Heather Wasteland – Under The Red Wolfish Moon

Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva, ma ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato.

Gli ucraini Heather Wasteland erano una delle band incluse nella compilation Mister Folk, della quale abbiamo parlato qualche settimana fa, ed oggi abbiamo l’opportunità di esaminare il loro operato in maniera più ampia, tramite l’ep d’esordio intitolato Under The Red Wolfish Moon.

Va detto subito che il quartetto originario della Crimea è anomalo in tutti i sensi, incluso quello del teorico genere d’appartenenza: basti pensare che la line up consta di un batterista e tre bassisti, rispettivamente alle prese con lo strumento nella versione a 4, 5 e 6 corde; a quest’ultimo è affidato il compito di arricchire il sound creando le parti di tastiera ed archi tramite un pick up collegato ad un guitar-synth della Roland.
Balza subito all’orecchio che la rinuncia a voce e chitarra potrà costituire un problema per la fruizione immediata del lavoro, anche se va detto che i nostri se la cavano davvero bene, sopperendo a queste volontarie lacune con un sound sufficientemente dinamico ed originale.
Più che folk metal, a tratti, gli Heather Wasteland si spingono verso una forma di musica medievaleggiante e barocca che il triplo basso rende assolutamente peculiare (un titolo come Venice – Barocco Veneziano è abbastanza eloquente, in tal senso).
E’ anche vero, d’altra parte, che la durata ridotta agevola la fruizione , che altrimenti alla lunga potrebbe risultare più difficoltosa, ma in ogni caso Under The Red Wolfish Moon si rivela una prova interessante, anche per i numerosi riferimenti storici contenuti nel libretto che, nel rievocare la storia della parte meridionale della Crimea, finiscono peraltro per richiamare alla memoria una parte importante della storia marinara del nostro paese, che vede la mia Genova ritornare ad essere La Superba e non l’attuale vertice smussato di quello che fu il cosiddetto triangolo industriale.
Under The Red Wolfish Moon è un’opera che, in certi momenti, si fa notare più per l’originalità ed il coraggio delle scelte che non per la resa effettiva e dubito che possa soppiantare nelle preferenze degli appassionati gli album di folk metal, per così dire, più tradizionali; ciò non significa che l’operato degli Heather Wasteland debba essere ignorato o ancor peggio sottovalutato, perché questo quattro simpatici ed audaci “cimmeri”, hanno tutte le potenzialità per sorprenderci ulteriormente in futuro, dopo questo già interessante assaggio del loro “heretical folk”.

Tracklist:
I – Tre Sverd
II – Under The Red Wolfish Moon
III – Venice (Barocco Veneziano)
IV – Beltane (Intro) / Wicker Man
V – Under The Red Wolfish Moon (Single Edit)

Line-up:
Anatoliy Polovnikov – drums
Sergey AR Pavlov – 4-string bass
Andrey “SLN” Anikushin – 5-string bass
Alexander Vetrogon – 6-string bass

HEATHER WASTELAND – Facebook

Sinatras – Drowned

Il gruppo fondato da Emanuele Zilio, composto da musicisti dalla provata esperienza, non solo conferma quanto di buono era stato fatto con il precedente lavoro ma, passando al livello successivo, offre agli amanti del genere un gioiello di death metal contaminato da rock ‘n’ roll.

Il 2017 si annuncia come anno di ritorni e conferme nella scena underground nazionale, le prime avvisaglie arrivate sul finire dello scorso anno e un inizio scoppiettante in questi primi giorni del nuovo, fanno pensare ad un’altra ottima annata per il metal tricolore.

Puntuale, la famiglia Logic Il Logic/Atomic Stuff immette sul mercato il primo lavoro sulla lunga distanza dei Sinatras, gruppo vicentino apparso sulle pagine di Iyezine nel 2015, quando il primo ep di sei brani (Six Sexy Songs) diede il buongiorno agli amanti del death ‘n’ roll.
Il gruppo fondato da Emanuele Zilio, composto da musicisti dalla provata esperienza, non solo conferma quanto di buono era stato fatto con il precedente lavoro ma, passando al livello successivo, offre agli amanti del genere un gioiello di death metal contaminato da rock ‘n’ roll, scariche adrenaliniche di groove e leggermente stonerizzato, quel tanto che basta per sfondare crani e non solo a chi con queste sonorità si sazia abitualmente.
Drowned, infatti ha nel songwriting l’arma in più per lasciare a terra decine di cadaveri travolti dall’impatto irresistibile dei brani in scaletta, che non scendono mai neppure per sbaglio sotto l’eccellenza.
Come scritto in sede di recensione dell’ep, il sound dei nostri risulta un mix tra gli Entombed dello storico Wolverine Blues ed i Pantera, il tutto centrifugato a pazza velocità con dosi letali di groove ed una predisposizione per il rock’n’roll che, per impatto ed attitudine, non possono che far pensare al compianto Lemmy ed i suoi Motorhead.
La title track parte come un razzo Acme alla ricerca di Beep Beep e l’esplosione di note continua per tutta la durata del disco, con 24/7 studiata per fare male in sede live, Something to Hate che sfodera ritmiche da infarto, e la pazzesca cover di You Spin Me Round dei Dead Or Alive, qui chiamata You Spin Me Round (Like A Record), la velocissima ed irriverente Miss Anthropy e la conclusiva Spiral Hell, ma è tutto l’album, come detto, che si rivela nel genere un lavoro perfetto.
Nella scena attuale l’unica band che mi sento di paragonare a questi fenomenali Sinatras sono i genovesi Killers Lodge, a formare una coppia d’assi di un modo di fare musica estrema che viene sicuramente enfatizzata dal talento dei musicisti coinvolti.

TRACKLIST
1. Drowned
2. 24/7
3. Cockroach
4. Something To Hate
5. Flow
6. You Spin Me Round) (Like A Record
7. Los 43
8. Miss Anthropy
9. Back In Frank
10. Blind Fury
11. Spiral Hell

LINE-UP
Fla Sinatra – Vocals
Lele Sinatra – Guitars
Minkio Sinatra – Guitars
Lispio Sinatra – Bass
Pisto Sinatra – Drums

SINATRAS – Facebook

STRANA OFFICINA

Il video di The Wolf Within, tratto dall’album in uscita nel corso del 2017.

Il video di The Wolf Within, tratto dall’album in uscita nel corso del 2017.

Quando si parla di storia del Metal italiano non si può non pensare a la Strana Officina. Fondata ormai più di 40 anni fa dai fratelli Roberto e Fabio Cappanera insieme ad Enzo Mascolo, la band dal 2006 è tornata a incendiare i palchi italiani, pubblicando inoltre The Faith nel 2007 e Rising To The Call nel 2010. Il nuovo album è quasi pronto, ma c’è ancora il tempo per alcune ultime date a supporto della biografia Batti Il Martello uscita a fine 2015.

