Obseqvies – The Hours Of My Wake

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

L’album d’esordio degli Obseqvies riporta prepotentemente alla ribalta il miglior funeral doom melodico ed atmosferico.

Di questa band si sa poco o nulla, se non che proviene dalla Finlandia, il che rappresenta una sorta di bollino di garanzia quando si parla di questo genere: la naturale conseguenza non può che essere quella di affidare alla musica il compito di raccontare agli ascoltatori l’ennesimo doloroso capitolo di una storia che trova sempre nuova linfa e magnifici interpreti, nonostante il suo risibile appeal commerciale.
The Hours Of My Wake riparte pressapoco da dove ci avevano lasciato gli Ea con il loro ultimo album del 2013, con un sound però ancor più curato e ammantato di un’aura oscura e leggermente meno melodica, includendo anche alcuni spunti che riconducono agli Shape Of Despair; l’esito non può che essere esattamente ciò che vorrebbe sempre ascoltare chi adora questo genere: ritmiche bradicardiche e variazioni di tono quasi impercettibili ma costanti, fondamentali per accrescere il pathos.
Grazie anche ad un growl che per profondità si avvicina non poco a quello di Daniel Neagoe, i tre lunghi brani si trascinano dolenti per quasi un’ora con la loro ricetta essenziale ma sempre di grande efficacia, con gli Obseqvies che affidano il lavoro di costruzione melodica alle tastiere e mettono in scena, alla fine, una litania funebre che non può lasciare indifferenti gli animi più sensibili.
Soloqvam è un brano di squassante bellezza, con il cantato che nella parte conclusiva diviene uno straziante screaming, indicativo del fatto che il risveglio al quale fa riferimento il titolo non dev’essere stato esattamente quello auspicato; Dawning è una traccia relativamente più aspra nella parte iniziale ma destinata a divenire più ariosa con i suoi accenni ad un canto di tipo monastico, mentre Cold è l’ideale unione tra i diversi spunti offerti in precedenza, per quanto tali scostamenti possano essere pressoché impercettibili per orecchie poco esperte.
Contrariamente ad un avvio illusoriamente consolatorio, il lavoro degli Obseqvies assume via via toni sempre più disperati con inesorabile e costante lentezza; il sonno eterno resta pur sempre la soluzione finale e più sicura, indipendentemente da come la si voglia pensare.

Tracklist:
1. Soloqvam
2. Dawning
3. Cold

OBSEQVIES – Facebook

Graveyard – Peace

Peace continua il viaggio dei Graveyard nella musica degli anni settanta, con un sound forse più immediato di altri ma pur sempre ricalcando la formula, ormai abusata, del classic rock animato da iniezioni di rock duro e drogato di psichedelia.

Il successo dei suoni vintage ha portato verso le più importanti etichette mondiali band che sarebbero rimaste nel più profondo underground, mentre oggi una label come Nuclear Blast (da sempre punto di riferimento per i fans del metal) si permette di avere nel proprio roster non poche realtà dai suoni che ricalcano il sound sviluppatosi nei leggendari anni settanta.

Un bene sia chiaro, specialmente per chi non ha mai smesso di ascoltare rock classico pur guardando allo sviluppo dei tantissimi generi e sotto generi a cui il metal ha dato i natali in quarant’anni di musica.
I Graveyard sono un quartetto svedese capitanato dal chitarrista e cantante Joakim Nilsson: dopo essersi sciolti poco più di un anno fa lasciando un fatturato di quattro album, ora arriva l’inaspettata reunion seguita dalla pubblicazione di Peace, nuovo lavoro con la novità Oskar Bergenheim alla batteria, sostituto del partente Axel Sjöberg.
Peace continua il viaggio dei Graveyard nella musica degli anni settanta, con un sound forse più immediato di altri ma pur sempre ricalcando la formula, ormai abusata, del classic rock animato da iniezioni di rock duro e drogato di psichedelia.
Questo significa Black Sabbath, The Doors, Led Zeppelin e Pink Floyd riletti secondo il credo di Nilsson e compagni, i quali riescono a divertire con un album fresco, composto da un lotto di brani che attirano gli amanti del rock radiofonico ma che sanno anche conquistare (quando vogliono) con atmosfere di blues desertico e psichedelico sopra le righe.
Del Manic e Birth Of Paradise sono il cuore pulsante e stordito dal sole di Peace, brani che alzano la temperatura dell’album, sanguigni e ricchi di quelle sfumature sporche di blues che sono il marchio di fabbrica delle nuove leve dell’hard rock.
Il resto viaggia con il pilota automatico: buone canzoni dure il giusto per piacere ai fans dell’hard rock con i jeans a zampa di elefante ed il sacchetto delle erbe medicinali a tracolla, facili da ascoltare in una serata estiva sulla spiaggia accompagnati da un falò.

Tracklist
1. It Ain’t Over Yet
2. Cold Love
3. See The Day
4. Please Don’t
5. The Fox
6. Walk On
7. Del Manic
8. Bird Of Paradise
9. A Sign Of Peace
10. Low (I Wouldn’t Mind)

Line-up
Joakim Nilsson – vocals, guitars
Jonatan La Rocca Ramm – guitars
Truls Mörck – vocals, bass guitar
Oskar Bergenheim – drums

GRAVEYARD – Facebook

Show Aniki – Deep Blue Sessions

Nonostante i problemi di formazione il gruppo di Angers riesce a produrre buona musica e questo ep composto da quattro singoli è un ottimo biglietto da visita, per una band che si inserisce nell’ottima scuola francese del metal alternativo.

Guidati dal dinamico John Rel, i bretoni Show Aniki propongono il loro nuovo ep esclusivamente in digitale, uscito dopo molte vicissitudini dovute a cambi di formazione.

Gli Show Aniki hanno inciso queste canzoni che sarebbero dovuto formare un disco unico, ma il posto vacante alla batteria proprio dopo le prime incisioni ha messo il gruppo francese davanti ad un bel problema, ovviato da una grande idea di John Rel coadiuvato dal grafico Gille Estines : far uscire quattro singoli con quattro copertine differenti. L’idea è subito parsa ottima, tanto da essere poi raccolta nel presente Deep Blue Sessions, secondo ep del gruppo disponibile solo in versione digitale. Il suono è molto fresco e vivace, un metal alternativo melodico e molto ben fatto, nel senso che tutto scorre bene e in maniera piacevole. Gli ascolti dei Show Aniki sono stati ottimi e molteplici, hanno un bel retroterra, e lo sanno valorizzare al meglio con un suono personale e veloce, con la giusta maturità. Nonostante i problemi di formazione il gruppo di Angers riesce a produrre buona musica e questo ep composto da quattro singoli è un ottimo biglietto da visita, per una band che si inserisce nell’ottima scuola francese del metal alternativo. Un gruppo molto melodico e bilanciato che rientra nel novero dei gruppi da seguire assolutamente.

