SIGNS OF HUMAN RACE

Il lyric video di ‘Journey Into Self-Reflection’, dall’album Inner Struggle Of Self-Acceptance (Sliptrick Records).

Il lyric video di ‘Journey Into Self-Reflection’, dall’album Inner Struggle Of Self-Acceptance (Sliptrick Records).

Italian progressive, avant-garde metal group Signs Of Human Racehave released a new online single and lyrics video from their forthcoming album Inner Struggle Of Self-Acceptance.

Here’s what the band had to say; “Journey Into Self-Reflection is the third track from the album Inner Struggle Of Self-Acceptance by Signs Of Human Race. The track aims to recreate the thoughts and feelings of a person affected by personality disorders. People suffering from such diseases often know of their situation and feel vulnerable and in need of help, but they also look with suspicion to other people trying to support them, seeing treachery everywhere.”

This condition can lead to alternating feelings of distress, peacefulness and rage, emphasized by the band through the sudden changes of rhythm and mood.

Inner Struggle Of Self-Acceptance | Released March 26th 2019 via Sliptrick Records

Signs Of Human Race are:
Remek James Robertson – Vocals
Diego Lorenzi – Guitars
Davide Brighenti – Bass
Samuele Leonard Sereno – Drums

Ataraxie – Résignés

Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.

I francesi Ataraxie si sono ormai consolidati da tempo come una delle più efficaci ed importati band funeral doom europee, in virtù di poche ma mirate uscite disseminate nel corso del nuovo secolo.

Slow Transcending Agony e Anhedonie sono considerati, a ragione, album fondamentali nell’evoluzione del genere, così come anche il successivo in ordine di tempo, L’Être et la Nausée: con tali premesse era più che lecito attendersi una nuova esibizione di forza da parte del gruppo di Rouen.
Dopo aver sviscerato i diversi stati d’animo confluenti in un diffuso malessere esistenziale, gli Ataraxie ci raccontano oggi della rassegnazione di fronte all’ineluttabilità di una fine per certi versi anche auspicata, alla luce di una razza umana che mai come oggi sembra avviata verso una relativamente rapida (e meritata) estinzione.
Il funeral death doom qui perde qualsiasi recondita connotazione consolatoria, per lasciare spazio ad un rabbioso disgusto che non rifugge del tutto aperture melodiche volte ad evocare solo disperazione piuttosto che un autoindulgente malinconia.
People Swarming, Evil Ruling è un brano di rara durezza, grazie al quale i riff squadrati si abbattono come la mannaia del boia sugli sventurati che rassegnati attendono il loro turno, come raffigurato in copertina: la nuova formazione a tre chitarre, in tal senso, porta alle sue estreme conseguenze la potenza di un sound che a tratti assume le sembianze di un minaccioso rombo, come nella title track che sfocia in un crescendo spasmodico nel suo finale, lasciando sul terreno solo macerie bagnate da sangue e lacrime.
L’uscita del membro fondatore Sylvain Esteve ha portato in formazione altri due chitarristi, Julien Payan e Hugo Gaspar, ad affiancare Frédéric Patte-Brasseur, che con Jonathan Thery (basso e voce) e Pierre Senecal (batteria) costituisce oggi il nucleo storico della band, e ciò, se da una parte può aver rallentato il processo compositivo per il nuovo lavoro, d’altra parte ha conferito al sound una robustezza ed una solidità che rasentano la tetragonia; anche in Coronation of the Leeches, che prende avvio con più rarefatti arpeggi, è la possanza dei riff unita all’impietoso growl di Thery la costante di una struttura compositiva che concede i rari passaggi dal più dolente incedere nella conclusiva Les affres du trépas, venticinque minuti che prosciugano dal punto di vista psichico senza concedere illusori barlumi di speranza bensì ammantandosi dell’opprimente solennità che sfocia in un funeral dai connotati quanto mai disperati.
Il senso di vuoto, la rassegnazione, appunto, è tutto ciò che resta agli esseri umani, scadenti comparse di quel film dozzinale dall’impossibile lieto fine che è la loro permanenza sul pianeta: gli Ataraxie, tra i possibili dolenti cantori di questa millenaria tragedia, si confermano in assoluto tra i migliori.