Uno degli appuntamenti imperdibili sarà quello di sabato 7 gennaio al Legend Club di Milano, che segna il ritorno della Strana nel capoluogo lombardo. Durante il concerto verrà presentato il nuovo brano “The Wolf Within” che sarà incluso nel nuovo album in uscita nel 2017. Non mancheranno ovviamente i classici come Autostrada Dei Sogni, Non Sei Normale, Officina e i brani più recenti come In Rock We Trust, Boogeyman e Beat The Hammer.

L’attuale line-up della band vede al comando Enzo Mascolo e Daniele “Bud” Ancillotti insieme a Rolando “Rola” Cappanera e Dario “Kappa” Cappanera.

STRANA OFFICINA
Sabato 7 Gennaio Live @ Legend Club Milano
Special Guest: The Price + V-Anger
Ingresso 10€
Evento FB

www.baganarock.com

https://www.youtube.com/watch?v=OoM06H3PCh8&feature=youtu.be

Cerebral Fix – Disaster Of Reality

Si torna indietro di molti anni con i Cerebral Fix, tornati sul mercato tramite la Xtreem con questo nuovo lavoro fatto di death scarno e dallo spirito hardcore.

Si torna indietro di molti anni con i Cerebral Fix, tornati sul mercato tramite la Xtreem con questo nuovo lavoro fatto di death scarno e dallo spirito hardcore.

Il gruppo britannico fece parte di quella scena che, a cavallo tra il decennio ottantiano e quello successivo, imperversò nel mondo metallico estremo capitanato da nomi storici come Bolt Thrower e Napalm Death.
Pur essendo meno famosi dei loro compagni di merende a base di musica violenta e senza compromessi, il loro approccio si differenziava non poco, con un’anima crossover che aleggiava sulla musica tra potenza death metal ed impatto hardcore.
Una discografia composta da lavori minori ed una manciata di full length, tutti licenziati tra il 1988 ed il 1992, poi un lungo silenzio fino ad un paio di anni fa e l’uscita di uno split in compagnia dei Selfless, era l’eredità lasciata dallo storico gruppo, fino ad oggi e a questo Disaster of Reality.
Della formazione storica sono rimasti in tre: Gregg Fellows e Tony Warburton alle chitarre e Andy Baker alle pelli, raggiunti da altri tre energumeni che corrispondono a Neil Hadden (voce), Chris Hatton (chitarra) e Nigel Joiner al basso, così da formare un combo di sei musicisti estremi con tanta voglia di spaccare a modo loro, cioè senza compromessi, assolutamente fuori da trend e modus operandi prestabiliti e con un’attitudine old school quasi commovente.
Disaster Of Reality è un lavoro basato tutto sull’impatto, con una serie di brani che risultano pugni nello stomaco, essenziali, violenti e in presa diretta.
Quello che esce dagli strumenti dei Cerebral Fix è ciò che sentite debordare dalle vostre casse, non c’è trucco né inganno, solo metal estremo che alterna momenti death oriented a sfuriate hardcore (Skate Fear) e vanno a comporre un album da cantina fumosa, sperduta in qualche sobborgo della città britannica, tenendo fede alla sua natura di lavoro registrato in presa diretta.
Disaster Of Reality ha dalla sua l’esperienza dei musicisti coinvolti ed un’anima vera e per questo va rispettato: a molti forse apparirà come il solito album di una vecchia band dimenticata dal tempo, ma sono sicuro là fuori ci sia più d’uno che un lavoro del genere lo aspettava da tempo.

TRACKLIST
01. Justify
02. Mosh Injury
03. Crucified World
04. Realities of War
05. Skate Fear
06. Reality Pill
07. Dear Mother Earth
08. Dead Cities
09. Never Say Never Again
10. Felted Cross
11. Inside My Guts
12. (Untitled Mystery Track)

LINE-UP
Neil Hadden – Vocals
Chris Hatton – Guitars
Gregg Fellows – Guitars
Tony Warburton – Guitars
Nigel Joiner – Bass
Andy Baker – Drums

CEREBRAL FIX – Facebook

Haan – Sing Praises

Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Arie Haan era il mio calciatore preferito nell’Olanda anni ’70 dei fenomeni guidati da Johan Cruijff, quella nazionale capace di giocare un calcio stupefacente e sfrontatamente moderno senza riuscire, purtroppo, a vincere quel mondiale che avrebbe meritato.

Haan era il classico centrocampista di lotta e di governo, in grado di spezzare le trame avversarie ma anche di ricucire il gioco con piedi educati che erano capaci, soprattutto, di scagliare autentici missili verso la porta avversaria.
Non so se la band americana che porta come monicker il suo cognome ne conosca l’esistenza, mi piace però l’idea di accomunare il quartetto di Broooklyn a quel calciatore per  la maniera naif di interpretare un genere come lo sludge punk/noise che, se fosse già esistito negli anni ’70, sono convinto che sarebbe potuto essere una perfetta colonna sonora per il “soccer” giocato dai capelloni che vestivano la maglia arancione.
Così gli Haan ondeggiano tra corse furibonde (The Cutting, Shake the Meat), guidati dalla voce abrasiva di Chuck Berrett, ad aperture sotto forma di rallentamenti preparatori alle bordate rappresentate da riff ribassati e pesanti come macigni (War Dance).
I primi tre brani vengono esauriti in circa nove minuti, più o meno la durata equivalente della conclusiva Pasture/Abuela, titolo sghembo come una traccia che non fornisce punti di riferimento certi, se non un’immersione totale in una psichedelia capace di dilatare i suoni così come certe sostanze fanno con le pupille: questo è un pezzo che rappresenta il biglietto da vista perfetto per gli Haan, mettendone in luce tutto il notevole potenziale.
Del resto i ragazzi si sono guadagnati spazio da qualche anno nella scena newyorchese, ottenendo l’apprezzamento di gentaglia della risma di Eyehategod, Whores., Cancer Bats, e Black Tusk, per citare solo i nomi più conosciuti, e direi che il tutto non può essere affatto casuale.
Meno di venti minuti non sono mai esaustivi ma possono fornire ben più di una fugace impressione sul valore di una band: non resta, quindi, che attendere gli Haan ad una risposta di durata più consistente, ma sul fatto che facciano molto male credo non sussistano dubbi.

Tracklist:
A1.The Cutting
A2.Shake the Meat
A3.War Dance
B1.Pasture / Abuela

Line-up:
Chuck Berrett – vocals
Jordan Melkin – guitar
Dave Maffei – bass
Christopher Enriquez – drums

HAAN – Facebook

Tactus – Bending Light

Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante.

Il progressive metal moderno dai rimandi estremi e core non fa più notizia, i gruppi che si dilettano con questa intricata e molte volte cervellotica musica non si contano più e così, finita la sorpresa, rimane la sola qualità a rendere un prodotto valido o meno.