Tracklist
01. Cowboys From Breizh
02. Deep Blue
03. Aniki
04. The Thing

Line-up
John R: Guitars, Vocals
Alx: Bass, Vocals
Celine Le Vu: Drums

SHOW ANIKI – Facebook

THAL

Il video di “Her Gods Demand War”, dall’album “Reach for the Dragon’s Eye” (Argonauta Records).

Il video di “Her Gods Demand War”, dall’album “Reach for the Dragon’s Eye” (Argonauta Records).

Gli Heavy Rockers statunitensi THAL pubblicano il nuovo singolo tratto dal loro ultimo album, accompagnato dal videoclip ufficiale curato da Gryphus Visuals.

La canzone “Her Gods Demand War” vede la partecipazione di Sophie Steff dei This Butchers Will Kill You come special guest alle voci.

Il recente album dei THAL ha ricevuto consensi unanimi da tutto il mondo grazie alle sue peculiari sonorità e voci pulite, con atmosfere che spaziano dallo Stoner Rock al Doom Metal, con chiari riferimenti a Danzig, Clutch e Queens of the StoneAge.

THAL “Reach for the Dragon’s Eye” è uscito su Argonauta Records ed è disponibile qui:
https://bit.ly/2HKhABX

INFO: www.argonautarecords.com / www.facebook.com/thalheavyband/

Fates Warning – Live Over Europe

I Fates Warning sembrano non accusare lo scorrere del tempo e sono ancora un gruppo da seguire, sia nelle opere in studio che sul versante live, e Live Over Europe risulta appunto una tappa fondamentale non solo per i fans, ma per tutti gli amanti del progressive metal.

La musica progressiva ha trovato nel metal il suo alleato più fedele e se oggi glorifichiamo questo genere e tutte le sue diramazioni (anche quelle più moderne) il merito è anche dei Fates Warning, una delle prime band heavy metal a introdurre elementi progressivi nella propria musica.

Sono passati più di trent’anni da Night on Bröcken, ma i Fates Warning sono ancora in giro ad insegnare come si suona metal progressivo, raffinato, potente ed emozionale quel tanto per non trasformare un concerto in una sorta di  workshop didattico sulla tecnica esecutiva.
Tre decenni sono trascorsi, tra alti e bassi più che altro in termini di popolarità, mentre la qualità della musica prodotta è sempre stata di elevato livello, con album che sono entrati nella storia della nostra musica preferita e che risulta superfluo nominare.
A supporto dell’ultimo lavoro licenziato nel 2016 (Theories Of Flight), Ray Alder, Jim Matheos, Joey Vera, Bobby Jarzombek e Mike Abdow sono partiti per un tour europeo che li ha visti esibirsi sui palchi italiani, greci, tedeschi, ungheresi, sloveni e serbi, tutte prestazioni documentate in questo mastodontico prodotto di oltre due ore di musica straordinariamente metallica e progressiva.
I maestri sono tornati, la band che ha scritto alcune delle pagine più importanti del genere, ci regala un altro documento live un anno dopo aver celebrato il best seller Awaken The Guardian, con un doppio cd mixato da Jens Bogren (Opeth, Kreator, Symphony X, Haken) e masterizzato da Tony Lindgren ai Fascination Street Studios.
La track list, specialmente nel primo cd, è incentrata sui brani dell’ultimo lavoro che vengono affiancati dai brani storici, offrendo un raccolta esaustiva della musica del gruppo americano che mette in evidenza la forma smagliante dei musicisti, con un Ray Alder formidabile e tutta la band che sfoggia prestazioni degne della fama costruita in tre decenni.
I Fates Warning sembrano non accusare lo scorrere del tempo e sono ancora un gruppo da seguire, sia nelle opere in studio che sul versante live, e Live Over Europe risulta appunto una tappa fondamentale non solo per i fans, ma per tutti gli amanti del progressive metal.

Tracklist
CD 1:
1.From The Rooftops
2.Life In Still Water
3.One
4.Pale Fire
5.Seven Stars
6.SOS
7.Pieces Of Me
8.Firefly
9.The Light And Shade Of Things
10.Wish
11.Another Perfect Day
12.Silent Cries
13.And Yet It Moves

CD 2:
1.Still Remains
2.Nothing Left To Say
3.Acquiescence
4.The Eleventh Hour
5.Point Of View
6.Falling
7.A Pleasant Shade Of Gray, Pt. IX
8.Through Different Eyes
9.Monument
10.Eye To Eye

Line-up
Ray Alder – Vocals
Jim Matheos – Guitars
Joey Vera – Bass and Vocals
Bobby Jarzombek – Drums
Mike Abdow – Guitars and Vocals

FATES WARNING – Facebook

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
85

Genere – Sottogeneri – Anno – Label
2018 Progressive Metal 8.50

Empty Chalice – Ondine’s Curse

Per circa tre quarti d’ora Empty Chalice offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome di Ondine.

Il nuovo lavoro di Antonio Airoldi (Antonine A.), nella sua incarnazione denominata Empty Chalice, è la quarta di una serie di uscite targate Ho.Gravi.Malattie, etichetta dal nome indubbiamente bizzarro ma del tutto attinente al catalogo proposto, visto che ogni disco è dedicato ad una delle molte patologie che affliggono l’umanità.

Con Empty Chalice viene affrontata la Sindrome di Ondine, disturbo assai raro ma fortemente invalidante visto che, di fatto, l’organismo “dimentica” di respirare durante il sonno: tale scelta appare fin da subito azzeccata, visto che il musicista trentino ci ha abituato da tempo all’esibizione di una forma di ambient claustrofobica ma allo stesso tempo sempre inquieta e in divenire.
Se rispetto ai generi, per cosi dire, canonici l’ambient può essere definita a buon titolo una sorta di flusso sonoro, in Ondine’s Curse il suo scorrere appare quanto mai disturbato, quasi ad fotografare la discrasia provocata da un cervello che si rifiuta di fornire i comandi atti a garantire la sua stessa sopravvivenza .
Per circa tre quarti d’ora Airoldi offre quella che si dimostra, ancora una volta, un’interpretazione peculiare e sopra la media della materia, riuscendo davvero a far vivere all’ascoltatore la terribile battaglia che si combatte all’interno di un organismo colpito dalla sindrome, lacerato dalla necessità fisiologica di dormire, da un lato, e dall’impossibilità di cedere al sonno pena la cessazione delle funzioni vitali, dall’altra.
L’ambient targata Empty Chalice di certo non scorre senza lasciare tracce: sul terreno restano tracce di paure ancestrali e conflitti interiori irrisolti, con suoni che se, in The Awake, possiedono una recondita parvenza melodica, in II esibiscono un substrato di canti gregoriani, e  da III in poi si tramutano nella trasposizione musicale di una elettroencefalogramma imbizzarrito: tutto ciò senza che nessuna nota o rumore possa apparire superfluo o fuori luogo.
Ondine’s Curse conferma una volta di più lo status acquisito da Antonio Airoldi, avviato a diventare (ammesso che già non lo sia) uno dei nomi di punta del nostro avanguardismo musicale.

