Peter Grusel und die Unheimlichen – Peter Grusel und die Unheimlichen

Un album che esalta, violento e rabbioso, puro metallo estremo moderno che, come una diga che cede, rovescia una devastante ondata di groove distruttivo e senza soluzione di continuità.

Certo che mi viene da ridere quando leggo di certi scienziati della carta stampata che non perdono l’occasione di attaccare l’underground, come se fosse un fastidioso effetto collaterale, sapendo benissimo che senza il sottobosco metallico i primi a fare le valigie e tornare dai propri cari (come si dice dalle mie parti) sarebbero proprio loro.

A darmi la carica in questo calda e drammatica fine estate 2016, tanto da partire al contrattacco, è questa fenomenale band tedesca, dal nome che riprende un famoso programma per bambini della tv tedesca, con tutti i componenti del gruppo che assumono il nome di Peter Grusel, così da evidenziare il mood sarcastico della band, ma che quando parte con l’opener Piss Christ è un attimo rendersi conto che non scherzano affatto.
Modern death metal irrobustito da bordate di groove, una produzione esplosiva e un’attitudine hardcore che si schianta a trecento orari contro un muro di brutal death, questo risulta il primo danno ai padiglioni auricolari che i Peter Grusel und die Unheimlichen arrecano con il primo ed omonimo album, un massacro di violenza estrema convogliata in un sound che udite, udite ha nell’appeal il suo strepitoso punto forte.
Infatti i brani che compongono l’album oltre ad essere una lezione di groove, hanno nell’assimilazione istantanea la loro maggiore dote: i cinque Peter Grusel con in testa una sezione ritmica da manicomio ed un vocalist stratosferico nel suo rabbioso growl, tengono sotto tiro l’ascoltatore con i cannoni, pronti a far fuoco dal primo all’ultimo secondo dell’album.
Immaginatevi i Soil di Scars in versione brutal, o i Pantera con la fissa per il death metal e più o meno avrete un’idea di che cosa vi aspetta all’ascolto delle varie e tonanti Crawling The Shitpipe, Abbatoir, Cast Away e Scumfuck.
Un album che esalta, violento e rabbioso, puro metallo estremo moderno che, come una diga che cede rovescia una devastante ondata di groove distruttivo e senza soluzione di continuità, bellissimo.

TRACKLIST
1. Piss Christ
2. Broke
3. Crawling The Shitpipe
4. Jeffrey
5. Cast Away
6. Abattoir
7. Waste Of Skin
8. Junkie
9. The Vulture
10. Scumfuck
11. Slaughtering Sheep
12. Abattoir (live)

LINE-UP
Peter Grusel – Vocals
Peter Grusel – Guitars
Peter Grusel – Guitars
Peter Grusel – Bass
Peter Grusel – Drums

PETER GRUSEL UND DIE UNHEIMLICHEN – Facebook

Demoncy – Faustian Dawn

Il suono è grezzo, le chitarre distorte in maniera quasi pacchiana, la batteria sembra un osso che viene percosso sul cranio di un cadavere, la voce è un continuo growl di diversi elementi, la sensazione è di un diabolico dimenarsi, e tutto ciò è meraviglioso.

Ristampa definitiva da parte della Nuclear War Now per questo grande classico del black metal americano.

Originariamente uscito nel 1993 questo disco è stato una delle opere seminali del verbo del nero metallo nel nuovo mondo. Insieme a Profanatica, Grand Belial’s Key e Black Funeral, i Demoncy sono stati i padri putativi del black metal americano, che è una costola davvero interessante del movimento black mondiale. Come si può ascoltare in nuce in questo fondamentale disco, gli americani il black metal lo fanno maniera differente, più ampia dal punto dal punto di vista musicale, con molti elementi differenti rispetto al black metal europeo, e diversamente rispetto al black sudamericano. Col passare degli anni il movimento black è progredito, ma questo disco rimane un vera chicca. Il suono è grezzo, le chitarre distorte in maniera quasi pacchiana, la batteria sembra un osso che viene percosso sul cranio di un cadavere, la voce è un continuo growl di diversi elementi, la sensazione è di un diabolico dimenarsi, e tutto ciò è meraviglioso. In Faustian Dawn c’è tutto quello che vi fa amare il black, ed è anche il motivo per cui questo disco è stato ristampato molte volte, ma questa è la ristampa definitiva, poiché Ixithra stesso ne ha curato la rimasterizzazione e Chris Moyen, che aveva disegnato la copertina originale, ha fatto un dipinto fantastico per l’occasione. Ma la storia non finisce qui : questa è una ristampa, mentre presto uscirà il nuovo disco del gruppo, il primo da molti anni.
Il demone continua a dibattersi per la nostra lussuriosa soddisfazione.

TRACKLIST
1.Whispers of Undesired Destinies
2.Winter Bliss
3.Satanic Psalms
4.Descending Clouds of Immortality
5.Denial of the Holy Paradise
6.Enchanted Woods of Forgotten Lore
7.Hidden Path to the Forest Beyond
8.Chill Winds of Time
9.Full Moon Twilight
10.Departure of the Dismal

LINE-UP
Ixithra – Vocals
Necreon – Bass
Vorthrus – Drums

DEMONCY – Facebook

Beelzefuzz – The Righteous Bloom

Se l’hard rock classico continua a regalarvi emozioni anche nel nuovo millennio, lasciate perdere per una volta i soliti nomi e fate vostro questo ottimo The Righteous Bloom.

Negli ultimi anni l’heavy rock ha riscoperto i suoni vintage provenienti sopratutto dagli anni settanta, ottime realtà sono nate praticamente in tutto il mondo, specialmente in Italia e nei paesi nord europei, ma gli Stati Uniti continuano a fare la voce grossa quando si parla di hard rock stonerizzato e psichedelico.

