guitars
Seraph-guitar
Grimbold-drums
Dagor-bass
Premnath-keys
Ohtar-(vocals – resigned from the live line-up in 2012, but still participates in songwriting and recordings)

SLECHTVALK – Facebook

Akasava – Nothing At Dawn

Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album vario e godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere

Stoner, classico, death e psichedelico sono solo alcune delle varianti con cui il doom si è affacciato nel nuovo millennio.

I transalpini Akasava, per esempio suonano doom classico, che pesca a suo modo dagli anni settanta (Black Sabbath) ma che non si ferma ad una mera trasposizione di quel verbo, aggiungendovi dosi letali di psichedelia ed epico heavy rock.
Formatosi in Normandia un paio di anni fa, e con l’ep Strange Aeons dello scorso anno come apripista, il gruppo francese ci presenta il suo primo full length, Nothing at Dawn, un monolite occulto e psichedelico dai buoni spunti e dall’ottimo songwriting.
Niente di così nuovo o originale, solo doom epico, che non manca però di far viaggiare l’ascoltatore tra le onde lisergiche di uno spartito che il gruppo maneggia con sufficiente disinvoltura.
Si passa quindi da brani più diretti (The Devil’s Tide), a jam liquide perse nel rock progressivo e psichedelico di una quarantina d’ anni fa (Pyramid’s Eyes), lenti e soffocanti episodi atmosfericamente a metà strada tra Pink Floyd e Sabbath (Zora The Traveller) e piccoli gioiellini stoner che tornano a far risplendere il sole nella Sky Valley (Solitude Of The Goat).
Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere, anche se non mancano spunti d’interesse anche per chi ne preferisce la parte più moderna e stoner.

TRACKLIST
1.Season of the Poet
2.The Devil’s Tide
3.Assembly of Fools
4.Pyramid’s Eyes
5.Zora the Traveller
6.Solitude of the Goat
7.Astral Truth
8.Nothing at Dawn

LINE-UP
Amélie Gavalda – Bass
David Touroul – Drums
Arnold Lucas – Guitars, Organ
Louis Hauguel – Vocals

AKASAVA – Facebook

Kzohh – Trilogy: Burn Out The Remains

Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”.

Gli ucraini Kzohh nascono nel 2014 quale unione tra membri di diverse band della scena black metal nazionale e, con Trilogy: Burn Out The Remains, chiudono quella che è, appunto, una trilogia dedicata alla peste.

Il marchio black metal che aleggia su questa band va preso assolutamente con le pinze, perché se è vero che si tratta del background musicale dei cinque musicisti (la cui iniziale dei rispettivi nickname va a formare l’anomalo monicker), questo lavoro si può associare del tutto al genere solo in alcuni passaggi del secondo brano Ñrom Conaill, episodio invero impressionante e che esprime al meglio le potenzialità dei Kzohh.
Le altre due tracce, al contrario, mostrano un volto ritual/ambient di sicuro fascino ma, per forza di cose, meno d’impatto, rendendo quest’ultima parte della trilogia la più ostica all’ascolto e, nel contempo, la più ambiziosa dal punto di vista compositivo.
Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”: i Kzohh propongono musica oscura alla quale riesce difficile dare una definizione precisa, facendola sembrare in diversi passaggi la vera e propria colonna sonora di uno dei peggiori incubi ai quali ogni tanto si è soggetti, anche se la caratteristica interlocutoria di molti di questi momenti ne rendono relativa l’appetibilità.
Ma, del resto, se i componenti di diverse band dedite al black metal si fossero riuniti per suonare a loro volta del black metal, sarebbe stato lecito pensare a qualcosa di riduttivo se non di superfluo: l’idea di musica proposta dai Kzohh è condivisibile e terrificante il giusto, anche se non appare sempre focalizzata al meglio. Probabilmente i dischi precedenti erano più lineari ed incisivi, pur se non scevri di passaggi sperimentali  nel loro ondeggiare tra il black ed il doom, ma anche Trilogy è senz’altro un’opera più che degna della massima attenzione.

Tracklist:
01. Panoukla DXLII
02. Ñrom Conaill
03. H19N18

Line-up:
Khorus – bass
Zhoth – vocals
Odalv – drums
Helg – guitars
Hyozt – guitars, keys and samples

KZOHH – Facebook

Ilemauzar – The Ascension

Un buon esempio di black metal, dai pochi ma utili rimandi al death, nelle cui vene scorre nero sangue scandinavo con gli ultimi Satyricon a fare da riferimento per il truce quartetto di Singapore.

Tra gli angoli bui di una Singapore glaciale, come il punto più remoto di una Scandinavia oscura e demoniaca, si aggira da una decina d’anni una creatura blasfema di nome Ilemauzar , quartetto di blacksters arrivato tramite la Transcending Obscurity al meritato debutto sulla lunga distanza.