Tracklist:
1. The Awake
2. II
3. III
4. IV
5. The Sleep

Line-up:
Antonine A.

EMPTY CHALICE – Facebook

Orphan Skin Diseases – Dreamy Reflections

Dreamy Reflections è un viaggio di settanta minuti tra il metal/rock degli ultimi trent’anni, attraversato da un alone di oscuro e drammatico spirito dark e animato da ispirazioni diverse riunite in un sound che, cercando di semplificare, si può certamente descrivere come alternative metal.

Debutta per Logic Il Logic Records e Burning Minds Music Group questo quartetto di rockers nostrani chiamato Orphan Skin Diseases, fondato dal batterista Massimiliano Becagli, con un passato negli storici No Remorse,  raggiunto in seguito da Gabriele Di Caro (ex Sabotage, ex Outlaw al microfono), Juri Costantino (ex Creation al Basso) e David Bongianni (ex Virya, Little CB alla chitarra).

Mixato e masterizzato da Oscar Burato agli Atomic Stuff Studio, Dreamy Reflections, anticipato dal video del brano Flyin’ Soul, è un’opera massiccia, un tour de force di settanta minuti tra il metal/rock degli ultimi trent’anni, attraversato da un alone di oscuro e drammatico spirito dark e animato da ispirazioni diverse riunite in un sound che, cercando di semplificare, si può certamente descrivere come alternative metal.
Settanta minuti sono tanti, ma la band cerca di alternare le varie sfumature della propria musica che vanno dal metal moderno, al thrash, dal progressive all’hard rock, mantenendo un’ aura drammatica che si evince dai testi, impegnati a difesa dei più deboli e argomentati da una serie di denunce politiche e sociali.
Parlando di musica l’approccio al mondo del metal/rock alternativo è molto maturo e personale, e l’anima progressiva si fa spazio in quei brani che evidenziano un crescendo emotivo, sorretti da molte ottime idee che valorizzano la struttura di tracce come The Storm, As A Butterfly Crub, il potente macigno sonoro Sorrow & Chain e la conclusiva Just One More Day, brano diviso in tre parti dove intro e outro a titolo She Was fanno da contorno a Fathered, splendido brano che tanto sa di post grunge.
Dreamy Reflections unisce in un unico sound generi diversi ed ispirazioni che vanno dai Life Of Agony agli Alice In Chains, dai Tool ai Metallica, aggiungendo un personale tocco progressivo che ne valorizza la struttura dei brani e l’ascolto.

Tracklist
01. Into A Sick Mind
02. Flyin’ Soul
03. The Storm
04. Rapriest (Stolen Innocence)
05. Do You Like This?
06. As A Butterfly Grub
07. Awake
08. Leave A Light On
09. Sorrow & Chain
10. The Wall Of Stone
11. Waves
12. Just One More Day – She Was (Intro)
13. Just One More Day – Fatherend
14. Just One More Day – She Was (Outro)

Line-up
Gabriele Di Caro – Vocals
Dimitri Bongianni – Vocals, Backing Vocals
David Bongianni – Guitars, Backing Vocals
Juri Costantino – Bass, Backing Vocals
Massimiliano Becagli – Drums

ORPHAN SKIN DISEASES – Facebook

T-Error Machinez – The War Of Valkyries (Reworked)

L’idea di riprendere in mano il disco solista di Omega X e di rielaborarlo collaborando anche con altri gruppi come Synapsyche, Larva ed Xperiment è stata un’ottima idea che ha portato a fare un disco molto potente, melodico e ben bilanciato.

Tornano i T- Error Machinez, uno dei migliori gruppi italiani di industrial metal ed ebm, con la rielaborazione del disco solista del loro membro Omega X.

La band lo ha ripreso in mano e gli ha dato una nuova veste, collaborando con altri gruppi. Il lavoro è diviso in cinque capitoli che trattano di miti, di demoni e degli archetipi della nostra cultura profonda, per metterci faccia a faccia con quello che siamo veramente. I T- Error Machinez nascono nel 2013 per fare musica oscura e di qualità: il dipanarsi delle loro canzoni denota un’ottima capacità compositiva, e laddove per altri ci sono le nebbie dell’incertezza, il trio ne esce sempre con una melodia chiara e con strumenti pesanti. La loro poetica è quella di esplorare le cose che vediamo e soprattutto quelle che non sono visibili ad occhio nudo, che siano dentro o fuori di noi. La loro musica ha fortissime radici nell’ebm di gruppi come i Suicide Commando, dei quali hanno fatto un bel rifacimento di God Is In The Rain in download libero sul loro bandcamp, hanno elementi di sympho metal e ottime orchestrazioni, per una musica dall’ampio respiro. E’ facile in questo genere cadere in trappole barocche, appesantendo il suono di inutili orpelli, mentre qui tutto è necessario ed adeguato, e sembra di stare per davvero in un passato/futuro mentre è in corso una guerra fra umani. L’idea di riprendere in mano il disco solista di Omega X e di rielaborarlo collaborando anche con altri gruppi come Synapsyche, Larva ed Xperiment è stata un’ottima idea che ha portato a fare un disco molto potente, melodico e ben bilanciato.

Tracklist
1.The Wings Of Icaro
2.The War Of The Valkyries
3.Cultos Asmodeus
4.The Black Sun
5.All Your Nightmares… Are Real!
6.The Tormentum Of The Dark Carnival Creation
7.The End Of Human Time (feat.Synapsyche)
8.Biological Pharmacode
9.Clock Tower
10.Angeles Del Apocalipsis (feat.Larva)
11.The Redemption
12.Infected World
13.Lovers Cursed (feat.Xperimen

Line-up
Omega X: Vocals, lyrics, composer
Alien T-Error: Guitars, composer, backing vocals
T-Error Wolf: Bass, composer, backing vocals

T-ERROR MACHINEZ – Facebook

DEMETRA SINE DIE

La fantascienza oscura dei Demetra Sine Die: nuovo disco e intervista al gruppo

Oltre il black, oltre il kraut, oltre molti limiti o vincoli, sperimentazione, spirito d’avventura nella creazione musicale, superamento dei confini raggiunti: tutto questo è il nuovo Demetra Sine Die, Post Glacial Rebound. Un titolo che indica atmosfere spaziali e fantascientifiche. Ne abbiamo parlato con Marco Paddeu e Adriano Magliocco.