Sulla tecnica niente da eccepire, i musicisti alle prese con il genere devono per forza avere qualcosa in più, manca molte volte però quel quid in più nelle idee proposte per non passare inosservati, in un mercato che non concede tempo per assimilare i vari prodotti, travolti dalle decine di uscite ogni giorno.
Prendete Bending Light, primo lavoro del gruppo canadese dei Tactus, un album ambizioso che del progressive metal moderno si nutre ma che, seppur suonato molto bene, a tratti appare caotico nel suo continuo cambio di sfumature ed atmosfere.
Si parte dal metal core come base per il sound, lo si seziona a dovere con scariche estreme ad iniziare dallo scream, molto presente ed in coppia fissa con le clean vocals, lo si imbastardisce con interventi jazzati e fughe progressive, pur mantenendo un mood estremo, ed il gioco è fatto.
Un album che gli amanti del genere potrebbero trovare gratificante per la propria voglia di cambi di ritmo, partiture all’apparenza inusuali e quella voglia di stupire che trova sfogo solo a tratti.
Bending Light, purtroppo, sa di già sentito e non parlo di influenze e ispirazione, ma di atmosfere ormai abituali ed abusate da tutti i gruppi del genere, e non basta l’ottima tecnica esibita per fare di un album un’opera da ricordare.
Le ottime parti in cui i Tactus abbandonano per pochi minuti il progressive core, dando sfogo alla loro voglia di musica totale, sono troppo poco per fare di Bending Light un disco interessante, con una serie di brani incapaci di decollare e ripiegati su sé stessi, restando così appannaggio dei fans accaniti del genere.

TRACKLIST
1.Anamnesis
2.Aurora
3.Scimitar
4.All Roads
5.Feast or Famine
6.Colossus
7.Goliath
8.Cardinal
9.Red and Ivory
10.King of the Sky

LINE-UP
Jason McKnight – Vocals
Adrian Barnes – Guitar, Vocals
Alec Dobbelsteyn – Guitar
Ben MacLean – Drums
Steve Parish – Bass

TACTUS – Facebook

Árstíðir Lífsins – Heljarkviða

L’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Nuova uscita per una delle realtà più interessanti emerse nel decennio in corso in ambito black metal, anche se, come spesso accade, il confinare certe band al singolo genere appare riduttivo.

Gli Árstíðir Lífsins li abbiamo già commentati negli anni scorsi in occasione del precedente Ep (Þættir úr sǫgu norðrs) e dello split con gli Helrunar (Fragments – A Mythological Excavation): oggi tornano, dopo il terzo full length Aldafǫðr ok munka dróttinn, con questo altro Ep piuttosto corposo, essendo composto di due lunghe tracce di venti minuti ciascuna.
Le coordinate stilistiche sono sempre quelle di una musica che spazia dal folk, all’ambient, alla musica da camera, resa minacciosa dalle eccellenti sfuriate black condotte dalla voce dell’ottimo Marsél (Marcel Dreckmann,  ben conosciuto anche per il suo operato con Helrunar e Wöljager).
L’anima degli Árstíðir Lífsins è costituita da Árni, il quale caratterizza il sound con la sua consueta maestria nell’utilizzo degli strumenti ad archi, mentre il terzetto viene completato da un altro tedesco, il chitarrista/bassista Stefan (Kerbenok).
Árstíðir Lífsins è oramai divenuto, al di là del suo reale significato in islandese (le stagioni della vita), un sinonimo di qualità e Heljarkviða non fa certo eccezione; poi, personalmente, ritengo tutti i progetti che vedono coinvolto Dreckmann un qualcosa di irrinunciabile, in grado di elevare la musica a forma d’arte sublime.
Certo, le configurazioni sono diverse per stile e per intenti, ma la cura che viene immessa anche nella stesura dei testi rende ancor più speciali tutti questi lavori: non va trascurato quindi il concept lirico qui contenuto, trattandosi di un’efficace rilettura dei temi tipici della mitologia norrena, che trovano una colonna sonora ideale nelle partiture profonde e solenni degli Árstíðir Lífsins.
Da tre musicisti di simile livello è lecito attendersi sempre il massimo, e finora tali aspettative non sono mai andate deluse: l’ascolto attento di Heljarkviða è un altro passo fondamentale da compiere per chi vuole approfondire la conoscenza con musica che travalica le definizioni di genere.

Tracklist:
1. Heljarkviða I: Á helvegi
2. Heljarkviða II: Helgrindr brotnar

Line-up:
Stefán – guitars, bass, vocals & choirs
Árni – drums, viola, keyboards, effects, vocals & choirs
Marsél – storyteller, vocals & choirs

ÁRSTÍÐIR LÍFSINS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=QDcdtAHFLns

Slechtvalk – Where Wandering Shadows and Mists Collide

Il gruppo torna a raccontare di epiche guerre ed eroi con Where Wandering Shadows and Mists Collide, un devastante esempio di metal estremo epico e con tutte le carte in regola per essere idolatrato dagli amanti di Amon Amarth e compagnia eroica.

Un ottimo lavoro incentrato su un melodic black metal epico, per molti conosciuto come viking metal, ma pur sempre di origine scandinava, anche se il gruppo in questione è un quintetto olandese.

Dall’impatto davvero impressionante, un muro invalicabile di epicità metallica, arriva il nuovo album dei guerrieri arancioni Slechtvalk, il quinto di una discografia iniziata all’alba del nuovo millennio con Falconry ed arrivata nel 2010 a quello che era l’ultimo parto, A Forlorn Throne.
Sono passati sei anni, dunque, e il gruppo torna a raccontare di epiche guerre ed eroi con Where Wandering Shadows and Mists Collide, un devastante esempio di metal estremo epico e con tutte le carte in regola per essere idolatrato dagli amanti di Amon Amarth e compagnia eroica.
Tastieroni a tappeto su ritmiche black, solos melodici che sprizzano epicità tanto quanto mid tempo che risultano marce verso una gloriosa morte a fil di spada, urla belluine tra growls e scream ed un impatto potente come una carica di truppe barbare contro il nemico nella bruma di prima mattina, dove il bianco della nebbia viene sporcato dal rosso porpora del caldo sangue cristiano: il ritorno del gruppo olandese non delude e si conquista il suo meritato posto al sole nelle uscite del genere negli ultimi mesi dello scorso anno.
Asternas, March To Ruin e Wandering Shadows vivono della furia metallica e dell’epicità che gli Slechtvalk sanno imprimere al proprio sound, i cori evocativi riecheggiano nella foresta, prima che il feroce scream detti i tempi della battaglia in un delirio di sangue e la gloriosa Wandering Shadows costringa la pelle ai brividi, non solo di freddo e paura, ma di emozione per un brano capolavoro, epico, oscuro ed esaltante e, probabilmente, il più vicino ai maestri Bathory.
La produzione è perfetta, il sound corposo e devastante, il songwriting sopra la media, in due parole … da avere.