Ancora nella cerchia ristretta del mondo underground il genere propone band dall’alto potenziale qualitativo e varie nell’approcciarsi al sound classico, così che non è poi difficile imbattersi in lavori dannatamente coinvolgenti e dallo spirito rock d’annata.
Il quartetto dei Beelzefuzz, arriva dal Maryland, questo è il suo secondo lavoro dopo l’esordio omonimo uscito nel 2013, ed intitola l’album riprendendo il nome della prima incarnazione del gruppo, The Righteous Bloom.
Capitanata dal bravissimo e talentuoso chitarrista/cantante Dana Ortt, la band propone un rock vintage che richiama a sé sia il doom classico che l’hard blues settantiano, in una miscela esplosiva di suoni colorati e psyihedelici.
Il sound della band ha il pregio di tirare dritto arrivando al nocciolo della questione, senza perdersi troppo in lunghe e fumose divagazioni stoner: come detto sono il doom e l’hard rock che, insieme, comandano le operazioni e la fruibilità ne giova assai, presentandoci undici brani freschi, ben suonati e come detto dal sound vario.
Dana Ortt è un chitarrista dal tocco secco e preciso, il suo lavoro fa da gettata alle fondamenta di un sound ricco di spunti, il tono evocativo dalle reminiscenze doom mantiene ben legato il cordone ombelicale che il gruppo ha con la musica del destino, anche quando lo spirito blues rock prende il sopravvento.
Ne escono undici brani dall’alto potenziale, le melodie vincenti non mancano e le ritmiche vanno di pari passo con questo sali e scendi di umori vintage: non mancano tra i solchi di The Soulless, Eternal Waltz e la stupenda Nebulous riferimenti ai gruppi storici, così che è un attimo ritrovarsi tra le orecchie suoni nel passato in mano a Uriah Heep, Black Sabbath, Pentagram e Led Zeppelin, racchiusi in un arcobaleno psichedelico dai colori accesi.
Se l’hard rock classico continua a regalarvi emozioni anche nel nuovo millennio, lasciate perdere per una volta i soliti nomi e fate vostro questo ottimo The Righteous Bloom.

TRACKLIST
1. Nazriff
2. The Soulless
3. Hardluck Melody
4. Rat Poison Parfait
5. Eternal Waltz
6. Within Trance
7. Nebulous
8. The Righteous Bloom
9. Sanctum & Solace
10. Dying On The Vine
11. Peace Mind

LINE-UP
Dana Ortt – Lead vocals/guitar
Darin McCloskey – drums
Greg Diener – Lead guitar/vocals
Bert Hall – Bass guitar

BEELZEFUZZ – Facebook

Haniwa – Helleven

C’è da divertirsi tra i meandri della musica degli Haniwa

Sotto l’etichetta di modern metal si nascondono molti modi di fare musica dura, le band che per semplicità vengono catalogate con questo appellativo molte volte hanno un bagaglio di influenze delle più disparate, che passano dal metal tout court, all’alternative, dall’industrial groove al prog, elaborando molte volte spartiti originali.

Certo, per i fans duri e puri o semplicemente poco inclini alle novità che in questi anni hanno fortunatamente rinfrescato il genere, l’imbastardimento delle sonorità classiche è visto come tradimento ad una formula che, sia chiaro, funziona ancora, ma che spesso ha bisogno di qualche scossone per non risultare piatta ed alla lunga noiosa.
Per gli amanti della musica dura, ma con i padiglioni auricolari sempre attenti alle nuove proposte, non mancano invece le proposte che dissetano la loro voglia di uscire dagli schemi.
Chiaro che i riferimenti vanno tutti aldilà dell’oceano e negli ultimi trent’anni di metal/rock, anche per questo trio fiorentino al debutto tramite la Qua’Rock con questo ottimo esempio di metallo pregno di sonorità moderne, amalgamate ad un tiro thrash metal, con riverberi progressivi ed un approccio alternativo.
Loro sono gli Haniwa e appunto questo Helleven è il primo lavoro sulla lunga distanza, dopo un primo ep che è servito per forgiare il sound, ora al massimo della sua potenzialità su questi undici brani.
David Degl’Innocenti, basso e voce, Angelo Colletti chitarre, Mr.Crini batteria, confezionano un lavoro molto interessante, partendo da una base thrash di stampo statunitense (Metallica) ma rivitalizzandolo con dosi massicce di moderno alternative rock, ed una vena progressiva e matura che avvicina il sound alle geniali schermaglie di Devin Townsend.
Un’attenzione particolare alle melodie, un cantato che alterna pura aggressione thrash e grinta rock e qualche passaggio estremo, sono le credenziali di Helleven, che non smette di tenerci incollati alle cuffie fino ai titoli di coda.
C’è da divertirsi tra i meandri della musica degli Haniwa: ritmi incalzanti, esplosive canzoni ricalcalcanti il mood moderno che ha infettato positivamente il thrash  e note destabilizzanti che passano con disinvoltura tra estremismo e voglie alternative.
Una bella bordata che ha nella title track, Volcano e Tides Of Time i suoi picchi, nonché esempi fulgidi del credo musicale del trio toscano, una realtà da seguire con attenzione.

TRACKLIST
01.No More
02.@daggers Drawn
03.Tomorrow
04.Think This
05.Volcano
06.Tides Of Time
07.Haniwa
08.Fire Eyes
09.Return To Obscurity
10.Suffer
11.Helleven

LINE-UP
Angelo Colletti -Guitars
David Degl’Innocenti -Bass and Vocals
Mr. Crini-Drums

HANIWA – Facebook

Abomination – Tragedy Strikes

Tragedy Strikes è la fotografia di un gruppo fondamentale del thrash mondiale nel suo momento migliore, con una prova maiuscola ristampata per la prima volta in 25 anni in vinile dalla Doomentia Records.

Secondo disco per gli Abomination di Chicago, precisazione quanto mai utile, poiché il nome è assai usato nel metal.

Dopo l’omonima opera del 1990, nel 1991 i nostri pubblicano questo disco,un manifesto del thrash metal con fortissime influenze hardcore. Questo disco è la produzione più arrabbiata e politica degli Abomination, cosa che poi il leader Paul Speckmann ripeterà con il suo gruppo successivo, i Master. Il thrash di suo è già un genere abbastanza politicizzato, anche a causa delle sue origini tra hardcore e metal venne usato per protestare. Questo disco in particolare è contro la politica estera del governo Usa. Erano i tempi della guerra nel golfo, ovvero una delle tante bugie raccontate dagli Usa al mondo per fare i propri interessi. Dopo quella guerra il nemico numero uno Saddam Hussein rimarrà tranquillamente al suo posto, ed il resto è storia nota e continua anche ai giorni nostri. Il secondo disco degli Abomination è un thrash hardcore più maturo e meglio prodotto rispetto al precedente, certamente più cupo e potente. Si sente che il gruppo è migliorato e più compatto, maggiormente convinto dei propri mezzi. Tragedy Strikes è la fotografia di un gruppo fondamentale del thrash mondiale nel suo momento migliore, con una prova maiuscola ristampata per la prima volta in 25 anni in vinile dalla Doomentia Records. Spicca anche l’acume politico dei testi di Speckmann, che non sapeva ancora però che il futuro sarebbe stato persino peggiore.