ME Marco, cosa rappresenta per voi questo nuovo capitolo della vostra storia?

In primis è una testimonianza della nostra amicizia. Riuscire ad arrivare al terzo disco attraverso anni complessi e periodi difficili è una grande soddisfazione. In più anche questo capitolo rappresenta una evoluzione del nostro modo di comporre e si stacca per molti versi da quanto fatto in passato.

ME Il vostro suono e la vostra identità artistica paiono in continua evoluzione, in linea del resto con il nome che vi siete dati…

Marco: L’evoluzione artistica è parallela alla nostra come persone. Tutti e tre siamo molto curiosi: ascoltiamo molta musica e non ci piace restare fermi e ripeterci. Una traccia dai tratti puramente kraut rock come Eternal Transmigration è significativa da questo punto di vista. Non avevamo mai fatto nulla del genere ma è nata spontaneamente e penso stia alla perfezione nella scaletta che abbiamo scelto. La circolarità ritmica che trovi nel kraut rock è un elemento che amiamo e che abbiamo interiorizzato… sarebbe bello un giorno fare un disco tutto così… ah ah ah ah.

Adriano: non so dirti da cosa dipenda, sicuramente da quello che ascoltiamo ma anche dalle vicende della vita; come puoi vedere non siamo ragazzini e con l’età via via cose ne capitano, alcune belle, magari hai più soldi a disposizione, ma anche tante brutte e non sono più i drammi esistenziali che ti colpiscono da giovane, sono proprio mazzate che ricevi e spesso non ci puoi fare nulla, e credo che in Post Glacial Rebound si sentano proprio tutte.

ME In questo nuovo disco sono presenti anche elementi post-black…

Si, amiamo un po’ tutti i generi “estremi” e alcune caratteristiche del black e del death metal sono state inglobate nel nostro suono in funzione di una migliore rappresentazione di ciò che sentivamo nel momento in cui stavamo componendo il disco. Gravity in questo senso è black metal calato nello spazio più profondo, con connotati fortemente psichedelici specialmente nella prima parte.Questa traccia, così come Stanislaw Lem, è stata fortemente influenzata dalla lettura di Solaris.

ME Cosa ascoltate ultimamente e quali sono stati, secondo te, i lavori migliori di questi ultimi anni?

Marco: Ultimamente ascolto tanto jazz, in particolare Miles Davis, Herbie Hancock e John McLaughlin. Inutile dire che quando questi tre si ritrovarono a suonare insieme per Miles Davis nacquero dei capolavori senza tempo, come “In a Silent Way”, “Bitches Brew” e “A tribute to Jack Johnson”… Poi continuo sempre ad essere vorace nel “nostro genere”, quindi potrei dirti che apprezzo molto il percorso dei finnici Oranssi Pazuzu e dei loro compagni Dark Buddha Rising. Adoro i God Speed You Black Emperor, Dylan Carlson e i suoi Earth, Neurosis, Converge, Wolves in the Throne Room, Anna Von Hausswolf… Comunque la cosa più bella è continuare a scavare nell’underground, dove si trovano cose stupende e dove la creatività continua ad essere protagonista in antitesi alle proposte di massa propinate dalle major.

Adriano: recentemente ascolto molto rock lento, doom o funeral doom, chiamalo come vuoi, tipo Ahab, Pallebearer, Mournful Congregation, ecc., ma anche un po di black metal “panteista”, come gli ormai ex Agalloch, ora i Pillorian, i Wolves in the Throne Room.

ME In generale, a tuo parere, che cosa fa sì che un album lasci un segno e indichi una strada?

Oggi è sempre più difficile lasciare un segno e tracciare una nuova strada in ambito artistico-musicale. Di sicuro i signori di cui parlavo sopra lo hanno fatto perché erano e sono dei geni dotati però di una personalità volta a mettersi sempre in discussione. Miles Davis avrebbe potuto andare avanti con i suoi standard jazz, senza spostarsi più di tanto dal meraviglioso “A kind of blue”, ma non lo fece e sul finire degli anni ’60 si lasciò influenzare dal rock psichedelico e dai sintetizzatori andando poco a poco a plasmare cose mai sentite prima, che portarono alla fusion e al funky. Lo stesso discorso vale per Herbie Hancock: se ascolti i primi dischi e arrivi a Mwandishi, Crossings, Sextant e Head Hunters non puoi che rimanere stupefatto del talento e della visione globale di un altro artista che ha lasciato il segno e anche qualcosa in più.

ME Come è andato il tuo progetto solista, Morgengruss?

Sono molto soddisfatto del primo disco. Mi ha lasciato tanti ricordi, mi ha fatto crescere sotto molti aspetti e le poche date ma estremamente qualitative: mi hanno dato la possibilità di conoscere artisti stupendi. Il secondo disco è in cantiere e verrà registrato entro il 2018.

ME Sappiamo che suoni anche in un’altra band più prossima al drone-doom, i Sepvlcrvm: quali sono le novità all’orizzonte, se ci puoi anticipare qualcosa?

Sepvlcrvm ha molto materiale pronto per essere pubblicato. Abbiamo almeno un paio di dischi di cui uno doppio. Sarà diviso in un disco di studio e uno live inciso un paio di anni fa qui a Genova. Non posso rivelare molto ma sarà un concept interamente dedicato al cosmo, suona Sepvlcrvm anche se è qualcosa di piuttosto differente rispetto a quanto fatto in passato.

ME Nel vostro approccio – accanto a dark wave, drone doom, post black, noise, sludge e kraut – si possono percepire non pochi echi di matrice progressive: tuttavia, cosa è prog per te?

Ho sempre accostato il termine progressive alla una rottura degli schemi precostituiti sia della musica rock che del pop. Quindi la volontà di andare oltre la classica forma canzone penso sia una caratteristica quasi imprescindibile per questo tipo di approccio.

Nocturnal Breed – The Whiskey Tapes Germany

The Whiskey Tapes Germany è una compilation con inediti e cover dei black/thrashers Nocturnal Breed, dedicata ovviamemte solo ai fans più accaniti del gruppo.

I norvegesi Nocturnal Breed sono uno dei gruppi più famosi della scena black/thrash europea, essendo attivi dalla metà degli anni novanta con una serie di album che glorificano il black metal old school.