Tracklist:
1.People Swarming, Evil Ruling
2.Résignés
3.Coronation of the Leeches
4.Les affres du trépas

Line-up:
Jonathan Thery – Bass & Vocals
Frédéric Patte-Brasseur – Guitars
Hugo Gaspar – Guitars
Julien Payan – Guitars
Pierre Senecal – Drums

ATARAXIE – Facebook

Thecodontion – Jurassic

Basta con assoli onanistici o distorsioni incomprensibili, i Thecodontion ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica pesantissima senza quello che viene considerato lo strumento principale.

I Thecodontion sono un gruppo romano di black death che si presenta con la seguente frase : no guitars, just death.

Infatti i bassi sono due, distortissimi ed incredibili, con una batteria ancestrale; lo scopo principale della band è quello di ricreare una situazione di musica tribale per vomitare una rabbia antica, quasi preistorica, e appunto la sconfinata preistoria, i fossili e tutto ciò che è correlato a queste cose sono gli argomenti dei testi.
Il risultato è qualcosa di furioso e di assolutamente credibile, è un sound peculiare ed inedito: il gruppo è in giro dal 2016, ha prodotto un demo nel 2017, Thecodontia, per poi andare a suonare in giro con altri gruppi romani. Questo 7” è una delle prove più affascinanti che si possano ascoltare negli ultimi tempi, perché è incredibile che canzoni su animali e fossili della preistoria siano tanto belle da creare una vera e propria dipendenza. La musica è incalzante, come un gruppo di pterodattili che ti insegue e ti mangia prima o poi, sputandoti fuori destinandoti a diventere un fossile, forse. Il suono di questi brani è devastante, alcuni lo potrebbero definire war metal, ma è più un massacro a senso unico che una guerra. I due bassi creano un effetto che dovrebbe convincere anche chi ama le chitarre, delle quali alla fine non si sente la mancanza: basta con assoli onanistici o distorsioni incomprensibili, i Thecodontion ci danno una dimostrazione di come si possa fare musica pesantissima senza quello che viene considerato lo strumento principale. È bellissimo anche andare a cercare di cosa parla questo gruppo, ovvero gli animali dei titoli. Infatti il sette è un concept su quattro specie che vivevano durante il Giurassico: raramente si può trovare qualcosa di più nozionistico ed affascinante dello studio della preistoria, materia non facile, ma se si entra in un Museo Archeologico o di Storia Naturale non si potrà che restarne affascinati, perché in fondo è qualcosa di molto metal. Un’altra delle particolarità di questo disco è la produzione, adeguata e molto ben bilanciata, assolutamente non approssimativa: Jurassic è una delle uscite più interessanti degli ultimi tempi, una porta per un universo che è ancora dentro di noi, basti pensare a quanto è durata la preistoria e quanto sta durando l’era moderna, alla cui fine non manca poi così tanto.

Tracklist
1.Normannognathus wellnhoferi (Crests)
2.Rhamphorhynchus muensteri (Wingset)
3.Barosaurus lentus (Sundance Sea Stratigraphy)
4.Breviparopus taghbaloutensis (Legacy of the Trackmaker Unknown)

Line-up
G.E.F. – vocals, songwriting, arrangements
G.D. – bass, lyrics and concept, arrangements

L.S. – (live) bass
V.P. – (live) drums

THECODONTION – Facebook

Valtari – Origin Enigma

Origin Enigma mette in campo tutti i cliché del genere, prendendo qualcosina da tutte le band più importanti sia della prima che della seconda generazione, mantenendo una gelida atmosfera di stampo black per tutta la durata dell’opera ed inserendo valanghe di melodie classiche.