TRACKLIST
1. Blood for Oil
2. They’re Dead
3. Pull the Plug
4. Will They Bleed
5. Industrial Sickness
6. Soldier
7. Kill or Be Killed
8. Oppression

ABOMINATION

Hyaena – Metamorphosis Revisited

Metamorphosis torna in una nuova veste con suoni cristallini che mettono in risalto il metal classico del gruppo toscano

Gabriele Bellini oltre ad essere un grandissimo chitarrista, nonché attuale boss della Qua’Rock, è stato uno dei precursori della scena metal nazionale.

Nel 1985, insieme a Ross Lukather, fondò gli Hyaena dando alle stampe due anni dopo Metamorphosis, demo che incoronò la band come fulgido esempio italiano di New Wave Of British Heavy Metal, genere storico all’epoca ancora nelle preferenze dei fans.
In seguito il gruppo ebbe un discreto successo nel panorama progressivo con due splendidi lavori, The Ground, the Light, the Sound del 1992 e Scene, uscito nel 1995, ma il primo urlo metallico del gruppo rimane un piccolo gioiello che meritava sicuramente più attenzione da parte di fans e addetti ai lavori.
Negli ultimi tempi Gabriele e Ross (nel frattempo protagonisti nella scena metal nazionale con Death SS, Labyrinth, Athena, Ritmenia Zoo, Pulse-R, Shining Fury) tornano a far parlare della loro storica band e, unite le forze con la cantante Claire Briant Nesti e la bassista Isabella Ferrari, con la produzione di Giacomo Jac Salani fanno risplendere i sei brani che componevano lo storico demo, aggiungendovi la spettacolare cover di Phenomena dei Goblin.
Metamorphosis così torna in una nuova veste, con suoni cristallini che mettono in risalto il metal classico del gruppo toscano, in un’altalena di sfumature NWOBHM e metallo statunitense, con la chitarra di Bellini che taglia il ferro, chirurgica ed ispirata, l’ottimo lavoro di Lukater e della Ferrari nelle ritmiche, valorizzati poi da una prestazione di spessore dalla nuova vocalist, interpretativa e personale nella sua varia performance.
Metamorphosis parte forte con la title track, brano british al 100%, carico di adrenalina, con la sei corde che disegna teschi in cielo tra tuoni e fulmini, un mid tempo heavy metal esemplare.
Wrath Child corre via con ritmiche power, per poi rallentare e rientrare nei ranghi del classico metal ottantiano, epico e fiero, mentre No Man’s Land risulta un crescendo di tensione dove la prova della Nesti diventa sontuosa, marchiando a fuoco il brano con cori operistici presi in prestito dalla sua band, i power/prog metallers Inside Mankind.
Da Behind The Wall in poi il sound si sposta sul versante americano: il metal degli Hyaena, pur mantenendo un approccio europeo, si avvicina ai Riot di Mark Reale quali ispiratori di cavalcate metalliche urlanti come Kill Without Mercy e Screams For Savannah, mentre la già citata cover di Phenomena lascia in noi la speranza di rivedere il gruppo sul mercato con un lavoro di inediti.
I suoni old school, specialmente nell’underground, stanno piano piano tornando tra le preferenze degli ascoltatori e non è detto che ciò costitusica un passo indietro, anzi …

TRACKLIST
1. Metamorphosis
2. Wrathchild
3. No Man’s Land
4. Behind the Wall
5. Kill Without Mercy
6. Screams for Savannah
7. Phenomena

LINE-UP
Ross Lukather – Drums
Gabriele Bellini – Guitars
Isabella Ferrari – Bass
Claire Briant Nesti- Vocals

HYAENA – Facebook

The Ghost I’ve Become – Hollow

Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Hollow è un breve ep che costituisce il passo d’esordio dei finlandesi The Ghost I’ve Become.

Trattandosi di un lavoro immerso mani e piedi nel gothic death doom melodico, la provenienza geografica dei suoi autori rimanda automaticamente agli imprescindibili Swallow The Sun e susseguente genia, ma sarebbe riduttivo limitarsi a questo semplice paragone, specialmente quando il livello compositivo esibito è elevatissimo come in questo caso.
E’ da rimarcare, infatti, come la band proveniente dal nord della Finlandia (Oulu, nella parte alta del Golfo di Botnia) in questi intensi venti minuti metta a frutto sicuramente la lezione degli influenti connazionali, prendendo però anche il giusto dalla scuola americana (Daylight Dies) ed esibendo un gusto melodico ed una sensibilità di tocco che rimanda ai grandi Hamferð.
Ne consegue che, grazie a tale mirabile sintesi stilistica, questo breve ep si preannuncia come la probabile epifania di un’altra stella nel panorama del doom estremo: il quintetto finnico mette in mostra una tecnica solidissima, al servizio di uno stile compositivo che non prevede passaggi interlocutori ma soltanto momenti ricchi di malinconico pathos.
Da notare la presenza in line-up di Waltteri Väyrynen, giovane batterista che da quest’anno fa parte in pianta stabile niente meno che dei Paradise Lost, il che depone a favore di capacità tecniche oltre la media, ma i suoi compagni non sono affatto da meno, a partire dal bravissimo Jomi Kyllönen, a suo agio sia con evocative clean vocals che con un roccioso growl.
Un lavoro fugace per durata ma prezioso per contenuti: The Ghost I’ve Become è un bellissimo monicker per una band la cui prima prova su lunga distanza potrebbe sconvolgere a breve le gerarchie del genere.

Tracklist:
1.Forever Gone
2.Cold, My Sweet Delight
3.Behind the Curtain

Line-up:
Vocals – Jomi Kyllönen
Guitars – Lauri Moilanen
Guitars – Joonas Kanniainen
Bass – Aku Varanka
Drums – Waltteri Väyrynen

THE GHOST I’VE BECOME – Facebook

Sabaton – The Last Stand

L’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.

Tornano i guerrieri di Falun con l’ottavo lavoro sulla lunga distanza di una carriera che li ha visti arrivare fino ai vertici nelle preferenze degli amanti del power metal epico e, in questi anni di suoni moderni e contaminazioni varie che imbastardiscono (spesso con ottimi risultati, chiariamolo) il nostro amato metal, non è cosa da poco.