Ovviamente per black metal vecchia scuola si intende quello dei pionieri nati negli anni ottanta e divenuti famosi per opere estreme che al thrash metal univano un’attitudine luciferina e cattiveria come se piovesse.
Venom, Slayer e primissimi Bathory sono stati i nomi più importanti di questo genere che, negli ann,i ha unito al thrash e al black metal un’attitudine rock’n’roll, facendone un sottogenere seguitissimo nel sottobosco estremo.
I Nocturnal Breed si sono sempre imposti per la loro neanche troppo velata natura black, d’altronde il paese di origine parla chiaro e così anche i loro cinque full length (più un buon numero di lavori minori).
The Whiskey Tapes Germany è una compilation di brani rimasterizzati e di molti inediti per i fans tedeschi, con la chicca Evil Dead,  tributo a Chuck Schuldiner licenziato nel 2011, e la bellissima e devastante versione di Under The Blade dei Twisted Sister.
Le curiosità finiscono qui perché il resto è formato dabrani che non aggiungono nulla a quanto già edito dal gruppo, poco curato nei suoni e quindi da portare all’attenzione dei soli fans del genere ed in particolare della band scandinava.
Questa raccolta non è malvagia, ma come detto non va oltre il piacere di chi i Nocturnal Breed già li conosce e li apprezza, mentre gli altri a mio avviso troveranno pochi spunti interessanti.

Tracklist
1. Intro – Splinter-Day (Video Intro – Fields of Rot)
2. Metal Church (Prev. Unreleased)
3. I’m Alive (Org Keyboard Version) Prev. Unreleased 1997
4. Miss Misery (Prev. Unreleased)
5. Evil Dead (R.I.P. Evil Chuck Edit 2011)
6. Under The Blade (Alternate Mix)
7. Ballcusher (Raw Mix)
8. Metal Thrashing Mad (Experimental Mix)
9. Dead Dominions (The Hour of Death Is At Hand – Short Edit)
10. Killernecro (Ubernecro Version)
11. Barbed Wire Death (Demo 1998) (Prev. Unreleased)
12. No Retreat… No Surrender (Speed Metal Legions Version)
13. Rape The Angels (Reh. Sept.1997)
14. Maggot Master (Experimental Studio Demo)
15. The Artillery Command (Alt Mix)
16. Alcoholic Rites (Experimental Studio Raw Mix)

Line-up
S. A. Destroyer – Bass, Vocals
Axeman I. Maztor – Guitars
Tex Terror – Drums, Vocals
V. Fineideath – Guitars

NOCTURNAL BREED – Facebook

WIEGEDOOD – De Doden Hebben Het Goed III

De Doden Hebben Het Goed III rappresenta una prova di forza spaventosa, ma mai quanto lo può essere l’idea che il percorso dei Wiegedood si possa esaurire qui: ci sono ancora troppe storie che hanno bisogno della loro musica per essere adeguatamente raccontate.

Tre anni dopo il primo atto arriva infine il terzo album facente parte della trilogia De Doden Hebben Het Goed, sviluppata magnificamente da parte dei belgi Wiegedood.

Tale risultato non è frutto del caso, del resto questi musicisti sono coinvolti nella ben nota Church Of Ra (la cui punta di diamante sono gli AmenRa, dei quali fa parte il vocalist e chitarrista dei Wiegedood, Levy Seynaeve), per cui, pur trovandoci al cospetto di un disco di puro black metal, l’interpretazione del genere che viene offerta è sublime e ben al di sopra della media.
Come sovente avviene, è dagli eventi luttuosi che scaturiscono le opere più coinvolgenti dal punto di vista emotivo, e a tale regola non sfugge neppure questo progetto nato per omaggiare la memoria di un amico del batterista Wim Coppers (la cui band madre sono gli Oathbreaker, così come per l’altro chitarrista Gilles Demolder).
De Doden Hebben Het Goed III è la sintesi mirabile di quelle forze contrastanti che animano di norma il black metal, ovvero la componente atmosferica e quella propriamente definibile raw: grazie a ciò i quattro brani dell’album sono furiosamente intensi, meravigliosamente catartici.
Proprio perché in quest’espressione musicale è rimasto ben poco da inventare, la differenza può essere fatta solo dall’impatto, emotivo o destabilizzante che sia: il black dei Wiegedood affonda radici ben salde nel freddo suolo norvegese ma viene restituito con l’urgenza tipica alla quale ci hanno abituati le band appartenenti alla cerchia del collettivo belga.
E’ naturale, quindi, lasciarsi avvolgere da brani come Doodskalm, con il suo splendo break centrale di matrice “post”, ed un finale di dolente bellezza, o la title track, monumentale esempio di come la potenza evocativa della musica apparterrà sempre al novero delle (poche) cose che rendono sopportabile il nostro viaggio terreno.
De Doden Hebben Het Goed III rappresenta una prova di forza spaventosa, ma mai quanto lo può essere l’idea che il percorso dei Wiegedood si possa esaurire qui: ci sono ancora troppe storie che hanno bisogno della loro musica per essere adeguatamente raccontate.

Tracklist:
1. Prowl
2. Doodskalm
3. De Doden Hebben Het Goed III
4. Parool

Line-up:
Gilles Demolder – Guitars
Wim Coppers – Drums
Levy Seynaeve – Guitars & Vocals

WIEGEDOOD – Facebook

Steelmade – The Stories We Tell

La band forse si specchia leggermente troppo su una formula che alla lunga lascia qualcosa in termini di scorrevolezza, ma le idee ci sono, qualche buona canzone anche, quindi per noi l’album è promosso anche se non con lode.

Terra di tradizione metal e rock, la Svizzera ha dato i natali anche agli Steelmade, trio alternative hard rock nato tra le Alpi e composto da Paul Baron alla voce, Jadro alla chitarra e Joe Williams alla batteria.

Il debutto è targato 2016 e si intitola Love Or A Lie, quindi il terzetto di rocker torna dopo tre anni con un nuovo lavoro che si compone di una dozzina di brani incentrati su un alternative hard rock che, se da una parte, risulta l’ormai classico suono in voga nel nuovo millennio, dall’altra non rinuncia a qualche sfumatura più tradizionale specialmente nei solos.
Parte bene The Stories We Tell, le prime tracce convincono, potenti il giusto, molto americane nell’approccio che nasconde un’anima blues (Fairytales Of Childhood Days) e quindi pregne di attitudine ribelle.
La voce maschia e sporcata da un approccio rock’n’roll convince, Raise Your Voice (molto più moderna), Ashes Over Waters, il suono grasso e corposo di The Beast For Last e la grinta di Stupidity sono i momenti migliori di un album che a tratti però risulta leggermente ripetitivo: non un peccato mortale, ma certe formule ripetute all’eccesso creano un’atmosfera di stanca colpevole della poca fluidità dell’album.
La band forse si specchia leggermente troppo su una formula che alla lunga lascia qualcosa in termini di scorrevolezza, ma le idee ci sono, qualche buona canzone anche, quindi per noi l’album è promosso anche se non con lode.