Nato infatti nel 1996, il gruppo ha soli due demo nella propria discografia e giunge quindi con molta calma al full length ma, visti i risultati, direi che senz’altro il trascorrere del tempo non è stato un problema.
The Ascension infatti, risulta un buon esempio di black metal, dai pochi ma utili rimandi al death, nelle cui vene scorre nero sangue scandinavo con gli ultimi Satyricon a fare da riferimento per il truce quartetto di Singapore.
Mezz’ora di ritmiche che alternano veloci sfuriate a mid tempo scarni, richiamanti il sound del famoso gruppo norvegese, specialmente quello orchestrato nelle due opere più controverse del combo, Volcano e Now, Diabolical.
Tra oscurità e malvagità in musica, The Ascension segue così le coordinate del genere, con una produzione all’altezza, l’ottimo lavoro fatto dietro al microfono da Bloodcurse ed un sound che penetra nell’anima, senza bisogno di inutili orpelli, freddo e malvagio come l’ anima di Lucifero, estremo nelle sue atmosfere che mantengono un distacco ed una oscurità da brividi.
Ovviamente il sound risulta derivativo, ma se ci si concentra sulla musica l’album sa regalare attimi di black metal a tratti marziale  e sopra la media, con almeno un paio di brani notevoli come Temporis Obscuri e la conclusiva Reclamation.
Se siete amanti di questo tipo di black metal ed in particolare della musica dello storico duo norvegese, The Ascension è l’album che fa per voi.

TRACKLIST
1.Into the Shadow Realm (Adrian Von Ziegler)
2.The Dissolute Asumption
3.Ode to Apostasy
4.Temporis Obscuri
5.Nectar of Insanity
6.Relinquishing the Faith
7.Doctrine 68th
8.The Ascension of Bloodcurse
9.Reclamation

LINE-UP
Nivlek – Guitars
Asmodeus – Guitars
Maelstrom – Drums
Bloodcurse – Vocals

ILEMAUZAR – Facebook

FVNERALS – Wounds

Suoni plumbei e oppressivi, ma che affascinano e feriscono noi ascoltatori

L’ oscurità ammanta costantemente la nostra anima e i Fvnerals, con il loro Wounds, ce lo ricordano in ogni momento; sono emersi dalle terre albioniche in quel di Brighton nel 2013 con il singolo The Hours, bissato nel 2014 con il full The Light per poi pubblicare, dopo un ulteriore singolo (The Path nel 2015), questo pregevole gioiellino.

La loro arte si nutre di doom, funeral, ambient, post-rock, drone miscelata e dosata in un suono che appare atmosferico, profondo, oppressivo con la voce della cantante Tiffany a sublimare e ad accompagnare in modo inquietante questo viaggio; qui non sono eretti muri di suono distorti e non ci sono vocals stordenti e aggressive, ma tutto è più “subdolo”, un lento flusso di coscienza che scava lentamente nella nostra anima ferendola e accentuando a ogni ascolto un profondo senso di isolamento.
Anche il fatto che i sette brani, per un totale di circa quaranta minuti, siano legati e scivolino uno sull’altro serve a rendere più affascinante, misterioso e desolante il percorso, come nell’ultimo brano Where, introdotto da note lontane di piano, accompagnato da una desolata voce e levigato da tristi e disperate note di chitarra; un po’ la summa di tutto il lavoro, come l’ ultimo granello di sale cosparso sulla nostra lacerata anima. Ottimo lavoro da una giovane band che mi ha molto emozionato e che spero possa “colpire” altre anime “torturate”.

TRACKLIST
1. Void
2. Wounds
3. Shiver
4. Teeth
5. Crown
6. Antlers
7. Where

LINE-UP
Tiffany Strom – vocals,bass,synth
Syd Scarlet – guitar
Chris Cooper – drums

FVNERALS – Facebook

Diktatur – L’agonie d’un monde

Il lavoro offre una ventina di minuti di black di ottimo livello, rigorosamente cantato in francese con buona versatilità ed eseguito senza tentennamenti.

Band proveniente dalla parte dei Paesi Baschi ubicati nella nazione francese (Bayonne), i Diktatur si rifanno vivi, dopo un lungo silenzio seguito all’album d’esordio La Voie du Sang , con questo ep intitolato L’Agonie d’un Monde.