La band svedese si è appunto costruita una reputazione che solo i gruppi con una marcia in più e benedetti dal dio metallo possono vantarsi d’avere, e poco conta se questo The Last Stand dividerà la critica e forse i fans, l’epicità valorizzata da orchestrazioni melodiche sopra le righe, la fierezza e l’impatto uniti ad un approccio da true defenders sono ancora ben in vista nel sound del battaglione Sabaton.
Un album scritto per intero in tour, con una miriade di date live che hanno tenuto la band in giro per il mondo praticamente dall’uscita del precedente Heroes, non hanno minato lo spirito con cui i Sabaton si approcciano al power metal epico con cui sono diventati uno dei gruppi più amati e seguiti della scena, confermato da un’opera che se lascia qualcosa indietro per quanto riguarda furia e durezza metallica, si impreziosisce valorizzando l’aspetto melodico.
Peter Tägtgren ha prodotto l’album, una garanzia per la qualità dei suoni di The Last Stand, che letteralmente esplodono metallici e sontuosamente orchestrali, attraversando i secoli tra scontri e battaglie vissute in diverse epoche storiche.
Dai 300 guerrieri di Sparta, alla prima guerra mondiale, dalla Scozia dei clan (Tunes Of War docet), ai samurai nel Giappone degli imperatori, The Last Stand trascina in epoche e fatti dove i comuni denominatori sono sangue e valore, eroi vincenti o sconfitti, sempre sotto il segno dei guerrieri di Falun.
Se il sound del gruppo aveva bisogno di una rinfrescata, l’uso più marcato delle melodie ed un’occhiata all’hard rock (che ricordo in Svezia è tradizione, ancora prima del successo dei suoni estremi), direi senz’altro che la band ha raggiunto il suo scopo, forte di brani dal grande appeal (su tutti la splendida Blood of Bannockburn), non facendo mancare gli inni epici per cui sono diventati famosi e che già dall’opener Sparta faranno crogiolare i vecchi fans della band.
I cori vi inviteranno come sempre ad urlare al cielo la vostra fiera appartenenza al popolo metal, le tastiere di scuola hard rock smuoveranno i vostri fondo schiena, le ritmiche faranno sbattere le vostre teste e le asce sanguineranno quando entreranno nel petto del nemico.
Da un album del genere pretendere di più è puro eufemismo…

TRACKLIST
1. Sparta
2. Last Dying Breath
3. Blood of Bannockburn
4. Diary of an Unknown Soldier
5. The Lost Battalion
6. Rorke’s Drift
7. The Last Stand
8. Hill 3234
9. Shiroyama
10. Winged Hussars
11. The Last Battle

LINE-UP
Joakim Brodén-Vocals
Chris Rörland-Guitars
Pär Sundström-Bass
Hannes Van Dahl-Drums

SABATON – Facebook

Höllenbriada – Harte Zeit

La più scatenata quarantina di minuti da un po’ di tempo a questa parte, tra hard rock, una spruzzata di metallo stradaiolo e chorus da urlare a squarciagola.

Se per voi Axel Rose negli Ac/Dc ci sta come i cavoli a merenda, se gli ultimi album dello storico quintetto australiano sono stati solo mere operazioni commerciali per portare la band in tour, lasciate davanti all’ufficio dell’Inps i fratelli Young ed abbracciate i bavaresi Höllenbriada, un gruppo di irriverenti rockers tedeschi che se musicalmente non si allontanano dalla band di Highway To Hell, ne modernizzano il sound e soprattutto cantano in tedesco.

Ne esce un album divertentissimo, puro hard rock irrefrenabile di cui diventa davvero difficile fare a meno.
Certo, l’originalità sta tutta nel cantato in lingua madre del gruppo di Dani Zizek, chitarrista con un passato in una cover band (indovinate un po’?) degli Ac/Dc, ma al netto di questo fattore Harte Zeit risulta un album molto trascinante.
Birra a fiumi, seni prosperosi di bionde valchirie alte due metri e via verso la più scatenata quarantina di minuti  da un po’ di tempo a questa parte, tra hard rock, una spruzzata di metallo stradaiolo e chorus da urlare a squarciagola, anche se il tedesco non è poi così semplice da memorizzare, ma chi se ne frega, qui ci si diverte alla grande.
La title track singolo dell’album, l’incendiaria Wenn Du Moanst, il blues strascicato di Alls Verloarn ed il rock’n’roll di Morga Friah Is d’Nocht Vorbei sono solo alcune delle adrenaliniche tracce di questa botta di vita che non fa prigionieri e regala finalmente un po’ di sano hard rock come il diavolo comanda.
Detto che la produzione è perfetta per far esplodere i brani e la voce particolare di Boris Scheifele, sommata alla lingua tedesca, non fa che rendere il tutto ancora più irriverente e sfrontato, consiglio di non perdervi per nulla al mondo questo lavoro, non ve ne separerete per molto, molto tempo.

TRACKLIST
1.Harte Zeit
2.So A Dog
3.Z’east a halbe
4.Wenn du moanst
5.Alls verloarn
6.Höllenbriada
7.Ja woher
8.Schwarzer Finger
9.Morga friah is d’ Nacht vorbei
10.Auf geht’s prost
11.Niedergschlong

LINE-UP
Boris Scheifele – Bass, Vocals
Dani Zizek – Guitars, Vocals
Markus Heilmeier – Guitars
Tobias Sailer – Drums

HOLLERBRIADA – Facebook

Morbo / Bunker 66 – Into The Morbo Bunker

Uno split che dura poco, ma che in dodici minuti esprime più cose che alcuni dischi doppi, con un fantastico thrash cupo.

Split programmatico di cosa potete aspettarvi dalla Doomentia Records: thrash metal fuori moda e come se piovesse.

In questo split uniscono le forze gli italiani Morbo e Bunker 66, per dodici minuti di thrash a centomila all’ora, fuori moda e potentissimo. Queste band sono due grandissimi gruppi underground che fanno musica per chi vuole sentirla senza voler piacere a nessuno. I Morbo propongono un thrash più orientato verso il death,di notevole effetto con una produzione che lascia il giusto spazio al suono vintage. Ascoltandoli sembra di tornare a quei dischi di gruppi americani anni novanta a cavallo tra thrash e death, ma i Morbo da Roma sono anche meglio. Le scelte all’interno delle loro canzoni sono tutte azzeccate, e vanno come dei treni.
La seconda parte dei questa associazione a delinquere sono i siciliani Bunker 66, che saranno già sicuramente noti a chi ama un metal grezzo totalmente anni ottanta. I Bunker 66 hanno visto il ritorno del loro cantante originale Schizo, e questa è la loro prima registrazione assieme dopo il ritorno. Il loro suono in questi due pezzi si avvicina ancora di più all’hardcore e al thrashcore anni ottanta e novanta. Il loro suono è sempre assai notevole, e a mio modesto avviso sono uno dei gruppi migliori nel settore. Uno split che dura poco, ma che in dodici minuti esprime più cose che alcuni dischi doppi, con un fantastico thrash cupo. Musica grezza, metallica e incredibilmente bella, per metalliche teste malate.