Tracklist
1.Remember When (A Piece Of Contemporary History)
2.Raise Your Voice
3.The Stories We Tell
4.Fairytales Of Childhood Days
3:30
5.Ashes Over Waters
6.Trial And Tribulation
7.The Best For Last
8.Deal With The Devil
9.Stupidity
10.Appearance And Reality
11.Desire And Love
12.We Are Bizarre

Line-up
Paul Baron – Vocals
Jadro – Guitar
Joe Williams – Drums

STEELMADE – Facebook

Descrizione Breve

Autore
Alberto Centenari

Voto
68

Genere – Sottogeneri – Anno – Label
2018 Hard Rock 6.80

HYPNOTHETICALL

Il video di “The Spell”, dall’album “Synchreality”.

Il video di “The Spell”, dall’album “Synchreality”.

Prog Metal band Hypnotheticall has released the video clip for the song “The Spell”, available on the Spaceuntravel channel:

The tracks is taken from the last album Synchreality, available now on CD/DIGITAL at:
http://player.believe.fr/v2/3614979678152
https://www.facebook.com/hypnotheticall/
http://www.revalverecords.com/Hypnotheticall.html

Nofu – Interruzione

I Nofu con i loro magnifici testi e l’hardcore punk vecchia scuola sono una bellezza da sentire e da vivere, perché potrebbero darvi il codice sorgente per hackerare la nostra vita.

I Nofu sono uno uno dei migliori gruppi hardcore punk con tocchi metal italiani di sempre.

Interruzione è il loro disco più recente del 2017, uscito in free download e in forma fisica sempre attraverso il contributo di diverse etichette, con il metodo della cospirazione do it yourself, che è un vaffanculo al capitalismo musicale, essendo una produzione dal basso. I Nofu con i loro magnifici testi e l’hardcore punk vecchia scuola sono una bellezza da sentire e da vivere, perché potrebbero darvi il codice sorgente per hackerare la nostra vita. Il loro suono deve molto ai Negazione, da quel maledetto giorno quando li ascolto o li nomino il pensiero va sempre a Marco Mathieu in coma da mesi, e a quella fantastica scuola italiana, anche se qui c’è un prepotente tocco di hardcore americano. I Nofu riescono a fondere molto bene testi forti e musica veloce, ed è uno dei modi più validi di fare politica, ovvero quella cosa che cambia la vita in meglio, o che dovrebbe farlo. Ascoltando il gruppo romano si entra in un mondo senza filtri e soprattutto liberato dal leviatano capitalista, analizzando le nostre vite e i nostri rapporti con gli altri, non dando risposte ma scatenando dubbi. Un testo come Interruzione Pt. 2, la traccia che chiude il disco, è un qualcosa di pazzesco e di molto indicativo su cosa sia diventata la musica alternativa, perché i Nofu non sono la vetrina, ma il sasso che la spacca. Inoltre i Nofu possiedono una tecnica invidiabile e molto forte, che non va nella direzione dell’onanismo musicale, ma che è sempre al servizio della musica. Un disco forte e che ti entra dentro, come facevano e come faranno sempre i dischi suonati con il cuore e per la tua gente.

Tracklist
1.L’odio e le risa
2.Noi
3.Cenere
4.Disposto soggetto
5.Interruzione
6.Fragile Incompiutezza
7.Instabile (feat Giovanni Confusione/Flic dans la tete)
8.Spettri
9.In proprio
10.Interruzione pt.2

NOFU – Facebook

Tengil – Shouldhavebeens

Shouldhavebeens è un’opera trasversale per definizione, con il potenziale necessario per raccogliere consensi ed attenzioni da più parti, come richiesto da una così nitida esibizione di talento.

Gli svedesi Tengil sono una giovane band che aveva già seminato bene nel recente passato con un full length molto ben accolto come titolo, ma a giudicare dall’esito di questo nuovo Shouldhavebeens la loro evoluzione appare un qualcosa di imprevedibilmente inarrestabile.

Post rock, shoegaze e una componente post hardcore e rumorista, il tutto va a confluire in un coacervo sonoro a volte limpido e cristallino come acqua di fonte, in altri inquieto e torbido quasi a voler togliere certezze all’ascoltatore.
In realtà è proprio questo contrasto tra luci ed ombre, tra levità e senso di oppressione, a rappresentare il motore concettuale e musicale di un lavoro splendido, capace di commuovere, esaltare e far pensare: del resto il titolo che fa riferimento “ciò che potrebbe essere stato” è un po’ il leit motiv nell’esistenza di ognuno, destinato peraltro a divenire sempre più pressante man mano che il tempo a propria disposizione diminuisce in maniera ineluttabile; se poi, certe elaborazioni mentali sono prodotte da menti giovani e fresche come quelle di questi musicisti, figuriamoci l’impatto che tutto ciò può avere nei soggetti più sensibili con qualche decennio di vita in più a consuntivo.
Meglio non guardare indietro, alla fine, e cercare semmai di vivere ogni istante come se fosse destinato a durare per sempre: la musica dei Tengil può essere di grande aiuto, perché una canzone stupenda come It’s all for springtime è solo la punta dell’iceberg di un lavoro che supera per intensità un punto di riferimento per i Tengil quali sono senz’altro gli Alcest, rispetto ai quali la malinconia viene esibita in maniera molto meno diretta.
And the best was yet to come è un altro episodio che impressiona per urgenza e potenza comunicativa, con il bravissimo Sakarias Westman (che speso e volentieri ricorda per timbrica il giovane Bono) capace di imprimere al suo cantato quel quid emotivo ed interpretativo che fa la differenza.
Shouldhavebeens è un’opera trasversale per definizione, con il potenziale necessario per raccogliere consensi ed attenzioni da più parti, come richiesto da una così nitida esibizione di talento.

Tracklist:
1. I dreamt I was old
2. And the best was yet to come
3. With a song for dead darlings
4. A lifetime of white noise
5. It’s all for springtime
6. All for your myth
7. In Murmur

Line up:
Sakarias Westman
Pontus Carling
Karl Hauptmann
Tobias Jensen

TENGIL – Facebook

Perpetual Night – Anâtman

Anâtman ha tutto per essere apprezzato dai fans del melodic death metal: cavalcate oscure, solos che guardano da vicino il metal più classico, atmosferiche voci femminili e growl perfetto per il sound proposto dal gruppo.

Il melodic death metal di matrice scandinava continua ad ispirare gruppi in tutto il globo, eredi di quelle band che fecero innamorare schiere di appassionati dai gusti leggermente più melodici rispetto al death metal classico.