Forse anche per la particolare connotazione geografica, i nostri non si accodano alle tendenze più conosciute del black transalpino, laddove le pulsioni sperimentali vengono spinte talvolta fino all’eccesso: il genere, nell’interpretazione del terzetto è piuttosto diretto e tagliente, anche se non mancano spunti inconsueti come le spruzzate di elettronica nell’opener Comme un ombre e un mood tetro ed algido che conferisce al tutto un’aura particolare.
In generale il lavoro, uscito nel 2015 come autoproduzione, ma poi riedito dalla Melancholia Records all’inizio dello scorso anno, offre una ventina di minuti di black di ottimo livello, rigorosamente cantato in francese con buona versatilità ed eseguito senza tentennamenti. Notevole in particolare la title track, con la quale i Diktatur dimostrano di non essere solo delle incattivite macchine da guerra, grazie ad un brano che, tra mid tempo, accelerazioni ed un finale ambient, esplora vari aspetti del genere.
L’ep, per sua conformazione, fornisce un quantitativo di musica che consente di farsi un idea ma non del tutto esaustiva delle effettive capacità degli interpreti, però è evidente che, se ciò dovesse risultare propedeutico ad un’uscita su lunga distanza in tempi brevi, lascerebbe in eredità una cera curiosità nel vedere cosa sarà in grado di combinare il trio di Bayonne.
Per finire, un plauso alla frase che i nostri inseriscono in coda alle proprie note di presentazione biografiche: DIKTATUR does not support any political or philosophical current. Only music reigns supreme. Ecco, questo è esattamente ciò che si vorrebbe sempre leggere, specialmente in campo black metal …

Tracklist:
01 – Comme une Ombre
02 – L’Hérétique
03 – Par le Fer & le Feu
04 – L’Agonie d’Un Monde

Line-up:
Aizko – Guitares, Bass, Synthetizer & programming
Thorgis – Drums
Thsymgor – Voice

DIKTATUR – Sito

Diatonic – I Am The One

I Am The One è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.

Diatonic è il monicker scelto dal polistrumentista svedese Joakim Antman (Overtorture, The Ugly) per la sua creatura solista, un mostro che si nutre di death metal scandinavo, tra tradizione ed elementi moderni, elementi che si evincono in alcune ritmiche sostenute da un buon groove, che rendono il suono avvolgente, mentre il resto del sound viaggia sui binari dello swedish death.

Il secondo lavoro sulla lunga distanza per il musicista svedese, a distanza di un anno dal precedente Hidden Pieces, fornisce il segno di una certa creatività, almeno in questo periodo, per Antman, confermata da un lotto di brani molto ben curato, vari nelle ritmiche e solidi come un incudine.
Derivativo, ma ottimamente prodotto e alquanto agguerrito, I Am The One esce vincitore dall’ascolto per via dei suoi solos alquanto melodici, mentre la tensione rimane alta per tutta la sua durata: trentasette minuti di death metal, a tratti sfiorato da una vena classica che emerge dal lavoro della sei corde, sempre melodica ma tagliente, cangiante nelle sue atmosfere che passano con disinvoltura da repentine accelerazioni ad attimi di atmosferiche ed oscure parti dove un’anima prog prende il sopravvento.
Sono attimi di lucida follia espressiva, poi si riparte in quarta per toccare vette estreme destabilizzanti, con tracce che abbinano ferocia ed intimista oscurità.
Il growl è cattivo e tormentato, i brani che alzano il livello qualitativo sono quelli che più alternano gli elementi di cui si caratterizza la musica di Antman (notevoli a mio parere Hypocrite, la title track e le reminiscenze industrial della conclusiva Deceived) e che fanno di I Am The One un buon lavoro di death metal melodico moderno.
Buona la seconda dunque: il lavoro è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.

TRACKLIST
1.The Eyes
2.Kiss of Death
3.Replace the Numbers
4.Once More
5.Hypocrite
6.Game Piece
7.Fading
8.I Am the One
9.Deceived

LINE-UP
Joakim Antman – All instruments, Vocals

DIATONIC – Facebook

Lux Ferre – Excaecatio Lux Veritatis

Oscurità, intensità, credibilità e senso melodico, il tutto per di più eseguito con grande competenza: difficile fare meglio di quanto riuscito ai Lux Ferre con un album che, se fosse uscito originariamente nel 2016, sarebbe stato inserito sicuramente tra i migliori della nostra classifica del metal estremo.

Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, in Portogallo prospera e cresce già da tempo una scena black metal che, muovendosi dai meandri più reconditi del sottobosco underground, sta prendendo sempre più piede grazie all’operato di etichette coraggiose e band capaci di proporre in maniera fresca, genuina e mai scontata, un genere che continuerà ancora a lungo a disturbare le coscienze dei benpensanti.