Le sonorità scandinave di stampo melodic death continuano ad influenzare musicisti e realtà in ogni parte del mondo, in questo caso parliamo dei Valtari, one man band australiana.

Il polistrumentista Marty Warren è l’ideatore di questo che di fatto è un tributo al death metal melodico, arrivato con Origin Enigma al terzo full lenght dopo il debutto uscito nel 2012, Fragments of a Nightmare, e Huntar’s Pride secondo lavoro licenziato un paio d’anni dopo.
Origin Enigma mette in campo tutti i cliché del genere, prendendo qualcosina da tutte le band più importanti sia della prima che della seconda generazione, mantenendo una gelida atmosfera di stampo black per tutta la durata dell’opera ed inserendo valanghe di melodie classiche che ricordano a più riprese In Flames, Children Of Bodom, Omnium Gatherum, Insomnium e Dimmu Borgir.
Niente di originale quindi, ma sicuramente ben fatto e di sicura presa per i fans accaniti del genere, con qualche atmosfera gotica volta a tratti spezzare un ritmo che dalla prima nota dell’opener Oblivion porta dritti alla conclusiva The Great Unknown.
Prodotto leggermente meglio l’album avrebbe meritato mezzo voto in più, ma siamo ai dettagli: Marty Warren, alias Valtari, ha fatto un buon lavoro ed Origin Enigma risulta un album melodic death senza sorprese ma anche senza cadute, del quale quindi è consigliato l’ascolto.

Tracklist
1.Oblivion
2.Your Enemy
3.Blinded
4.All for You
5.Origin Enigma
6.Taste Your Victory
7.Memories Fade
8.Forever
9.Towton 1461
10.The Great Unknown

Line-up
Marty Warren – Everything

VALTARI – Facebook

Bleed Someone Dry – Unorthodox

Unorthodox torna a far parlare dei Bleed Someone Dry in modo assolutamente positivo grazie ad un deathcore di alta qualità offerto da una band che ha una sua ben chiara identità: per gli amanti del genere perdere un lavoro come sarebbe imperdonabile.

A rivalutare una scena core che, parafrasando termini sportivi, rischia di restare sulle ginocchia ci pensa la Wormholedeath, licenziando l’ultimo album dei Bleed Someone Dry, gruppo toscano con una reputazione da consolidare dopo le buone prove passate.

La label aveva già ristampato in precedenza il secondo lavoro del gruppo, quel Subjects uscito originariamente nel 2012 e reimmesso sul mercato un paio d’anni dopo.
Chris Donaldson (produttore e chitarrista dei Cryptopsy) si è preso cura dell’album come già accaduto in passato e Unorthodox non delude sicuramente le attese degli appassionati di un genere dall’equilibrio delicatissimo, specialmente per quanto riguarda il songwriting.
La band, infatti, se ne esce con una decina di brani freschi, estremi e progressivamente moderni, valorizzati da una tecnica in grado di permettere qualsivoglia spunto che possa rendere al meglio un sound che rimane fortemente legato al deathcore.
Attenzione, di deathcore appunto si tratta, perchè in Unorthodox i Bleed Someone Dry picchiano duro, lasciando ad altri facili soluzioni pulite, e ci maltrattano con una serie di detonazioni estreme, supportate da un istinto progressivo grazie al quale brani come la title track, l’opener Vexation, la violenta Plague Of Broken Dreams, il mid tempo Agoraphobia risultano appunto freschi e vari quanto basta per non far perdere l’attenzione di chi ascolta.
La parte elettronica è meno pressante rispetto al passato ma presente, così come l’atmosfera che pervade l’album è assolutamente moderna e slegata da possibili parentele con qualsivoglia genere tradizionale.
Unorthodox torna a far parlare dei Bleed Someone Dry in modo assolutamente positivo grazie ad un deathcore di alta qualità offerto da una band che ha una sua ben chiara identità: per gli amanti del genere perdere un lavoro come sarebbe imperdonabile.