TRACKLIST
1.We Are
2.Asternas
3.Betrayed
4.March to Ruin
5.Nemesis
6.Rise or Fall
7.The Shrouded Grief
8.Malagh Defiled
9.Wandering Shadows
10.Homebound

LINE-UP
Shamgar-vocals/guitars
Seraph-guitar
Grimbold-drums
Dagor-bass
Premnath-keys
Ohtar-(vocals – resigned from the live line-up in 2012, but still participates in songwriting and recordings)

SLECHTVALK – Facebook

Akasava – Nothing At Dawn

Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album vario e godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere

Stoner, classico, death e psichedelico sono solo alcune delle varianti con cui il doom si è affacciato nel nuovo millennio.

I transalpini Akasava, per esempio suonano doom classico, che pesca a suo modo dagli anni settanta (Black Sabbath) ma che non si ferma ad una mera trasposizione di quel verbo, aggiungendovi dosi letali di psichedelia ed epico heavy rock.
Formatosi in Normandia un paio di anni fa, e con l’ep Strange Aeons dello scorso anno come apripista, il gruppo francese ci presenta il suo primo full length, Nothing at Dawn, un monolite occulto e psichedelico dai buoni spunti e dall’ottimo songwriting.
Niente di così nuovo o originale, solo doom epico, che non manca però di far viaggiare l’ascoltatore tra le onde lisergiche di uno spartito che il gruppo maneggia con sufficiente disinvoltura.
Si passa quindi da brani più diretti (The Devil’s Tide), a jam liquide perse nel rock progressivo e psichedelico di una quarantina d’ anni fa (Pyramid’s Eyes), lenti e soffocanti episodi atmosfericamente a metà strada tra Pink Floyd e Sabbath (Zora The Traveller) e piccoli gioiellini stoner che tornano a far risplendere il sole nella Sky Valley (Solitude Of The Goat).
Nothing At Dawn, nel suo variopinto caleidoscopio di sonorità doom, si rivela un album godibilissimo, specialmente per gli amanti della variante classica del genere, anche se non mancano spunti d’interesse anche per chi ne preferisce la parte più moderna e stoner.

TRACKLIST
1.Season of the Poet
2.The Devil’s Tide
3.Assembly of Fools
4.Pyramid’s Eyes
5.Zora the Traveller
6.Solitude of the Goat
7.Astral Truth
8.Nothing at Dawn

LINE-UP
Amélie Gavalda – Bass
David Touroul – Drums
Arnold Lucas – Guitars, Organ
Louis Hauguel – Vocals

AKASAVA – Facebook

Kzohh – Trilogy: Burn Out The Remains

Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”.

Gli ucraini Kzohh nascono nel 2014 quale unione tra membri di diverse band della scena black metal nazionale e, con Trilogy: Burn Out The Remains, chiudono quella che è, appunto, una trilogia dedicata alla peste.

Il marchio black metal che aleggia su questa band va preso assolutamente con le pinze, perché se è vero che si tratta del background musicale dei cinque musicisti (la cui iniziale dei rispettivi nickname va a formare l’anomalo monicker), questo lavoro si può associare del tutto al genere solo in alcuni passaggi del secondo brano Ñrom Conaill, episodio invero impressionante e che esprime al meglio le potenzialità dei Kzohh.
Le altre due tracce, al contrario, mostrano un volto ritual/ambient di sicuro fascino ma, per forza di cose, meno d’impatto, rendendo quest’ultima parte della trilogia la più ostica all’ascolto e, nel contempo, la più ambiziosa dal punto di vista compositivo.
Trilogy: Burn Out The Remains è un lavoro di sicuro interesse, che consiglierei però più ai fruitori di musica dai tratti sperimentali o a chi ascolta il black comunque con una propensione lontana da integralismi di matrice “true”: i Kzohh propongono musica oscura alla quale riesce difficile dare una definizione precisa, facendola sembrare in diversi passaggi la vera e propria colonna sonora di uno dei peggiori incubi ai quali ogni tanto si è soggetti, anche se la caratteristica interlocutoria di molti di questi momenti ne rendono relativa l’appetibilità.
Ma, del resto, se i componenti di diverse band dedite al black metal si fossero riuniti per suonare a loro volta del black metal, sarebbe stato lecito pensare a qualcosa di riduttivo se non di superfluo: l’idea di musica proposta dai Kzohh è condivisibile e terrificante il giusto, anche se non appare sempre focalizzata al meglio. Probabilmente i dischi precedenti erano più lineari ed incisivi, pur se non scevri di passaggi sperimentali  nel loro ondeggiare tra il black ed il doom, ma anche Trilogy è senz’altro un’opera più che degna della massima attenzione.

Tracklist:
01. Panoukla DXLII
02. Ñrom Conaill
03. H19N18

Line-up:
Khorus – bass
Zhoth – vocals
Odalv – drums
Helg – guitars
Hyozt – guitars, keys and samples

KZOHH – Facebook

Ilemauzar – The Ascension

Un buon esempio di black metal, dai pochi ma utili rimandi al death, nelle cui vene scorre nero sangue scandinavo con gli ultimi Satyricon a fare da riferimento per il truce quartetto di Singapore.

Tra gli angoli bui di una Singapore glaciale, come il punto più remoto di una Scandinavia oscura e demoniaca, si aggira da una decina d’anni una creatura blasfema di nome Ilemauzar , quartetto di blacksters arrivato tramite la Transcending Obscurity al meritato debutto sulla lunga distanza.

Nato infatti nel 1996, il gruppo ha soli due demo nella propria discografia e giunge quindi con molta calma al full length ma, visti i risultati, direi che senz’altro il trascorrere del tempo non è stato un problema.
The Ascension infatti, risulta un buon esempio di black metal, dai pochi ma utili rimandi al death, nelle cui vene scorre nero sangue scandinavo con gli ultimi Satyricon a fare da riferimento per il truce quartetto di Singapore.
Mezz’ora di ritmiche che alternano veloci sfuriate a mid tempo scarni, richiamanti il sound del famoso gruppo norvegese, specialmente quello orchestrato nelle due opere più controverse del combo, Volcano e Now, Diabolical.
Tra oscurità e malvagità in musica, The Ascension segue così le coordinate del genere, con una produzione all’altezza, l’ottimo lavoro fatto dietro al microfono da Bloodcurse ed un sound che penetra nell’anima, senza bisogno di inutili orpelli, freddo e malvagio come l’ anima di Lucifero, estremo nelle sue atmosfere che mantengono un distacco ed una oscurità da brividi.
Ovviamente il sound risulta derivativo, ma se ci si concentra sulla musica l’album sa regalare attimi di black metal a tratti marziale  e sopra la media, con almeno un paio di brani notevoli come Temporis Obscuri e la conclusiva Reclamation.
Se siete amanti di questo tipo di black metal ed in particolare della musica dello storico duo norvegese, The Ascension è l’album che fa per voi.