Questo terzo full length dei Lux Ferre, band attiva da oltre tre lustri, è stato pubblicato alla fine del 2015 dalla Altare Productions per essere poi riedito nell’aprile del 2016, in formato cassetta, dalla War Productions (entrambe le label citate sono ovviamente lusitane).
Sul black metal offerto dal gruppo fondato dal vocalist Devasth c’è poco da eccepire, visto che Excaecatio Lux Veritatis è semplicemente uno dei migliori album ascoltati nel genere negli ultimi anni e, chi si aspetta una riproposizione calligrafica ed approssimativa di quanto già proposto in passato dai padri del genere, sbaglia e non poco; certo, la band portoghese non può che trarre linfa da quelle sonorità, ma sono l’intensità e la forza con la quale vengono scagliate sull’ascoltatore a fare la differenza.
Excaecatio Lux Veritatis tratta, come da copione, di temi (anti)religiosi, ma lo fa intanto utilizzando le liriche in portoghese, aspetto che rende ancor più intrigante l’album donandogli una diversa musicalità e, poi, per descrivere “la luce offuscante della verità”, utilizza un sound che più oscuro non si potrebbe, definibile “dark” nel senso più autentico del termine.
A Luz Ofuscante da Verdade, brano che apre l’album e che sarebbe, di fatto, la title track se il titolo fosse tradotto in latino, è un autentico capolavoro di arte nera, il manifesto sonoro di un gruppo di livello superiore alla media e che non ha nulla da invidiare ai più celebrati act nordeuropei; il resto di Excaecatio Lux Veritatis si mantiene incredibilmente sugli stessi livelli, chiudendo, in Sob o Véu da Ignorância, con accenni di ambient così come era iniziato, ed esibendo una tensione costante nel raccontare la terrificante, ma realistica visione della vita (e della morte) da parte di Devasth.
Oscurità, intensità, credibilità e senso melodico, il tutto per di più eseguito con grande competenza: difficile fare meglio di quanto riuscito ai Lux Ferre con un album che, se fosse uscito originariamente nel 2016, sarebbe stato inserito sicuramente tra i migliori della nostra classifica del metal estremo.

Tracklist:
A01 – A Luz Ofuscante da Verdade
A02 – Não Há Salvação
A03 – A Lenta Adaga da Morte
A04 – Caos no Meu Sangue
B01 – Canção da Loucura
B02 – Miséria
B03 – Mundo das Sombras
B04 – Sob o Véu da Ignorância

Line-up:
Devasth – vocals
Pestilens – rhythm guitar
Vilkacis – lead guitar
Vagantis – bass guitar
A. – drums

LUX FERRE – Facebook

Chalice Of Suffering – For You I Die

I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità.

Come già fatto in altri frangenti, la riedizione in diverso formato da parte un etichetta diversa ci ci offre l’occasione di riportare all’attenzione interessanti lavori usciti in tempi relativamente recenti e recensiti all’epoca per In Your Eyes.
Questa volta tocca ai Chalice Of Suffering, band del Minnesota autrice di un ottimo album di funeral doom atmosferico, con l’esordio intitolato For You I Die, edito nello scorso aprile in CD dalla russa GS Productions ed ora riproposto, nel sempre più diffuso e gradito formato in cassetta, dall’attiva label portoghese War Productions.

Il gruppo guidato da John McGovern (vocalist che, più che cantare, si esibisce in un semi recitato in stile Mythological Cold Towers) convince grazie ad un approccio diretto ed efficace, puntando su un lato melodico molto lineare ma sempre volto ad catturare l’attenzione dell’ascoltatore, avvolgendolo con un mood invero più malinconico che plumbeo.
I Chalice Of Suffering, in fondo, non fanno altro che assemblare con sapienza gli influssi principali del genere, attingendo per lo più alle sonorità novantiane (primi Anathema e My Dyng Bride) e ammorbidendole ulteriormente con una spiccata indole atmosferica.
For You I Die parte forte, mostrando subito il suo volto migliore con Darkness, brano dotato di armonie splendide che la band sfrutta a dovere piazzando a più riprese un assolo dal grande potenziale evocativo, per poi proseguire su questa falsariga, magari senza ritrovare quegli stessi spunti ma garantendo sempre uno standard elevato, specialmente in Who Will Cry e Screams Of Silence.
Subito dopo quest’ultimo brano si palesa un’improvvisa vena folk celtica, con le cornamuse che dominano la strumentale Cumha Do Mag Shamhrain, per arrivare poi all’incipit di Fallen, dove è invece il flauto ad introdurre una traccia piuttosto rarefatta, contraddistinta dal recitato in gaelico dello stesso suonatore di bagpipes, Kevin Murphy.
Void chiude un album ricco di contenuti e tutto sommato neppure troppo dispersivo, nonostante l’ora e tre quarti di durata, mostrando nuovamente il volto più canonico del death doom, questa volta sfruttando il buon growl dell’ospite Allen Towne.
I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità. Tutto sommato è apprezzabile l’ ortodossia nell’approcciarsi al funeral death doom melodico, al netto delle citate puntate nel folk di matrice celtica (un po’ fuori contesto per quanto gradevoli) e, trattandosi comunque di una band di nuovo conio, non si può che salutarne con favore questo disco d’esordio.