TRACKLIST
1. Morbo – Per Legem Mortuorum
2. Morbo – Cross Tormentor
3. Bunker 66 – The Merciless March
4. Bunker 66 – The Force

LINE-UP
Bunker 66
Damien Thorne – Bass, Vocals
Desekrator of the Altar – Drums
Bone Incinerator – Guitar

Morbo
Mirko – Vocals
Andrea – Guitars

DOOMENTIA – Facebook

Rosàrio – And The Storm Surges

And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

Dalla collaborazione di una manciata di etichette indipendenti esce il secondo lavoro dei Rosàrio, band padovana di stoner psichedelico dall’alto voltaggio.

Il gruppo, nato appena tre anni fa e, come detto, già alla seconda opera sulla lunga distanza è una delle migliori realtà nel panorama stoner metal nazionale, confermata da questo monumentale lavoro, non facile da assimilare ma molto suggestivo.
Dimenticatevi le semplici sonorità tanto in voga negli ultimi tempi, il quintetto nostrano ci invita ad un viaggio nella storia dell’evoluzione dell’uomo come individuo, a colpi di stoner metal violentato da sonorità che passano dal doom/sludge al rock psichedelico, colmo di chitarroni saturi ed atmosfere intimiste, in un susseguirsi di parti rallentate ed esplosioni di watt potentissime.
Ben interpretate da una voce calda e ruvida le tracce si danno il cambio, instancabili, mantenendo la tensione elettrica molto alta con picchi di travagliata drammaticità, come il percorso dell’individuo che da semplice coscienza di sé passa ad un paradigma di onnipotenza creativa (come descritto dalla stessa band).
Dicevamo, non semplice da assimilare ma molto affascinante, And The Storm Surges con il suo lento incedere si trasforma in un lungo e tormentoso viaggio verso la consapevolezza, con il gruppo che sottolinea questa metamorfosi con violenti cambi di umori musicali, in un continuo saliscendi tra monolitiche parti doom e rabbiose sfuriate alternative/stoner, ricoperte da un sottile strato psych che eleva di molto l’appeal malsano e fumoso di brani come Drabbuhkuf e le bellissime Canemacchina e Dawn Of Men.
Il viaggio si conclude con il piccolo capolavoro And Then… Jupiter, brano super stonato e che si rivela come una ipotetica jam tra Kyuss e Tool, straordinaria conclusione di un lavoro alquanto maturo.
And The Storm Surges è un album dal taglio internazionale, ben curato in ogni dettaglio e superiore alla media, nonostante sia inserito in un genere che da anni regala enormi soddisfazioni in termini qualitativi.

TRACKLIST
Side A – Creak
1- To Peak And Pine
2- Drabbuhkuf
3- Vessel Of The Withering
Side B – Harvest
4- Livor
5- Radiance
Side C – Bedlam
6- I Am The Moras
7- Canemacchina
Side D – Sunya
8- Dawn Of Men
9- Monolith
10- And Then… Jupiter

LINE-UP
Nicola Pinotti- Guitar
Fabio Leggiero-Bass
Alessandro Magro-Vocals
Riccardo Zulato- Guitar
Alessandro Bonini-Drums

ROSARIO – Facebook

In The Woods… – Pure

Gli In The Woods… sono nuovamente tra noi, differenti forse, ma sempre capaci di esprimersi ad un livello qualitativo sconosciuto ai più.

A metà degli anni ’90, nel pieno dell’ondata black che arrivò a stravolgere buone e cattive abitudini del metal estremo, apparvero più o meno dal nulla gli In The Woods…, band che dal genere prendeva certamente le mosse per spingersi senza porsi troppi limiti verso orizzonti psichedelico progressivi che, solo in seguito, troveranno un certo successo grazie a nomi quali Arcturus, Ulver e Solefald.

Heart Of The Ages (1995) e il successivo Omnio (1997) furono dei veri fulmini a ciel sereno che arrivavano a dimostrare quanto quella genia di musicisti non fosse in grado di farsi notare solo per un’urgenza espressiva selvaggia, che spesso trovava sfogo anche al di fuori del campo artistico, ma avesse in nuce le stimmate di un talento e di un potenziale innovativo che sarebbe emerso negli anni a venire.
Un meno brillante Strange in Stereo, nel 1999, pareva aver segnato la fine di usa storia trascinatasi fino all’uscita del live del 2003, andando a collocare gli In The Woods… nell’affollato novero delle band di culto, quelle capaci di restare impresse nell’immaginario degli ascoltatori pur avendo dato il meglio in una manciata di dischi racchiusa in un breve spazio temporale.
E invece, neppure gli In The Woods… si sottraggono alla tentazione della reunion, che vede alle prese tutti e tre i fondatori (i fratelli Botteri e Anders Kobro) raggiunti dal muscista inglese James Fogarty alias Mr.Fog.
Veniamo al dunque, quindi, parlando del nuovo album intitolato Pure: l’ispirazione pare non essere stata annacquata dal trascorrere del tempo, ma appare evidente quanto questo lavoro sia in qualche modo più fruibile rispetto ai capolavori di metà anni ’90, pur mantenendo intatta l’attitudine avanguardista della band norvegese.
Non che questo sia un male, chiariamolo: Pure è davvero un bellissimo disco, che in oltre un’ora di durata va a lambire tutte le sfumature sonore alle quali i nostri ci avevano abituato ma, tenendo conto dell’evaporazione dell’effetto sorpresa che esaltava i contenuti di Heart Of The Ages ed Omnio, va letto in un’ottica diversa rispetto al passato.
L’errore più grande che può commettere chi ha amato quei lavori è attendersi da questa nuova uscita, targata Debemur Morti, qualcosa di simile per freschezza e potenziale innovativo: gli In The Woods…, contrariamente alle attese, vanno molto più diretti alla ricerca dell’obiettivo, raggiungendolo tramite brani intrisi di splendide melodie, alternate a qualche robusta accelerazione che non va però ad incrinare un substrato fondamentalmente progressive, al quale il retaggio black dona quel velo di oscurità e malinconia che rende magnifica più di una traccia.
Emblematica sicuramente la trascinante title track, posta in apertura, che trova subito un suo possibile contraltare nella cupezza della successiva Blue Oceans Rise; i rallentamenti ai confini del doom di The Recalcitrant Protagonist e l’intensità di Cult Of Shining Stars sono anch’essi segni indelebili di una classe che non è andata perduta ma, se persistessero ancora dei dubbi, i venticinque minuti conclusivi rimarcano quanto questa band alla fin fine ci sia mancata, perché le splendide e suadenti atmosfere del lungo strumentale Transmission KRS ed il crescendo evocativo di This Dark Dream e Mystery Of The Constellations non sono un qualcosa che possa uscire dalla penna di musicisti appena nella media.
Siamo nel 2016, gli In The Woods… sono nuovamente tra noi, differenti forse, ma sempre capaci di esprimersi ad un livello qualitativo sconosciuto ai più. Bentornati.