TRACKLIST
1.Into the Shadow Realm (Adrian Von Ziegler)
2.The Dissolute Asumption
3.Ode to Apostasy
4.Temporis Obscuri
5.Nectar of Insanity
6.Relinquishing the Faith
7.Doctrine 68th
8.The Ascension of Bloodcurse
9.Reclamation

LINE-UP
Nivlek – Guitars
Asmodeus – Guitars
Maelstrom – Drums
Bloodcurse – Vocals

ILEMAUZAR – Facebook

FVNERALS – Wounds

Suoni plumbei e oppressivi, ma che affascinano e feriscono noi ascoltatori

L’ oscurità ammanta costantemente la nostra anima e i Fvnerals, con il loro Wounds, ce lo ricordano in ogni momento; sono emersi dalle terre albioniche in quel di Brighton nel 2013 con il singolo The Hours, bissato nel 2014 con il full The Light per poi pubblicare, dopo un ulteriore singolo (The Path nel 2015), questo pregevole gioiellino.

La loro arte si nutre di doom, funeral, ambient, post-rock, drone miscelata e dosata in un suono che appare atmosferico, profondo, oppressivo con la voce della cantante Tiffany a sublimare e ad accompagnare in modo inquietante questo viaggio; qui non sono eretti muri di suono distorti e non ci sono vocals stordenti e aggressive, ma tutto è più “subdolo”, un lento flusso di coscienza che scava lentamente nella nostra anima ferendola e accentuando a ogni ascolto un profondo senso di isolamento.
Anche il fatto che i sette brani, per un totale di circa quaranta minuti, siano legati e scivolino uno sull’altro serve a rendere più affascinante, misterioso e desolante il percorso, come nell’ultimo brano Where, introdotto da note lontane di piano, accompagnato da una desolata voce e levigato da tristi e disperate note di chitarra; un po’ la summa di tutto il lavoro, come l’ ultimo granello di sale cosparso sulla nostra lacerata anima. Ottimo lavoro da una giovane band che mi ha molto emozionato e che spero possa “colpire” altre anime “torturate”.

TRACKLIST
1. Void
2. Wounds
3. Shiver
4. Teeth
5. Crown
6. Antlers
7. Where

LINE-UP
Tiffany Strom – vocals,bass,synth
Syd Scarlet – guitar
Chris Cooper – drums

FVNERALS – Facebook

Diktatur – L’agonie d’un monde

Il lavoro offre una ventina di minuti di black di ottimo livello, rigorosamente cantato in francese con buona versatilità ed eseguito senza tentennamenti.

Band proveniente dalla parte dei Paesi Baschi ubicati nella nazione francese (Bayonne), i Diktatur si rifanno vivi, dopo un lungo silenzio seguito all’album d’esordio La Voie du Sang , con questo ep intitolato L’Agonie d’un Monde.

Forse anche per la particolare connotazione geografica, i nostri non si accodano alle tendenze più conosciute del black transalpino, laddove le pulsioni sperimentali vengono spinte talvolta fino all’eccesso: il genere, nell’interpretazione del terzetto è piuttosto diretto e tagliente, anche se non mancano spunti inconsueti come le spruzzate di elettronica nell’opener Comme un ombre e un mood tetro ed algido che conferisce al tutto un’aura particolare.
In generale il lavoro, uscito nel 2015 come autoproduzione, ma poi riedito dalla Melancholia Records all’inizio dello scorso anno, offre una ventina di minuti di black di ottimo livello, rigorosamente cantato in francese con buona versatilità ed eseguito senza tentennamenti. Notevole in particolare la title track, con la quale i Diktatur dimostrano di non essere solo delle incattivite macchine da guerra, grazie ad un brano che, tra mid tempo, accelerazioni ed un finale ambient, esplora vari aspetti del genere.
L’ep, per sua conformazione, fornisce un quantitativo di musica che consente di farsi un idea ma non del tutto esaustiva delle effettive capacità degli interpreti, però è evidente che, se ciò dovesse risultare propedeutico ad un’uscita su lunga distanza in tempi brevi, lascerebbe in eredità una cera curiosità nel vedere cosa sarà in grado di combinare il trio di Bayonne.
Per finire, un plauso alla frase che i nostri inseriscono in coda alle proprie note di presentazione biografiche: DIKTATUR does not support any political or philosophical current. Only music reigns supreme. Ecco, questo è esattamente ciò che si vorrebbe sempre leggere, specialmente in campo black metal …

Tracklist:
01 – Comme une Ombre
02 – L’Hérétique
03 – Par le Fer & le Feu
04 – L’Agonie d’Un Monde

Line-up:
Aizko – Guitares, Bass, Synthetizer & programming
Thorgis – Drums
Thsymgor – Voice

DIKTATUR – Sito

Diatonic – I Am The One

I Am The One è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.

Diatonic è il monicker scelto dal polistrumentista svedese Joakim Antman (Overtorture, The Ugly) per la sua creatura solista, un mostro che si nutre di death metal scandinavo, tra tradizione ed elementi moderni, elementi che si evincono in alcune ritmiche sostenute da un buon groove, che rendono il suono avvolgente, mentre il resto del sound viaggia sui binari dello swedish death.

Il secondo lavoro sulla lunga distanza per il musicista svedese, a distanza di un anno dal precedente Hidden Pieces, fornisce il segno di una certa creatività, almeno in questo periodo, per Antman, confermata da un lotto di brani molto ben curato, vari nelle ritmiche e solidi come un incudine.
Derivativo, ma ottimamente prodotto e alquanto agguerrito, I Am The One esce vincitore dall’ascolto per via dei suoi solos alquanto melodici, mentre la tensione rimane alta per tutta la sua durata: trentasette minuti di death metal, a tratti sfiorato da una vena classica che emerge dal lavoro della sei corde, sempre melodica ma tagliente, cangiante nelle sue atmosfere che passano con disinvoltura da repentine accelerazioni ad attimi di atmosferiche ed oscure parti dove un’anima prog prende il sopravvento.
Sono attimi di lucida follia espressiva, poi si riparte in quarta per toccare vette estreme destabilizzanti, con tracce che abbinano ferocia ed intimista oscurità.
Il growl è cattivo e tormentato, i brani che alzano il livello qualitativo sono quelli che più alternano gli elementi di cui si caratterizza la musica di Antman (notevoli a mio parere Hypocrite, la title track e le reminiscenze industrial della conclusiva Deceived) e che fanno di I Am The One un buon lavoro di death metal melodico moderno.
Buona la seconda dunque: il lavoro è consigliato a chi stravede per il melodic death, con Antman che si conferma un ottimo musicista.