Tracklist:
1.Darkness
2.Who Will Cry
3.For You I Die
4.Alone
5.Screams Of Silence
6.Cumha Do Mag Shamhrain
7.Fade Away
8.Fallen
9.Void

Line-up:
John McGovern – Vocals, Lyrics
Will Maravelas – Guitars, Bass, Songwriting
Aaron Lanik – Drums
Robert Bruce – Tin Flute
Nikolay Velev – Keyboards, Guitars, Songwriting
Kevin Murphy – Bagpipes, Vocals (Gaelic)

Guest:
Allan Towne – Vocals

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Maze Of Sothoth – Soul Demise

Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.

Un’altra perla estrema made in Italy è pronta a risplendere nell’underground metallico e noi di MetalEyes non possiamo che farvi partecipi di cotanta violenza sonora.

Questa volta si tratta di death metal old school, tecnicamente ineccepibile ed esaltante nel suo ripercorrere le strade tracciate nel profondo sentiero degli inferi da Morbid Angel ed i loro seguaci.
Il gruppo protagonista di questi quaranta minuti circa di death metal d’alta scuola sono i bergamaschi Maze Of Sothoth, giovane quartetto nato nel 2009 dalla mente diabolica del chitarrista Fabio Marasco (ex Hiss Like The Damned).
Dopo il primo demo Guardian of the Gate, uscito nel 2011, ed uno split in compagnia di un nugolo di band estreme gravitanti nell’underground più oscuro (Molto Male Fest Vol.1, uscito lo scorso anno), la band licenzia il suo primo lavoro su lunga distanza tramite la Everlasting Spew Records, questo mastodontico Soul Demise che ha sicuramente nei Morbid Angel la sua principale fonte di ispirazione, ma che non manca di correre più veloce, trovando la sua via tramite scosse telluriche alla Nile e qualche ritmica slayerana.
L’atmosfera è di soffocante oscurità, anche nelle parti più violente la coltre di nebbia, dove vivono e si riproducono orrendi demoni, non lascia respiro: la velocità, molto spesso ai limiti, lascia talvolta spazio a mid tempo pesantissimi, mentre le chitarre urlano dolore sotto le torture di Marasco e di Riccardo Rubini.
La formazione viene completata dal maremoto ritmico composto da Cristiano Marchesi che, oltre a vomitare nefandezze al microfono si occupa del basso, e da Matteo Moioli alla batteria: Soul Demise si rivela così un esempio idelae di death metal old school, oscuro e mostruoso, da concedersi in tutta la sua estrema potenza senza perdere neanche una delle bordate che Lies, Multiple Eyes, l’accoppiata distruttiva The Dark Passenger – At The Mountain Of Madness, e  la conclusiva Divine Sacrifice sanno sparare.
Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.

TRACKLIST
1.Cthulhu’s Calling
2.Lies
3.Seed of Hatred
4.Multiple Eyes
5.The Outsider
6.The Dark Passenger
7.At the Mountain of Madness
8.Blind
9.Azzaihg’nimehc
10.Divine Sacrifice

LINE-UP
Fabio Marasco – Guitars, Synthesizers
Matteo Moioli – Drums
Cristiano Marchesi – Vocals, Bass
Riccardo Rubini – Guitars

MAZE OF SOTHOTH – Facebook

Et Moriemur – Ex Nihilo in Nihilum

Ristampa in vinile, a cura della Minotauro Records, di questo splendido album dei cechi Et Moriemur, risalente al 2014.

Con il loro secondo album, uscito nel 2014, i cechi Et Moriemur si sono dimostrati una tra le più interessanti realtà europee in ambito gothic-death doom; la riedizione dell’opera in vinile, curata dalla storica label italiana Minotauro Records, ci fornisce l’occasione per riproporre la recensione scritta a suo tempo per In Your Eyes.

Sea Of Trees, traccia inaugurale di Ex Nihilo in Nihilum, mostra subito di che (buona) pasta sono fatti i nostri, trattandosi di un brano che si avvale di un refrain piuttosto orecchiabile e che, per certi versi, potrebbe rivelarsi fuorviante in quanto il resto del disco, pur restando sempre piuttosto godibile, risulta senz’altro meno immediato.
La band praghese si abbevera a fonti comuni a chiunque si cimenti in questo genere, quindi My Dying Bride e Saturnus sono i due riferimenti principali che, però, gli Et Moriemur non scimmiottano bensì utilizzano quale punto di partenza per innestarvi la loro vena decadente, poetica e fornita della sufficiente dose di personalità.
Dai maestri danesi vengono attinti, oltre alle struggenti melodie chitarristiche, anche e soprattutto i passaggi recitati poggiati su base acustica o pianistica, mentre l’influsso della band di Stainthorpe risiede in particolare nell’attitudine romanticamente accorata, che prevale su ciò che, da altri, viene espresso tramite sonorità gonfie di dolore e disperazione.
Ex Nihilo in Nihilum non perde mai, quindi, la sua forte connotazione melodica ed è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, sintomo questo di un’indubbia profondità compositiva, ben sorretta peraltro dal lavoro eccellente dei singoli.
Oltre alla magnifica Liebeslied, sono soprattutto i due brani più lunghi del lotto, Nihil e Black Mountain, che forniscono la reale misura del valore della band ceca, brava ad introdurre diversi cambi di passo e di umore in grado di rendere avvincenti anche tracce come queste di durata consistente, pur sempre muovendosi nell’ambito di un gothic-death plumbeo e dai ritmi pacati.
Una prova eccellente questa degli Et Moriemur, band che possiede, a mio avviso, ulteriori margini di miglioramento: in particolare, un graduale affrancamento dai propri modelli stilistici, potrebbe portarli in un futuro prossimo a livelli molto vicini ai vertici del genere; già così, comunque, possiamo parlare a buon titolo di una realtà consolidata e di assoluto rilievo.