Tracklist:
1.Pure
2.Blue Oceans Rise (Like A War)
3.Devil’s At The Door
4.The Recalcitrant Protagonist
5.The Cave Of Dreams
6.Cult Of Shining Stars
7.Towards The Black Surreal
8.Transmission KRS
9.This Dark Dream
10.Mystery Of The Constellations

Line-up:
James Fogarty – Vocals, Guitars and Keys
X-Botteri – Guitars
C:M Botteri – Bass
Anders Kobro – Drums

IN THE WOODS… – Facebook

Mercyless – Pathetic Divinity

Pathetic Divinity ci assale senza soluzione di continuità con la sua carica estrema, ben dosata tra rallentamenti ed accelerazioni terrificanti

Gli anni novanta sono stati per il death metal quello che il decennio precedente fu per l’heavy classico, un brulicare di realtà nelle varie scene sparse per il mondo, ed una sequela di album divenuti storici e che hanno contribuito in modo esponenziale allo sviluppo ed al successo del genere.

Erano anni in cui la disfida tra la tradizione scandinava e quella americana era intervallata realtà provenienti da altre terre, ma non meno importanti.
In Europa, oltre alla Germania, il Regno Unito e l’Olanda, nei paesi con meno tradizione metallica non erano poche comunque le band che a modo loro e con i pochi mezzi a disposizione portavano avanti a suon di bombardamenti musicali la cultura estrema di stampo death.
In Francia, una delle più importanti erano sicuramente i Mercyless, attivi già sul finire degli anni ottanta e che nel 1992 diedero alle stampe Abject Offerings, esordio diventato un cult tra gli appassionati.
Altri tre album fino al 2000 e poi un lungo stop durato tredici anni, hanno caratterizzato la storia del gruppo transalpino, fino al 2013 e a Unholy Black Splendor, che ne suggellava il ritorno.
Pathetic Divinity conferma la nuova verve compositiva del combo che, dopo appena tre anni, uno split con i connazionali Crusher (le tracce sono inserite nell’album come bonus), ed un live album, ritorna per Kaotoxin e riprende le ostilità.
Una band dal sound europeo, confermato anche da questo devastante lavoro, pregno di quella natura colma di odio contro un sistema politico religioso ormai obsoleto e sonorità che rientrano tranquillamente nel calderone dei gruppi death metal classici o, come va di moda oggi, definibili in old school.
D’altronde stiamo parlando di un gruppo storico, la musica prodotta è riconducibile a molte delle band in attività da più di vent’anni, non ispirazioni od influenze ma un ottimo esempio di quello che sa dare il death metal classico suonato da chi ha le carte in regola per farlo.
Dal primo all’ultimo minuto Pathetic Divinity ci assale senza soluzione di continuità con la sua carica estrema, ben dosata tra rallentamenti ed accelerazioni terrificanti, buoni cambi di tempo che variano le soluzioni compositive quel tanto che basta e potenziato da un impatto notevole.
Il gruppo suona sostenuto dalla molta esperienza ma con l’entusiasmo di una giovane band e la title track, My Name Is Legion e Christianist soprattutto ne trovano giovamento.
Per i troppo giovani o i distratti il sound della band trova le sue origini tra i solchi di album immortali per il genere scritti a suo tempo dai Grave, Asphyx, Obituary e compagnia cimiteriale, quindi assolutamente da avere se siete deathsters incalliti.

TRACKLIST
1. Blood of Lambs
2. Pathetic Divinity
3. A Representation of Darkness
4. My Name Is Legion
5. Exhort the Heretic
6. Left to Rot
7. Eucharistic Adoration
8. Christianist
9. How Deep Is Your Hate?
10. Liturgiae
11. Bless Me Father [“Blast from the Past” split 2015]
12. Probably Impure [“Blast from the Past” split 2015]
13. Eucharistic Adoration [“Blast from the Past” split 2015]

LINE-UP
Max Otero – Vocals, Guitars
Matthieu Merklen – Bass
Laurent Michalak – Drums
Gautier Merklen – Guitars

MERCYLESS – Facebook

https://www.youtube.com/watch?v=2dIlvem6xIM

Abomination – Abomination

Ascoltare un disco come questo è andare alle radici del thrash, e coglierlo nel suo momento forse migliore, anche se fortunatamente il thrash è un’erba maligna e non morirà mai.

Ristampa in lp di un album fondamentale per la scena thrash death metal degli anni ottanta e novanta. Uscito originariamente nel 1990, venne dopo un demo omonimo, e vide la luce grazie agli sforzi soprattutto di Paul Speckmann, figura leggendaria della scena metal statunitense, già nei Master, Deathstrike e al tempo di questo disco anche nei Funeral Bitch.

Come raccontato dallo stesso Speckmann lui praticamente provò in segreto con altri musicisti, e si può affermare che rubò il nome Abomination dal gruppo dove suonava come batterista Aaron Nickeas. Il gruppo firmò un contratto con la Nuclear Blast, pubblicando il primo omonimo disco, ora ristampato per la prima volta in vinile dalla Doomentia Records. Questo disco è il figlio perfetto della sua epoca, e non erano tempi facili, ma forse migliori di questi che stiamo vivendo. L’eroina stava vivendo i suoi ultimi tempi d’oro, come raccontato nella iniziale The Choice, otto minuti di durata per aprire la carriera di un gruppo thrash death non è certo quella che si può definire una scelta facile. Lo stile del gruppo è un thrash metal molto potente e vicino all’hardcore, come usava all’epoca. La band di Chicago, Illinois fa particolarmente bene questo genere, e vi aggiunge in qualche passaggio un timido avvicinamento al death. Abomination è un disco ancora grezzo nel suo nucleo, ma molto potente e sicuramente sopra la media, sia dell’epoca che di quella attuale. I temi sono personali e politici, dato che questa musica era di protesta, cosa che poi gli Abomination sublimeranno con il disco successivo Tragedy Strikes. Ascoltare un disco come questo è andare alle radici del thrash, e coglierlo nel suo momento forse migliore, anche se fortunatamente il thrash è un’erba maligna e non morirà mai.
Grande opera di riscoperta per un ottimo disco, che è anche l’occasione per chi non lo conoscesse ancora di addentrarsi nella notevole opera metallica di Paul Speckmann.