Tracklist
1.Vexation
2.Deceiver
3.Unorthodox
4.The Worst Has Yet To Come
5.Plague Of Broken Dreams
6.All That We’ll Never Have
7.The Modern Dissident Movement
8.Agoraphobia
9.Elysium
10.Mephistophelian

Line-up
Alessio Bruni – Vocals
Jonathan Mazzeo – Guitars
Niccolò D’Alario – Guitars
Mattia Baldanzi – Bass
Alan Syo James – Drums

BLEED SOMEONE DRY – Facebook

Open Door Of Doom – Open Door Of Doom

L’esordio degli Open Door Of Doom non è nulla di epocale ma sicuramente conserva sapori ed aromi di un tempo, sempre graditi a chi ama queste sonorità.

Gli Open Door Of Doom sono una band nata dalla collaborazione del trio australiano Eldritch Rites (Shayne Joseph, Trevor Scott e Adam Holmes) ed il cantante britannico Craig Capps (Cloak Of Shadows).

Ovviamente il monicker prescelto, al di là del background dei protagonisti, non lascia dubbi sul genere offerto, ovvero una doom che attinge alla tradizione del genere prendendo quali dichiarati punti di riferimento i Reverend Bizarre e i Pagan Altar.
L’operazione, risalente alla scorsa primavera e riproposta oggi formato digitale dalla Loneravn Records,  riesce piuttosto bene a questo inedito quartetto, visto che l’innesto della particolare voce di Craig (che in altri contesti esibisce anche un cognome d’arte come Osbourne, tanto per non lasciare dubbi di sorta sulle sue fonti di ispirazione) si rivela più funzionale ad un contesto che ripropone in maniera efficace la quintessenza del doom rispetto a quanto avvenuto recentemente con i meno convincenti Cloak Of Shadows.
In effetti, il trio australiano dimostra la sua competenza in materia ed in particolare un brano come Buried Alive sorprende con un finale incalzante, dopo essersi trascinato indolente per nove dei suoi tredici minuti e passa di durata, ma anche Deemed a Sinner tiene altra la soglia di attenzione dell’ascoltatore in virtù del buon lavoro chitarristico di Joseph.
Il nostro emulo di Ozzy non è sicuramente il miglior vocalist del pianeta ma in questo specifico ambito ci sta benissimo, forse perché la sua timbrica ben si inserisce in un contesto che rifugge qualsiasi idea di modernità per privilegiare un sound essenziale ma piuttosto efficace, soprattutto quando trova sfogo in repentine cavalcate oppure nei momenti in cui, come nel finale di These Confessions, prende piede un’indole psichedelica.
L’esordio degli Open Door Of Doom non è nulla di epocale ma sicuramente conserva sapori ed aromi di un tempo, sempre graditi a chi ama queste sonorità.

Tracklist:
1. Buried Alive
2. Ode2m
3. Deemed a Sinner
4. These Confessions

Line-up:
Trevor Scott – Bass
Adam Holmes – Drums
Shayne Joseph – Guitars
Craig Osbourne – Vocals

WHEN VENUS WEEPS

Ilvideo di “Fight For Your Life”, dall’album “With This, I Let You In”.

Ilvideo di “Fight For Your Life”, dall’album “With This, I Let You In”.

“Fight For Your Life” è l’ultimo singolo estratto dall’album “With This, I Let You In” della band Post-Hardcore lombarda When Venus Weeps.
Pubblicato in data 9 marzo su YouTube, “Fight For Your Life” è il brano maggiormente caratterizzato da sonorità emo del loro album.
La band ha realizzato un videoclip all’Ex Manicomio di Mombello (Limbiate) per presentarci un video che risulta in linea con il messaggio del brano: un irrisolvibile conflitto interiore con i propri “demoni”, raccontato attraverso un testo che sembra lasciare accesa una speranza, speranza a cui i When Venus Weeps, con emozioni in bilico fra bellezza e tristezza, ci hanno abituati.
Il ruolo di protagonista è stato affidato a Michael Camisa, che insieme al regista, Diego Pesce, ha saputo interpretare il messaggio del brano in modo esemplare.
Sarà riuscito a sconfiggere i propri demoni?
Guardare il video è l’unico modo per scoprirlo.