TRACKLIST
1.The Eyes
2.Kiss of Death
3.Replace the Numbers
4.Once More
5.Hypocrite
6.Game Piece
7.Fading
8.I Am the One
9.Deceived

LINE-UP
Joakim Antman – All instruments, Vocals

DIATONIC – Facebook

Lux Ferre – Excaecatio Lux Veritatis

Oscurità, intensità, credibilità e senso melodico, il tutto per di più eseguito con grande competenza: difficile fare meglio di quanto riuscito ai Lux Ferre con un album che, se fosse uscito originariamente nel 2016, sarebbe stato inserito sicuramente tra i migliori della nostra classifica del metal estremo.

Se qualcuno non se ne fosse ancora accorto, in Portogallo prospera e cresce già da tempo una scena black metal che, muovendosi dai meandri più reconditi del sottobosco underground, sta prendendo sempre più piede grazie all’operato di etichette coraggiose e band capaci di proporre in maniera fresca, genuina e mai scontata, un genere che continuerà ancora a lungo a disturbare le coscienze dei benpensanti.

Questo terzo full length dei Lux Ferre, band attiva da oltre tre lustri, è stato pubblicato alla fine del 2015 dalla Altare Productions per essere poi riedito nell’aprile del 2016, in formato cassetta, dalla War Productions (entrambe le label citate sono ovviamente lusitane).
Sul black metal offerto dal gruppo fondato dal vocalist Devasth c’è poco da eccepire, visto che Excaecatio Lux Veritatis è semplicemente uno dei migliori album ascoltati nel genere negli ultimi anni e, chi si aspetta una riproposizione calligrafica ed approssimativa di quanto già proposto in passato dai padri del genere, sbaglia e non poco; certo, la band portoghese non può che trarre linfa da quelle sonorità, ma sono l’intensità e la forza con la quale vengono scagliate sull’ascoltatore a fare la differenza.
Excaecatio Lux Veritatis tratta, come da copione, di temi (anti)religiosi, ma lo fa intanto utilizzando le liriche in portoghese, aspetto che rende ancor più intrigante l’album donandogli una diversa musicalità e, poi, per descrivere “la luce offuscante della verità”, utilizza un sound che più oscuro non si potrebbe, definibile “dark” nel senso più autentico del termine.
A Luz Ofuscante da Verdade, brano che apre l’album e che sarebbe, di fatto, la title track se il titolo fosse tradotto in latino, è un autentico capolavoro di arte nera, il manifesto sonoro di un gruppo di livello superiore alla media e che non ha nulla da invidiare ai più celebrati act nordeuropei; il resto di Excaecatio Lux Veritatis si mantiene incredibilmente sugli stessi livelli, chiudendo, in Sob o Véu da Ignorância, con accenni di ambient così come era iniziato, ed esibendo una tensione costante nel raccontare la terrificante, ma realistica visione della vita (e della morte) da parte di Devasth.
Oscurità, intensità, credibilità e senso melodico, il tutto per di più eseguito con grande competenza: difficile fare meglio di quanto riuscito ai Lux Ferre con un album che, se fosse uscito originariamente nel 2016, sarebbe stato inserito sicuramente tra i migliori della nostra classifica del metal estremo.

Tracklist:
A01 – A Luz Ofuscante da Verdade
A02 – Não Há Salvação
A03 – A Lenta Adaga da Morte
A04 – Caos no Meu Sangue
B01 – Canção da Loucura
B02 – Miséria
B03 – Mundo das Sombras
B04 – Sob o Véu da Ignorância

Line-up:
Devasth – vocals
Pestilens – rhythm guitar
Vilkacis – lead guitar
Vagantis – bass guitar
A. – drums

LUX FERRE – Facebook

40 Watt Sun – Wider Than The Sky

Musica che risulta di difficile metabolizzazione nel suo dilatarsi all’infinito, perdendo non pochi punti per quanto riguarda la fruibilità e l’ interesse da parte dell’ascoltatore.

I 40 Watt Sun sono un trio londinese che con il primo album, uscito ormai più di cinque anni fa, aveva fatto gridare al miracolo gli addetti ai lavori ed i fans del doom.

Ma il metal, oggi, non fa più parte del sound del gruppo, ed in questo nuovo album vengono abbandonate la lentezza e la potenza del doom a favore di un alternative rock intimista, ipnotizzante e minimale.
Il ripetersi di accordi e melodie all’infinito porta inevitabilmente ad uno stato comatoso: Wider Than The Sky accentua l’ossessività dei nostri nel voler trascinare l’ascoltatore in un mondo parallelo, fermo al primo minuto ed alle prime note per poi continuare a proporre imperterrito la stessa atmosfera per oltre un’ora.
La voce di Patrick Walker accompagna la musica con quel tono che ricorda non poco Michael Stipe dei R.E.M, mentre Beyond You cambia di poco i propri parametri rispetto ai sedici minuti dell’opener Stages.
Una musica che non lascia indifferenti, perché la si ama per quello che sa regalare in termini di rilassatezza e pace interiore, o la si odia per gli stessi motivi, anche perché il cambiamento rispetto al primo album (The Inside Room) è notevole, tanto che dal confronto paiono scaturire lavori prodotti da due band diverse.
Fuori i fans del doom e dentro gli alternative rockers, forse ancora più provati dei primi, però, nel dover digerire tracce plumbee e dilatate come Another Room e Craven Road, mentre gli accordi continuano a ripetersi senza all’apparenza trovare la via per una conclusione che arriva inaspettata, così come il brano era iniziato.
Quella dei 40 Watt Sun è oggi musica che risulta di difficile metabolizzazione nel suo dilatarsi all’infinito, perdendo non pochi punti per quanto riguarda la fruibilità e l’ interesse da parte dell’ascoltatore.

TRACKLIST
1.Stages
2.Beyond You
3.Another Room
4.Pictures
5.Craven Road
6.Marazion

LINE-UP
William Spong – Bass
Christian Leitch – Drums
Patrick Walker – Guitars, Vocals

40 WATT SUN – Facebook

Chalice Of Suffering – For You I Die

I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità.

Come già fatto in altri frangenti, la riedizione in diverso formato da parte un etichetta diversa ci ci offre l’occasione di riportare all’attenzione interessanti lavori usciti in tempi relativamente recenti e recensiti all’epoca per In Your Eyes.
Questa volta tocca ai Chalice Of Suffering, band del Minnesota autrice di un ottimo album di funeral doom atmosferico, con l’esordio intitolato For You I Die, edito nello scorso aprile in CD dalla russa GS Productions ed ora riproposto, nel sempre più diffuso e gradito formato in cassetta, dall’attiva label portoghese War Productions.