TRACKLIST
1 The Choice
2 Murder, Rape, Pilage and Burn
3 Reformation
4 Redeem Deny
5 Possession
6 Suicidal Dreams
7 Life and Death
8 Victim of the Future
9 Tunnel of Damnation

LINE-UP
Paul Speckmann – Vocals, Bass
Aaron Nickeas – Drums
Dean Chioles – Guitars

ABOMINATION – Facebook

Szarlem / Drengskapur – Ritual

Un 7″ per per fans accaniti, un modo per conoscere due realtà dalla forte impronta underground in un genere che solo nel sottobosco ritrova la sua vera natura.

La Folte Records ci presenta questo split che vede in azione due black metal band tedesche: la one man band Szarlem e il duo berlinese Drengskapur.

Un brano a testa per questo 7″ dall’attitudine che definire underground è un eufemismo: il primo, In the Glare of Fire, vede protagonista Avenger, polistrumentista attivo sotto il monicker Szarlem da una decina d’anni ed una discografia che, oltre ad una manciata di lavori minori, vede il nostro alle prese con due full length: Night of Blood uscito nel 2008 e Black Medieval Battle Hymns licenziato tre anni orsono.
Black metal oscuro e dalla forte connotazione occulta, un mid tempo atmosfericamente freddo ed uno scream disperato rendono il brano pregno di sfumature estreme e misantropiche, Avenger ci prende per mano e ci accompagna nel suo mondo dove la luce è solo un ricordo e l’oscurità domina.
Davvero inquietante lo scream, pura disperazione di un’anima tormentata dai demoni, mentre il sound non si discosta da un mid tempo raggelante, nel complesso una song affascinante.
Mitternachtsstund è il brano proposto dal duo berlinese Drengskapur, attivo dai primi anni del nuovo millennio e con tre album alle spalle incisi nell’arco di sette anni tra il 2006 ed il 2013 ( Geist der Wälder, Von Nebel umschlungen e Der Urgewalten Werk).
Formato da Wintergrimm (voce e chitarra) e Hiverfroid alle pelli, il combo produce un sound raw black metal ispirato alla natura e al paganesimo, sicuramente dalla forte attitudine ma estremamente consolidato nei cliché del genere evil per antonomasia.
Un 7″ per per fans accaniti, un modo per conoscere due realtà dalla forte impronta underground in un genere che solo nel sottobosco ritrova la sua vera natura.

TRACKLIST
Side A
1. Szarlem – In the Glare of Fire
Side B
2. Drengskapur – Mitternachtsstund’

LINE-UP
Szarlem
Avenger – All instruments, Vocals

Drengskapur
Wintergrimm – Vocals, Guitars
Hiverfroid – Drums

http://www.facebook.com/Drengskapur.de?fref=ts

Killin’ Baudelaire – It Tastes Like Sugar

Ora sta a voi lasciarvi ammaliare musicalmente dalle Killin’ Baudelaire, aspettando nuovi sviluppi e godendovi questo ottimo It Tastes Like Sugar.

Quattro brani bastano per entrare nei cuori dei giovani ascoltatori cresciuti ad alternative rock ?
Ascoltando questo primo ep delle Killin’ Baudelaire direi di si.

Le quattro bellissime (ma non solo) musiciste, debuttano con addosso gli occhi puntati degli addetti ai lavori: il loro It Tastes Like Sugar sta creando molte aspettative, assolutamente ben riposte visto il potenziale altissimo dei brani racchiusi nell’ep.
Prodotta da Titta Morganti, la band si destreggia tra la materia alternative con ottima padronanza del sound ed un buon uso dei ferri del mestiere: è un rock che non manca di graffiare, partendo da lontano e assumendo l’indole stradaiola infarcita di soluzione metalliche, ma nel suo viaggio lungo il nuovo millennio si riveste di soluzioni alternative, rendendosi appetibile a più palati, ed esaltandosi con melodie catchy, refrain ruffiani e tanto appeal.
In verità le tracce inedite sono tre (Summertime Sadness è la cover di un brano di Lana Del Rey) e letteralmente fanno faville con chorus perfettamente incastonati nel rock che si incendia di liquido metallico, ritmi che lasciano al groove il comando delle operazioni e chitarre che non lasciano dubbi sulla voglia di lasciare il segno del quartetto.
Aggiungete un monicker originale, un titolo che lascia alla fantasia di ognuno di noi la giusta interpretazione su un argomento delicato come l’amore (“è‘ un gioco di parole che lega immediatamente all’immagine, ma che secondariamente vuole riferirsi al concetto dell’Amore. Un Amore che si supponga sappia di zucchero, ma che come ogni umana manifestazione, possiede anche un lato oscuro…”), ed il gioco è fatto.
Ora sta a voi lasciarvi ammaliare (musicalmente) dalle Killin’ Baudelaire, aspettando nuovi sviluppi e godendovi questo ottimo It Tastes Like Sugar.

TRACKLIST
1. Wasted
2. The Way She Wants
3. Summertime Sadness (Lana Del Rey Cover)
4. Riddle

LINE-UP
Gloria Signoria – Vocals and Bass
Martina Nixe Riva – Guitar
Francesca Bernasconi – Guitar
Martina Cleo Ungarelli – Drums and Vocals

KILLIN’ BAUDELAIRE – Facebook

Kypck – Zero

Un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai Kypck.

Quando nel 2008 uscì l’album d’esordio Cherno, i Kypck forse non vennero presi da tutti abbastanza sul serio per diversi motivi: intanto, perché dei finlandesi dovrebbero cantare in russo ed utilizzare l’alfabeto cirillico per il monicker ed i titoli dell’album e delle canzoni? Inoltre che ci fa uno come Sami Lopakka (ex-Sentenced) in una band che suona un doom greve come pochi ?