Tracklist:
1. Sea of Trees
2. Dissolving
3. Norwegian Mist
4. Liebeslied
5. Angst
6. Nihil
7. Le Choix
8. Black Mountain
9. Below

Line-up:
Zdeněk Nevělík – Vocals
Aleš Vilingr – Guitars
Honza Vaněk – Guitars
Karel “Kabrio” Kovařík – Bass
Michal “Datel” Rak – Drums

ET MORIEMUR – Facebook

Beyond The Black – Lost In Forever

Vedremo se i Beyond The Black diventeranno davvero la new sensation del metal europeo, nel frattempo Lost In Forever risulta un album ottimo per ascoltare musica deliziosamente metallica senza impegnarsi troppo.

Questi cinque ragazzi che con i loro strumenti accompagnano la giovanissima sirena Jennifer Haben, ex artista pop con la precedente band (Saphir), senza avere ancora un album all’attivo nel 2014 salivano, per la prima delle tre volte, sul palco del Wacken Open Air, forti di un contratto firmato con la Airforce1 Records, costola della major Universal.

Lo scorso anno nientemeno che Sascha Paeth (Heaven’s Gate, Avantasia) produsse il debutto, Songs of Love and Death, ed ora siamo già al secondo album, sempre con la poderosa spinta della Universal, intitolato Lost In Forever.
E ammettiamolo, perdersi per sempre tra le trame sinfoniche dei Beyond The Black è un attimo: anche questo secondo album, infatti, ha tutto per portare il nome del gruppo negli ambienti altolocati del metal patinato e da classifica.
La giovane età della singer, dal tono vocale da teenager che attira inevitabilmente le attenzioni delle sue emuli coetanee, abbinata ad un sound sinfonico in bilico tra il metal power dei Rhapsody meno pomposi e le melodie pop gotiche degli Evanescence, accentuano la sensazione di un gruppo dal successo pianificato, anche se, al netto di qualche difetto nel songwriting che sa molto di già sentito, la produzione cristallina e gli arrangiamenti orchestrali sono un bel sentire anche per gli appassionati più attempati.
Tutto funziona in questo lavoro, un album composto da hit metal melodici, sinfonici, pacatamente gotici, drammatici il giusto ed epici quel tanto che basta per far alzare più di un pugno al cielo ai ragazzi del centro Europa e non solo, visto che, a parte il nostro paese, la band ha ovviamente trovato una buona posizione nelle varie classifiche rock.
Dall’opener Lost In Forever, alla splendida Beautiful Lies per passare direttamente all’ epicità rhapsodiana della fenomenale Dies Irae, Lost In Forever è un riuscito esempio di metal sinfonico composto con lo scopo ben preciso di piacere a più persone possibili, dimostrandosi ruffiano, potente e, diciamolo pure, cantato molto bene.
Vedremo se i Beyond The Black diventeranno davvero la new sensation del metal europeo, nel frattempo Lost In Forever risulta un album ottimo per ascoltare musica deliziosamente metallica senza impegnarsi troppo.

TRACKLIST
01. Lost In Forever
02. Beautiful Lies
03. Written In Blood
04. Against The World
05. Beyond The Mirror
06. Halo Of The Dark
07. Dies Irae
08. Forget My Name
09. Burning In Flames
10. Nevermore
11. Shine And Shade
12. Heaven In Hell
13. Love’s A Burden

LINE-UP
Jennifer Haben – lead vocals
Nils Lesser – lead guitar
Christopher Hummels – rhythm guitar & backing vocals
Erwin Schmidt – bass
Tobias Derer – drums
Michael Hauser – keyboards

BEYOND THE BLACK – Facebook

1914- Eschatology of War/Für Kaiser, Volk und Vaterland

Dischi molto belli, dove vengono scandagliate le assurdità della guerra, ma soprattutto le tante assurdità della nostra vita, attraverso una ricerca storica e musicale imponente e molto affascinante.