Il gruppo guidato da John McGovern (vocalist che, più che cantare, si esibisce in un semi recitato in stile Mythological Cold Towers) convince grazie ad un approccio diretto ed efficace, puntando su un lato melodico molto lineare ma sempre volto ad catturare l’attenzione dell’ascoltatore, avvolgendolo con un mood invero più malinconico che plumbeo.
I Chalice Of Suffering, in fondo, non fanno altro che assemblare con sapienza gli influssi principali del genere, attingendo per lo più alle sonorità novantiane (primi Anathema e My Dyng Bride) e ammorbidendole ulteriormente con una spiccata indole atmosferica.
For You I Die parte forte, mostrando subito il suo volto migliore con Darkness, brano dotato di armonie splendide che la band sfrutta a dovere piazzando a più riprese un assolo dal grande potenziale evocativo, per poi proseguire su questa falsariga, magari senza ritrovare quegli stessi spunti ma garantendo sempre uno standard elevato, specialmente in Who Will Cry e Screams Of Silence.
Subito dopo quest’ultimo brano si palesa un’improvvisa vena folk celtica, con le cornamuse che dominano la strumentale Cumha Do Mag Shamhrain, per arrivare poi all’incipit di Fallen, dove è invece il flauto ad introdurre una traccia piuttosto rarefatta, contraddistinta dal recitato in gaelico dello stesso suonatore di bagpipes, Kevin Murphy.
Void chiude un album ricco di contenuti e tutto sommato neppure troppo dispersivo, nonostante l’ora e tre quarti di durata, mostrando nuovamente il volto più canonico del death doom, questa volta sfruttando il buon growl dell’ospite Allen Towne.
I Chalice Of Suffering non possono ancora essere collocati sullo stesso piano delle diverse band dalle quali traggono ispirazione, ma si attestano tranquillamente nello status di realtà di sicuro interesse, in grado di soddisfare il palato degli appassionati di queste sonorità. Tutto sommato è apprezzabile l’ ortodossia nell’approcciarsi al funeral death doom melodico, al netto delle citate puntate nel folk di matrice celtica (un po’ fuori contesto per quanto gradevoli) e, trattandosi comunque di una band di nuovo conio, non si può che salutarne con favore questo disco d’esordio.

Tracklist:
1.Darkness
2.Who Will Cry
3.For You I Die
4.Alone
5.Screams Of Silence
6.Cumha Do Mag Shamhrain
7.Fade Away
8.Fallen
9.Void

Line-up:
John McGovern – Vocals, Lyrics
Will Maravelas – Guitars, Bass, Songwriting
Aaron Lanik – Drums
Robert Bruce – Tin Flute
Nikolay Velev – Keyboards, Guitars, Songwriting
Kevin Murphy – Bagpipes, Vocals (Gaelic)

Guest:
Allan Towne – Vocals

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Maze Of Sothoth – Soul Demise

Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.

Un’altra perla estrema made in Italy è pronta a risplendere nell’underground metallico e noi di MetalEyes non possiamo che farvi partecipi di cotanta violenza sonora.

Questa volta si tratta di death metal old school, tecnicamente ineccepibile ed esaltante nel suo ripercorrere le strade tracciate nel profondo sentiero degli inferi da Morbid Angel ed i loro seguaci.
Il gruppo protagonista di questi quaranta minuti circa di death metal d’alta scuola sono i bergamaschi Maze Of Sothoth, giovane quartetto nato nel 2009 dalla mente diabolica del chitarrista Fabio Marasco (ex Hiss Like The Damned).
Dopo il primo demo Guardian of the Gate, uscito nel 2011, ed uno split in compagnia di un nugolo di band estreme gravitanti nell’underground più oscuro (Molto Male Fest Vol.1, uscito lo scorso anno), la band licenzia il suo primo lavoro su lunga distanza tramite la Everlasting Spew Records, questo mastodontico Soul Demise che ha sicuramente nei Morbid Angel la sua principale fonte di ispirazione, ma che non manca di correre più veloce, trovando la sua via tramite scosse telluriche alla Nile e qualche ritmica slayerana.
L’atmosfera è di soffocante oscurità, anche nelle parti più violente la coltre di nebbia, dove vivono e si riproducono orrendi demoni, non lascia respiro: la velocità, molto spesso ai limiti, lascia talvolta spazio a mid tempo pesantissimi, mentre le chitarre urlano dolore sotto le torture di Marasco e di Riccardo Rubini.
La formazione viene completata dal maremoto ritmico composto da Cristiano Marchesi che, oltre a vomitare nefandezze al microfono si occupa del basso, e da Matteo Moioli alla batteria: Soul Demise si rivela così un esempio idelae di death metal old school, oscuro e mostruoso, da concedersi in tutta la sua estrema potenza senza perdere neanche una delle bordate che Lies, Multiple Eyes, l’accoppiata distruttiva The Dark Passenger – At The Mountain Of Madness, e  la conclusiva Divine Sacrifice sanno sparare.
Un album che merita la massima attenzione da chi si dichiara un fan del metal estremo.

TRACKLIST
1.Cthulhu’s Calling
2.Lies
3.Seed of Hatred
4.Multiple Eyes
5.The Outsider
6.The Dark Passenger
7.At the Mountain of Madness
8.Blind
9.Azzaihg’nimehc
10.Divine Sacrifice

LINE-UP
Fabio Marasco – Guitars, Synthesizers
Matteo Moioli – Drums
Cristiano Marchesi – Vocals, Bass
Riccardo Rubini – Guitars

MAZE OF SOTHOTH – Facebook

NOVERIA

Intervista con Francesco Mattei, chitarrista dei Noveria, autori di uno migliori album del 2016.

ME Sono passati due anni dal vostro bellissimo debutto, siete soddisfatti dei riscontri avuti da Risen?

Francesco Mattei: Ciao ragazzi di MetalEyes, grazie innanzitutto per averci ospitato qui sulle vostre pagine e per le belle parole dette sul nostro conto. Ora veniamo a noi!
Assolutamente si, per essere una band venuta fuori a ciel sereno e senza preavvisare nessuno, con il nostro debut Risen abbiamo avuto subito un boost positivo, sia per quanto riguarda la critica sui vari portali e riviste di settore, sia per quanto riguarda l’appeal della band, inquadrata subito come un gruppo di ragazzi che sanno quel che fanno e non come una band che ha bisogno di “rodaggio”. In pratica, siamo partiti in quinta come al volante di una Ferrari! In ogni caso direi che siamo pienamente soddisfatti, Risen resta per noi un ottimo album e trovo sempre piacere nel riascoltarlo.

ME Non era facile ripetersi, eppure siete riusciti a creare un’opera che supera l’enorme lavoro svolto con il debutto: quale è il segreto?