Quesiti fondati che il tempo ha dissipato fornendo ampie risposte: i suddetti Kypck sono una band che è stata capace nel tempo di creare un proprio marchio e, soprattutto, una forma di doom comunque personale e riconoscibile, non solo per la lingua utilizzata. Per quanto riguarda la partecipazione di Lopakka, a posteriori è apparso chiaro a tutti che su questo progetto il chitarrista aveva puntato seriamente fin da subito, e dal 2011 la presenza di ex-Sentenced in formazione si è raddoppiata con l’ingresso dell’altro Sami, Kukkohovi, ai tempi bassista e qui seconda chitarra, visto che l’ossessivo basso ad una corda viene maltrattato da J. T. Ylä-Rautio. A completare il quintetto vi sono il batterista A.K. Karihtala, anch’egli con un passato illustre nei disciolti Charon, e soprattutto il cantante Erkki Seppänen (Dreamtale), portatore sano del verbo sovietico con la sua padronanza della lingua.
Dopo quattro full length che hanno visto aumentare il seguito della band, in Russia ovviamente, ma non solo, l’autunno del 2016 è il momento dell’uscita di Зеро (Zero), un lavoro che non fa altro che rafforzare la meritata fama raggiunta dai nostri.
Partendo da un immaginario abbondantemente indirizzato dal monicker (la traslitterazione è Kursk, ovvero la città sede della più grande battaglia tra carri armati della seconda guerra mondiale, ma anche il nome del sommergibile atomico che nel 2000 si trasformò in un enorme bara sottomarina per oltre cento sventurati), il sound dei Kypck è quindi un doom che, se per certi versi appare vicino alla tradizione, dall’altra mantiene un’inquietudine di fondo che lo avvicina, solo emotivamente, al funeral. Un contributo decisivo al senso di oppressione provocato dal sound dei finnici lo offre l’esasperato ribassamento delle accordature simboleggiato dal basso monocorde di Ylä-Rautio, grazie al quale le numerose parvenze melodiche assumono un’aura alquanto sinistra .
Proprio il suo porsi in una sorta di terra di mezzo tra il doom di stampo classico e quello estremo è mio avviso la forza dei Kypck, assieme al fatto di far dimenticare fin dalla prima nota che la band non è russa, tale e tanta la sua immedesimazione nella parte.
Emblematica, per solennità e potenziale evocativo, è una canzone come Mne otmshchenie, forse la migliore del lotto assieme all’iniziale e leggerissimamente più orecchiabile Ya svoboden (non a caso scelta per accompagnarvi un video) e alla conclusiva Belaya smert, ma in fondo è il disco nel suo insieme a mostrare una compattezza sorprendente, risultando avvincente dalla prima all’ultima nota.
Non un lavoro facile, Zero, e forse non piacerà neppure a diversi adepti del doom in virtù proprio del suo oscillare tra sonorità sabbathiane esasperate all’ennesima potenza e pulsioni estreme di fatto inibite, quasi venissero lasciate implodere all’interno di un sound che resta costantemente minaccioso.
Un disco affascinante ma non per tutti, l‘unico dato certo è che i Kypck sono una band magnifica, altro non c’è da aggiungere.

Tracklist:
01. Ya svoboden [I Am Free]
02. 2017
03. Mne otmshchenie [Vengeance Is Mine]
04. Progulka po Neve [Stroll by the Banks of Neva]
05. Na nebe vizhu ya litso [I See a Face in the Sky]
06. Moya zhizn [My Life]
07. Poslednii tur [The Last Tour]
08. Rusofob [Russophobe]
09. Baikal
10. Belaya smert [White Death]

Line-up:
J. T. Ylä-Rautio – Bass
S. S. Lopakka – Guitars
E. Seppänen – Vocals
A.K. Karihtala – Drums
S. Kukkohovi – Guitars

KYPCK – Facebook

Torrefy – The Infinity Complex

Continua così il viaggio del gruppo tra thrash, death, black e metal classico, una conferma ed un gradito ritorno

A distanza di due anni dal primo lavoro (Thrash And Burn), recensito dal sottoscritto sulle pagine di iyezine, tornano più spietati che mai i canadesi Torrefy, thrash band di Victoria.

Anche The Infinity Complex, come già il primo album, risulta una cascata di note estreme che se dal thrash di scuola europea prende molte caratteristiche ha in sé un’anima evil che, estremizza il sound quel tanto che basta per avvicinarlo a tratti al death melodico.
Un ibrido non male, ancora più accentuato in questo lavoro, una lunga discesa (più di un’ora) nei meandri del thrash metal old school, accompagnata dalla voce estrema del buon John Ferguson, cattivissima ed indemoniata.
Rispetto alla prima produzione il sound si è ancora più estremizzato, raggiungendo picchi estremi notevoli, il gruppo sembra aver trovato definitivamente la sua strada, per arrivare alle porte dell’inferno.
Quelle che una volta erano parti ritmiche potenti, ma col freno a mono leggermente tirato, ora si sono trasformate in furiose e velocissime cavalcate thrash, arrembanti e senza compromessi.
Molto migliorati sotto l’aspetto puramente tecnico, i Torrefy non si limitano a distruggere, ma inanellano una serie di brani dal massacro assicurato e chirurgici, specialmente nel lavoro delle due asce con riff e solos che non lasciano tregua.
Unico difetto, se mi si concede, è una prolissità di fondo che nel genere rischia di far faticare troppo gli ascoltatori distratti, le pause non mancano, ma il minutaggio dai brani che mantiene una media sui sei/sette minuti, per il genere si può considerare una scelta coraggiosa ma pericolosa.
Un peccato, perché a ben sentire sono le tracce più lunghe quelle che esprimono tutta la qualità del gruppo canadese: Hypochongea, Blinding the Beholder e Celestial Warfare dal mood che rasenta il black metal, sono il cuore e l’anima malvagia di The Infinity Complex.
Continua così il viaggio del gruppo tra thrash, death, black e metal classico, una conferma ed un gradito ritorno, se non avrete fretta e vi farete coinvolgere dal sound della band canadese, The Infinity Complex sarà senza dubbio un ottimo ascolto.

TRACKLIST
1. Planck Epoch
2. The Singularity
3. Hypochongea
4. Blinding the Beholder
5. Thrashist Dictator
6. Killed to Death
7. Infinity Complex
8. Celestial Warfare
9. Trial by Stone

LINE-UP
Simon Smith – Bass
Daniel Laughy – Drums
Adam Henry – Guitars (lead)
Ben Gerencser – Guitars (rhythm)
John Ferguson – Vocals

TORREFY – Facebook