Ricordare In Flames, Dark Tranquillity ed At The Gates e poi tutte le band che hanno contribuito a rendere il genere uno dei più importanti e seguiti degli ultimi decenni è quanto meno doveroso, ma può risultare ovvio, quindi meglio passare oltre e presentare gli spagnoli Perpetual Night, in arrivo dalla grande famiglia Wormholedeath per conquistare i cuori degli amanti del suono nord europeo per antonomasia.
Nata sei anni fa in quel di Granada, la band arriva al traguardo del debutto sulla lunga distanza dopo due ep ed una compilation, con l’ausilio di una label  sempre attenta a proporre lavori sopra la media e di riflesso gruppi interessanti.
Anâtman ha tutto per essere apprezzato dai fans del melodic death metal: cavalcate oscure, solos che guardano da vicino il metal più classico, atmosferiche voci femminili e growl perfetto per il sound proposto dal gruppo.
Partiamo da The Howling, terza traccia e spettacoloso brano dove le melodie chitarristiche accompagnano le cleans ed il growl in un contesto evocativo struggente, torniamo alla title track, che funge da opener e ci presenta il sound dei Perpetual Night, tra ripartenze, crescendo e cavalcate metalliche valorizzate da camei di tastiere notturne, mentre i riff melodici di Nothing Remains ricordano gli Amorphis.
C’è tanto metallo classico nei solos della progressiva Raindrops, altro gioiellino di casa Perpetual Night racchiuso in questo ottimo lavoro, che cresce inesorabilmente con gli ascolti, mentre tutto finisce nella notte e nelle note della conclusiva Absence of Reality.
Un lavoro incentrato su un genere che sembra rinascere tutte lo volte che i suoi detrattori ne celebrano il funerale artistico, anche grazie a realtà come i Perpetual Night.

Tracklist
1.Anâtman
2.Wild
3.The Howling
4.Nothing Remains
5.His Darkness
6.Raindrops
7.Unpronounced Words
8.Absence of Reality

Line-up
Raúl Ríos
César Ramírez
Carlos Garrido

PERPETUAL NIGHT – Facebook

EPICA

Il video di “If Inside These Walls Was a House”, dall’Ep “EPICA vs. Attack On Titan” in uscita a luglio (Nuclear Blast Records).

Il video di “If Inside These Walls Was a House”, dall’Ep “EPICA vs. Attack On Titan” in uscita a luglio (Nuclear Blast Records).

Gli EPICA hanno collaborato con “Attack On Titan” per pubblicare un EP davvero speciale. “Attack On Titan” ha conquistato il mondo dei fumetti e degli anime. L’EP, intitolato “EPICA vs. Attack On Titan”, verrà pubblicato in tutto il mondo (Giappone escluso) il 20 luglio su Nuclear Blast Records.

Oggi gli EPICA pubblicano il secondo singolo “If Inside These Walls Was A House”.

Mark Jansen commenta: “‘If Inside These Walls Was A House'” è la mia canzone preferita dell’EP e suona davvero come una canzone degli EPICA. Abbiamo suonato questo brano assieme ad altri dell’EP in Giappone dinanzi a migliaia di fan entusiasti. Non me lo dimenticherò mai”.

Recentemente gli EPICA hanno pubblicato il video del primo singolo ‘Crimson Bow And Arrow’.

www.youtube.com/watch?v=bX3dwi_yuSA

Simone Simons commenta: “Siamo eccitati di presentare ‘Crimson Bow and Arrow’, la prima canzone tratta dall’EP ‘EPICA vs. Attack On Titan’. Speriamo che vi piaccia questa canzone unica tanto quanto è piaciuto a noi crearla!”.

Nel primo trailer di “EPICA vs. Attack On Titan” il chitarrista Isaac Delahaye e il tastierista Coen Janssen parlano di come hanno adattato queste canzoni allo stile degli EPICA: https://www.youtube.com/watch?v=IC0Z9MB_9jE

“EPICA vs. Attack On Titan” sarà disponibile nei seguenti formati:
CD Jewel case
Vinyl – Violet, Yellow, Black

I pre-ordini di “EPICA vs. Attack On Titan” sono attivi ora: http://nuclearblast.com/epica-attackontitan

È possibile salvare l’EP in anteprima su Spotify: http://nblast.de/EPICAvsattackPresave

“EPICA vs. Attack On Titan” è stato registrato nell’estate 2017 al Sandlane Recording Facilities da Joost van den Broek. Le versioni originali, che sono state influenzate dalla musica degli EPICA, sono state composte da Revo del famoso gruppo giapponese LINKED HORIZON. Per questo EP, le canzoni sono state adattate dagli EPICA e prodotte da Joost van den Broek. Degli arrangiamenti dei cori e delle partiture orchestrali si è occupato il tastierista Coen Janssen con Joost van den Broek.

“EPICA vs. Attack On Titan” track list:
01. Crimson Bow And Arrow
02. Wings Of Freedom
03. If Inside These Walls Was A House
04. Dedicate Your Heart!
05. Crimson Bow And Arrow (Instrumental)
06. Wings Of Freedom (Instrumental)
07. If Inside These Walls Was A House (Instrumental)
08. Dedicate Your Heart! (Instrumental)

Gli EPICA saranno in concerto il 28 luglio a Vinci (FI) – Festa dell’Unicorno.

www.epica.nl
www.facebook.com/epica
www.nuclearblast.de/epica

A Gathering Of None – One Last Grasp At Hope

I The Gathering Of None suonano rock a stelle e strisce, potente e melodico e pazienza se molti passaggi di One Last At Hope li avrete sicuramente già sentiti negli album usciti qualche anno fa, certo rock è come il bacio di una bella donna: non stanca mai.

Alternative metal, post grunge, modern hard rock, c’è di tutto un po’ nel sound degli statunitensi A Gathering Of None, band del Massachusetts al terzo full length dopo Purging Empty Promises del 2013 e Nothing Left To Lose uscito nel 2015.

Il gruppo, nato come one man band del chitarrista e cantante Tracy Byrd, è ad oggi una band composta da cinque musicisti, il cui prodotto è come scritto un buon mix dei suoni nati e cresciuti negli ultimi anni del secolo scorso nel nuovo continente: rock americano, potenziato da iniezioni di metal moderno e sfumature di quel grunge ancora oggi nelle corde degli ascoltatori dai gusti più moderni ed alternative.
Niente di nuovo, ma un lotto di belle canzoni, suonate e cantante davvero bene, con gli Alter Bridge a fare da padrini e poi una serie di band diventate icone di almeno due decenni di hard rock targato U.S.A.
One Last Grasp At Hope è quindi un buon modo per non perdere di vista un certo tipo di sonorità: la voce di TB aiuta non poco i brani a risplendere di una luce melodica che rimane accesa anche nei passaggi più grintosi, così che l’album funziona e piace fin dal primo ascolto.
No Stone Left Unturned, Fabulous Mishap, Dissolution (un tuffo nello stoner di marca Corrosion Of Conformity) sono brani semplici ma perfettamente in grado di non mancare l’appuntamento con i fans del genere, grazie ad una perfetta armonia tra l’anima metal e quella rock.
Band che non ha nulla da invidiare ai gruppi più blasonati, gli A Gathering Of None suonano rock a stelle e strisce, potente e melodico e pazienza se molti passaggi di One Last Grasp At Hope li avrete sicuramente già sentiti negli album usciti qualche anno fa, certo rock è come il bacio di una bella donna: non stanca mai.