Ristampa per l’ep e l’album di debutto per questo gruppo ucraino che, con Eschatology Of War, pubblica uno dei migliori concept album mai fatti sulla prima guerra mondiale.

Dalle cariche degli Arditi italiani, ai bombardamenti degli Zeppelin passando per l’Impero Ottomano, questo disco offre una visione differente e molto aderente di ciò che è stato uno dei peggiori massacri della storia. Dietro alla patina retrò ed elegante della propaganda, a milioni cadevano in fronti davvero estremi, a causa di battaglie che si risolvevano in corpi a corpi ancestrali, o uccisi dal gas o travolti dalle bombe. In Europa quasi ogni famiglia contava un reduce o un caduto al fronte, io stesso avevo un parente che visse fino alla morte con una pallottola nel torace, ricordo di una battaglia in Trentino. I 1914 fanno un genere tutto loro, che si situa tra il black ed il death, ma li supera entrambi, andando oltre il war metal, per entrare direttamente nei nostri cuori e nelle nostre menti. Con i 1914 siamo direttamente nel campo di battaglia, con il loro fantastico metal che spazia anche nel doom o nello sludge, a seconda dei momenti ma soprattutto delle esigenze emotive. Insieme a questa ristrampa troviamo anche il primo ep del gruppo, ormai introvabile, che dà una cifra precisa della loro bravura e del loro particolare stile, annoverando anche una cover molto molto particolare di Something On The Way dei Nirvana. Dischi molto belli, dove vengono scandagliate le assurdità della guerra, ma soprattutto le tante assurdità della nostra vita, attraverso una ricerca storica e musicale imponente e molto affascinante. Se andate nella loro pagina facebook troverete materiale molto interessante sulla prima guerra mondiale.

TRACKLIST
CD1: “Eschatology of war”
1. War In
2. Gasmask
3. Frozen in Trenches (Christmas Truce)
4. Verdun
5. Caught in the Crossfire
6. Zeppelin Raids
7. Ottoman Rise
8. Arditi
9. Battlefield
10. War Out

CD2: “Für Kaiser, Volk und Vaterland!”
1. An Meine Völker! (intro)
2. Karpathenschlacht (Dezember 1914 – März 1915)
3. 8 × 50 mm. Repetiergewehr M.95
4. Gas mask (Eastern front rmx by Solar Owl)

Trench mud outtakes
5. Caught in the Crossfire (trench demo 2014)
6. Frozen in Trenches (trench demo 2014)
7. Zeppelin Raids (trench demo 2014)
8. Zeppelin Raids (Western front rmx by ✞ λ₴MѺÐ∆I ✞)
9. Something in the way (Nirvana cover, Schlacht an der Somme version)
10. Preparing for the Next War (outro)

1914 – Facebook

Blacksmoker – Rupture

Un album davvero convincente per chi non è mai sazio di ascoltare stoner/sludge.

Secondo full length per i tedeschi Blacksmoker, band formata da musicisti esperti e provenienti da diverse realtà della scena sludge/stoner teutoinica.

Rupture non è un lavoro che si perde in preamboli, e l’ottima title track è l’idale biglietto da visita, utile a far comprendere che la reazione nei confronti di ciò che non funziona al meglio nella società odierna si può esplicitare anche attraverso una musica senz’altro robusta, ma mai scevra di un certo groove unito ad un buon impatto melodico.
Infatti, se di sludge possiamo parlare a buon titolo, quello dei Blacksmoker è più virato verso lo stoner e all’heavy metal, in tal senso prossimo alla scuola americana, piuttosto che orientato ai plumbei rallentamenti o alla e ruvidità dell’hardcore che sono spesso insiti nella scuola europea.
I ritmi così sono per lo più sostenuti e i brani sono quasi sempre provvisti di chorus memorizzabili, tra i quali spicca senza’altro la magnifica Ouroboros 68, con tanto di riuscito assolo chitarristico di matrice heavy.
Rupture è un opera avvincente dal primo all’ultimo minuto, grazie ad una scrittura lineare che, difficilmente, si perde in rivoli sperimentali o rumoristici, i quali vengono sapientemente confinati nella traccia conclusiva Room 101, certamente diversa rispetto al resto della tracklist ma non per questo di livello inferiore.
La sensazione è che i Blacksmoker siano una potenziale macchina da guerra dal vivo, in virtù del loro approccio pesante quanto diretto, e sono convinto i muri sonori che il quartetto di Wurzburg appare in grado di erigere con buona continuità mieteranno dievrse vittime.
Un album davvero convincente per chi non è mai sazio di ascoltare stoner/sludge.