FM In realtà la lavorazione di Forsaken è stata diversa nell’approccio. Sicuramente avere Risen alle spalle ti fa riflettere sul fatto che non puoi prendere determinate cose alla leggera e soprattutto, che hai creato in qualche maniera delle aspettative nei confronti della fan base. Da un lato sai che puoi sperimentare, ma dall’altro sai anche che non puoi allontanarti troppo dal sound che ti ha caratterizzato, quindi il segreto vero e proprio credo si trovi nel duro lavoro e nella buona dose di sana autocritica nel processo di composizione. Bisogna valutare bene quali sono gli elementi che funzionano e quelli che non vanno, ed in Forsaken abbiamo avuto a che fare con diverse situazioni musicali che non avevamo affrontato in passato.

ME Quali sono le maggiori differenze a livello di sound tra il primo album e Forsaken?

FM In Forsaken c’è stato un inserimento più massiccio di pianoforti e di brani più lenti e cadenzati per poter esprimere al meglio il concept, caratterizzato dai diversi stadi psicologici. Ci vogliono tempo e pazienza. In generale lo consideriamo un album molto più dinamico rispetto a Risen … più largo, ricco di atmosfere e con una forte componente emotiva incentrata sulle voci di Frank, che secondo me ha raggiunto un ottimo livello sia tecnico che interpretativo in ogni brano dell’album. Un’altra differenza sostanziale è che Risen non aveva ballad, mentre qui ne abbiamo due, When Everything Falls ed Acceptance. Forsaken è sicuramente un album che necessita di più ascolti per essere apprezzato appieno.

ME Forsaken non è solo un grande album prog-metal, perché il tema trattato porta inevitabilmente ad alzare l’asticella emozionale: potete descrivere il concept che ha ispirato la musica di Forsaken?

FM Ti ringrazio per le belle parole. Il concept, purtroppo, prende vita da una triste storia che ha toccato la nostra famiglia un paio di anni fa, quando abbiamo avuto un pesante lutto per la perdita di una giovane ragazza a causa di un cancro molto aggressivo. Ho visto i miei familiari cadere nella disperazione e depressione per la perdita della propria figlia che, con tutte le sue forze, ha lottato nella battaglia contro il cancro.
Ho sempre ammirato la sua tempra e la sua forza di reagire positivamente alla malattia. Era suo tipico venirsene fuori con frasi del tipo “Dai usciamo, che vuoi che sia, tutto si supera”, come se in realtà non ci fossero problemi. Una grande forza ed una voglia di vivere unica. Forsaken nasce proprio da questa brutta avventura. Dopo aver proposto il concept ai ragazzi della band, abbiamo tutti scelto di tributare la sua vita e non solo … abbiamo deciso di allargare il tributo anche a tutte le persone stroncate da questa infida malattia. Il modello della psichiatra Elizabeth Kubler Ross è arrivato di lì a poco, dopo aver fatto delle ricerche sul campo e mi ha dato l’ispirazione per comporre la musica attraverso i vari stadi.

ME Suonate un genere musicale in cui la tecnica individuale è importantissima, ma riuscite a mantenere un equilibrio perfetto con la componente emotiva, una virtù non così scontata, specialmente nel vostro genere, siete d’accordo?

FM Sono pienamente d’accordo. Oggi come oggi con Youtube e la rete si hanno a disposizione tutte le informazioni necessarie a diventare un musicista tecnicamente impressionante e con l’ausilio di un pc si possono fare i dischi in camera … Non che sia un male, assolutamente, ma spesso e volentieri si tende a trascurare il lato melodico della musica, soprattutto con la chitarra. E’ indubbio che suonare veloce “faffiga” come dice il buon Mick Jagger di Fabio Celenza, ma non bisogna dimenticarsi che la tecnica è solo un mezzo per raggiungere le note giuste. Sono quelle che fanno la differenza: sviluppare un tema efficace è impegnativo e richiede del tempo. Oggi purtroppo tutti corrono e hanno fretta, ma non voglio assolutamente sminuire nessuno, anzi, in giro ci sono dei grandi talenti e sono orgoglioso di conoscerne una buona parte e di poter scambiare idee con loro.

ME I Symphony X sono il gruppo a cui venite più frequntemente accostati: quali altre band vi hanno ispirato per creare il sound presente nei vostri due full length?

FM L’accostamento ai grandi Symphony X è indubbio che venga fuori, in quanto tutti noi siamo dei grandi fan della band americana e, personalmente, Michael Romeo è uno dei miei miti da quando ho iniziato a suonare la chitarra. Non è quindi una novità! Personalmente mi ispiro anche a band come i Children of Bodom, Arch Enemy e Rammstein per quanto riguarda il flow dei brani e le parti più aggressive, mentre mi piacciono molto gli Evergrey, Dgm e, ultimamente, i Katatonia per le cose più melodiche. Soprattutto per quanto riguarda i Katatonia mi piace il loro modo di essere dark e melancolici, che è proprio il mood che cercavamo per un album poliedrico come Forsaken.

ME A mio parere la scena underground nazionale negli ultimi tempi è cresciuta moltissimo, non solo per quanto riguarda il metal progressivo, ed anche quest’anno le opere di valore non sono certo mancate: voi che idea vi siete fatti della scena italiana degli ultimi tempi?

FM Sono d’accordo con te, la scena italiana sta crescendo e diventa sempre più competitiva se non addirittura superiore qualitativamente alle produzioni europee e americane.
Ci avviciniamo sempre di più alla punta dell’Olimpo e questo non può che farmi piacere e ben sperare. Di qualità e talento ne abbiamo da vendere ed è solo questione di tempo prima che tutti se ne accorgano. Ci sono band come Dgm, De La Muerte e Helslave, giusto per citarne alcune, che stanno alzando l’asticella qualitativa di bel po’ di punti in quanto a freschezza e proposta musicale nei loro generi diversi. Ognuno di noi contribuisce alla crescita della scena.
L’unico problema vero, secondo me molto grave, è che qui in Italia non giochiamo mai di squadra: le band non si aiutano e spesso e volentieri i proprietari dei locali non investono nella proposta di musica originale e preferiscono puntare sulle cover band.
Fuori dalla nostra penisola c’è un interesse maggiore ed un’organizzazione più efficace per gli eventi di questo tipo.
Peccato.

ME Vi lascio spazio per eventuali date e news e vi saluto a nome di tutto lo staff di MetalEyes!

FM Vi ringrazio vivamente per lo spazio concesso! Per quanto riguarda noi Noveria, tra gennaio e febbraio saremo in giro in Belgio e Olanda e stiamo aspettando delle conferme per un’altra manciata di date qui in casa. Abbiamo ricevuto proposte per suonare in Grecia e stiamo attualmente valutando la situazione. Nel frattempo, a febbraio rilasceremo, tramite Scarlet, un lyric video per un brano di Forsaken e probabilmente gireremo un altro video! Rimanete sintonizzati, ce ne saranno delle belle! Ringrazio tutta la nostra fan base per il supporto costante! You Rock!

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