Tracklist
1.What For?
2.No Stone Left Unturned
3.Break My Stride
4.A Fabulous Mishap
5.You Stagnate
6.Reaching Out
7.Dissolution
8.Something You Should Know
9.Predatory Male (Miltown cover)
10.I Hope I’m Wrong
11.Move Along

Line-up
TB – vocals, lead and rythm guitars
Justin Travis Osburn – rythm and lead guitars/bgvs
Jeff Grunn – lead and rythm guitars/bgvs
Ken Belcher – bass/bgvs
Chris White – drums/backup vocals

A GATHERING OF NONE – Facebook

Verano’s Dogs – Summoning The Hounds

Grind/death devastante e senza compromessi, old school nell’approccio e potentissimo nell’impatto che ricorda le grandi band del passato, dalle quali i Verano’s Dogs attingono a piene mani per il loro progetto estremo.

La scena romana è da qualche anno un punto di riferimento per gli amanti del metal estremo di stampo death, brutal e grind core, un nido di creature mostruose che abitano sulle rive del Tevere, a due passi dal Vaticano.

I Verano’s Dogs sono un trio nato tre anni fa e composto da musicisti già attivi in altre band della scena capitolina, come Taste the Floor, NIS e Injury Broadcast; Summoning The Hounds è il loro primo album, registrato presso gli Hombrelobo Studios di Roma e licenziato dalla Metal Age Productions.
I cani del Verano (noto cimitero della capitale), gli animali che in alcune culture accompagnano i morti nel trapasso, debuttano dunque con questo massacro grind/death, dalla copertina fortemente ispirata all’old school death metal e con un sound che inserisce elementi hardcore in una carneficina sonora di tutto rispetto.
I cani difendono il loro territorio, attaccano e sbranano senza pietà nella title track che apre l’album: le unghie sporche di terra putrida con cui sono ricoperte da centinaia di anni le bare ormai marcite, si conficcano nelle carni mentre il trio composto da Pompeo (chitarra), Ulderico (voce e basso) e Pablo (batteria) intona la  colonna sonora estrema di questo quadro macabro, un grind/death devastante e senza compromessi, old school nell’approccio e potentissimo nell’impatto che ricorda le grandi band del passato da dove i Verano’s Dogs attingono a piene mani per il loro progetto estremo.
Il cane rimane la figura animale a cui è dedicato il mondo dei Verano’s Dogs e i brani, ispirati musicalmente da Repulsion, Terrorizer e Napalm Death, affrontano tematiche legate al suo immaginario, dalla mitologia alla letteratura: un album sicuramente consigliato.

Tracklist
1- Summoning the Hounds
2- Keeper of Hades
3- Bark at the Grave (ft.: Alex Gore from The Juliet Massacre)
4- Mind Necropolis
5- Cannibalism and Agriculture
6- Holiday in Baskerville
7- Rabid Moments
8- The Hound (A Lovecraft’s tale)
9- Deadly Whispher
10- The Rising of the Necrotic Hound (ft.: Demian from Airlines of Terror)

Line-up
Pompeo – Guitars
Ulderico – Vocals, Bass
Pablo – Drums

VERANO’S DOGS – Facebook

Fading Bliss – Journeys in Solitude

Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità.

I belgi Fading Bliss arrivano con Journeys in Solitude al loro secondo full length in circa un decennio di attività.

Il precedente From Illusion to Despair, risalente al 2013, era stato un buon esordio che attingeva a piene mani dalla tradizione del gothic doom novantiano, con tanto di voce femminile a sostenere un growl profondo, entrambi adagiati su un tappeto melodicamente malinconico.
Nonostante siano trascorsi cinque anni non c’era da attendersi che le coordinate sonore potessero subire una variazione, visto che alla fine il genere, così come lo amiamo, è questo, prendere o lasciare; quello che viene richiesto alle band che vi si cimentano è produrre emozioni e metterci comunque qualcosa di proprio per evitare di apparire delle copie, seppur ben riuscite, delle band che hanno fatto la storia.
Ecco, se devo trovare un difetto ai Fading Bliss è proprio la mancanza di una maggiore personalità, che è poi l’ingrediente che rende irrinunciabile l’ascolto di un album: a tratti, infatti, sembra d’essere al cospetto di un gruppo abile nell’assemblare tutte le istanze provenienti dal passato senza però riuscire, se non a tratti, nell’intento di far scaturire quella scintilla capace di scuotere emotivamente l’ascoltatore.
Journeys in Solitude è gradevole, ben suonato e ben prodotto, tutti i tasselli sono al loro posto ma non penetra in profondità, come dovrebbe e potrebbe, con la necessaria continuità: indubbiamente l’opener Ocean è il brano migliore dei quattro con le sue notevoli intuizioni melodiche, mentre alla successiva Mountain manca il cambio di passo necessario per dare continuità all’evocativa chiusura della traccia precedente.
La cover di A Forest dei Cure è coraggiosa nel suo intento (cimentarsi con brani iconici come questo è sempre un’arma a doppio taglio), ma se è vero che è inutile proporre composizioni altrui in maniera eccessivamente fedele, qui i Fading Bliss eccedono in senso opposto, visto che in comune con il capolavoro di Robert Smith ci sono fondamentalmente solo il titolo ed il testo (apprezzabile comunque il lavoro della chitarra solista, come del resto avviene un po’ in tutto il disco).
I diciassette minuti di Desert, che regalano nuovamente un bellissimo assolo nella sua parte finale, chiudono un album gradevole e ben costruito ma che, al di là dei notevoli ma non sempre adeguatamente sfruttati guizzi chitarristici, fatica ad imprimersi con forza nella memoria: la dicotomia tra voce maschile e femminile funziona sulla carta ma, all’atto pratico, è troppo netto lo scostamento dei livelli di tensione percepibili allorché entra in scena l’una o l’altra voce.
Parlando di una band di Liegi mi si consenta il paragone ciclistico: con Journeys in Solitude i Fading Bliss dimostrano di reggere agevolmente l’andatura sostenuta del gruppo in pianura ma, allo stato attuale, manca loro quello spunto per restare con i migliori allo scollinamento della di Côte de Saint-Nicolas; questo almeno oggi, ma non è detto che non ci possano riuscire in futuro, visti i buonissimi mezzi a loro disposizione.

Tracklist:
1. Ocean
2. Mountain
3. A Forest
4. Desert

Line up:
Mélanie : Vocals
Dahl : Vocals
Steph : Guitars
Michel : Drums
Kaz : Guitars
Arnaud : Bass
Venema : Keyboards

FADING BLISS – Facebook