Tracklist:
1. Rupture
2. Herorizer
3. Ouroboros 68
4. Huntress
5. Neglect
6. Undefeated
7. Dark Harvest
8. Pariah
9. Ghost
10. Room 101

Line-up:
Sven Liebold – Vocals, Bass
Marco Reuß – Guitar, Vocals
Boris Bilic – Guitar, Vocals
Tobias Anderko – Drums

BLACKSMOKER – Facebook

Vesen – Rorschach

Thrash metal agguerrito e senza compromessi in arrivo dalla penisola scandinava, precisamente dalla Norvegia e dalla sua capitale Oslo.

Il trio in questione si chiama Vesen, attivo dall’ultimo anno dello scorso secolo, con già quattro album all’attivo di cui l’ultimo datato 2012 (This Time It’s Personal).
Descritta come gruppo black/thrash, la band scandinava in realtà è una tipica macchina da guerra thrash metal, influenzata dal sound teutonico, in primis dai maestri Sodom.
Rorschach è  il classico album old school senza compromessi, valorizzato da un’ottima produzione e potenziato da scariche adrenaliniche e terremotanti di metallo da battaglia, oscuro quel tanto che basta per vomitare malignità e terrore.
Ottime le ritmiche, potenti come uno schiacciasassi, la voce cattivissima è forse, a tratti, l’unica concessione al black metal, mentre le atmosfere guerresche e i pochi interventi solistici fanno dell’album un monolite di metallo estremo dal forte impatto.
Il songwriting mantiene il livello dei brani su una buona media, anche se le tracce alla fine tendono ad assomigliarsi un po’ troppo l’una all’altra.
Niente di clamoroso dunque, ma la serie centrale di brani come Screaming Sane, Crown of Scars e Vulgar, Old and Sick Blasphemy farà sicuramente la gioia dei thrashers di lungo corso dai gusti teutonici.

TRACKLIST
1. Damnation Path
2. Pray for Fire
3. Target: Horizon
4. Blood, Bones and Pride
5. Screaming Sane
6. Crown of Scars
7. Vulgar, Old and Sick Blasphemy
8. All in Vain
9. Away the Tormentor
10. Final Insult

LINE-UP
Dag Olav Husås – Drums
Ronny Østli – Guitars, Vocals
Thomas Ljosåk – Guitars, Vocals

VESEN – Facebook

Voodoo Terror Tribe – The Sun Shining Cold

In generale l’album si fa ascoltare, ma è poco per una band con l’esperienza dei Voodoo Terror Tribe, realtà posizionata nelle seconde linee del metal alternativo made in U.S.A. e destinata a restarci, a giudicare da questo ultimo lavoro.

Tornano con un nuovo lavoro sulla lunga distanza gli statunitensi Voodoo Terror Tribe, da più di dieci anni in pista con il loro industrial metal ruffiano, tra gli ultimi scampoli di un nu metal da classifica e sonorità alternative che negli States continuano a fare il bello e cattivo tempo sul mercato.

Aiutato da Christian Machado degli Ill Nino, con cui hanno condiviso l’ultimo tour e che ha curato loro la produzione ed il mixing, oltre ad apparire come ospite sul brano Cell, il gruppo capitanato dal chitarrista Emir Erkal, originario di Istanbul ma trapiantato in America, dà vita ad un album che non va più in là del compitino, tra rabbiose sfuriate estreme di matrice industrial, melodie rock dai drammatici toni alternative e poche idee.
Insomma, un album di maniera, con qualche brano dall’ottimo appeal e perfetto per provare ad uscire nel circuito mainstream, ed altri che si fanno più rabbiosi e non dispiacciono, ma mancano della scintilla per entrare nei cuori degli ormai pochi appassionati di nu metal sparsi per un’America che guarda, ancora per poco, al metalcore ed un’Europa che fa spallucce, a meno che non ti chiami Korn.
The Sun Shining Cold è un album di genere che potrebbe piacere ai fans dei Disturbed, tornati a fare male con l’ultimo lavoro e scoperti dai giovani kids con la fortunata cover di The Sound Of Silence, e proprio di questo manca a quest’album, di un singolo che spinga con la forza di un wrestler i dieci brani in scaletta che trovano nella mansoniana Pussy, nel devastante singolo in compagnia di Machado e nella seguente e hard rock No Hell Like Home i momenti migliori.
In generale l’album si fa ascoltare, ma è poco per una band con l’esperienza dei Voodoo Terror Tribe, realtà posizionata nelle seconde linee del metal alternativo made in U.S.A. e destinata a restarci, a giudicare da questo ultimo lavoro.

TRACKLIST
1.Lady in The Wall
2.City of Sixes
3.Burn More Bridges
4.Cell
5.No Hell Like Home
6.Edge of Within
7.Night Wolf
8.Pussy
9.Die to The Din of The Drums
10.Under The Knife

LINE-UP
Gil Pan Zastor – Vocals & Sampling
Emir Erkal – Guitars & Synths
Primer – Bass
T-Bone – Drums

VOODOO TERROR TRIBE – Facebook