Segui When Venus Weeps:
https://www.instagram.com/whenvenusweeps/
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Liles/Maniac – Darkenig Ligne Claire

Il lavoro è un’esperienza sonora che ottiene un software differente usando due codici sorgenti diversi, quello del black metal e quello dell’elettronica libera.

Dimenticate totalmente il concetto di musica tradizionale, perché qui non è affatto presente.

Questa è musica totalmente sperimentale e di avanguardia, un uso di due linguaggi musicali differenti da fondere assieme e da ampliare ulteriormente in una maniera inedita. Sven Erik Fuzz Kristiansen aka Maniac è un veterano della scena black norvegese, ha anche cantato nei Mayhem durante i periodi 1986-88 e 1995-2004, quando il batterista Hellhammer decide di far rivivere i Mayhem dopo la morte dei membri Euronymous e Dead. Ha poi collaborato con Wurdalak e Bomberos, per poi fondare il gruppo Skitliv con Kvarforth, meglio conosciuto come Shining. L’altra metà di questo disco è il produttore polistrumentista nonché rumorista accanito Andrew Liles, che nella sua lunga carriera ha collaborato con i Nurse With Wound, i Current 93 e tantissimi altri, impossibile menzionarli tutti qui. Questo lavoro non è la prima collaborazione fra i due, dato che si incontrano per la prima volta durante l’edizione 2008 del Roadburn Festival curata da David Tibet (sempre lui), Liles viene successivamente invitato a unirsi alla line up dei Sehnsucht, una band fondata da Kristiansen, Ingvar e Vivian Slaughter. Una traccia di questa esperienza è l’album Wurte, registrato nel 2010. Liles e Kristiansen mantengono vivo il loro dialogo creativo fondando la band Svart Hevn e occasionalmente suonando dal vivo sia come Svart Hevn che come duo Liles/Maniac. Darkening Ligne Claire è tante cose diverse ma fondamentalmente è un disco di droni creati rimaneggiando la voce di Maniac, suoni elettronici totalmente disarmonici quassi fosse un dub in ecstasy del black metal. Il tutto nasce dalla visione delle fotografie di Christophe Szpajdel: qui la melodia non esiste e la furia del black si disperde negli eoni di una narrazione che è ancora più paranoica di quella originale. Il tutto è molto interessante e potrebbe essere la migliore colonna sonora possibile per un videogioco come Quake, con atmosfere tenebrose ma anche spaziali. Il lavoro è un’esperienza sonora che ottiene un software differente usando due codici sorgenti diversi, quello del black metal e quello dell’elettronica libera. Un mondo che viene scoperto da Liles e da Maniac e che è ancora da esplorare totalmente.

Tracklist
I – EMPEROR
II – ENTHRONED
III – FLAGELLUM DEI
IIII – SLAUGHTER MESSIAH
IIIII – SOULBURN
IIIIII – WOLVES IN THE THRONE ROOM
IIIIIII – NOCTUARY

Humanity Delete – Werewolves in the Iron Sky

Werewolves in the Iron Sky è altro buon lavoro targato Rogga Johansson, uno che di death metal ne macina a quantità industriali ogni anno, sempre con la stessa attitudine, passione e, perché no, talento.

Rogga Johansson, oltre alle molteplici collaborazioni con artisti della scena death metal internazionale e all’attività con le sue diverse band, trova anche il tempo di portare avanti la sua creatura solista Humanity Delete nella quale canta e suona tutti gli strumenti.

Addirittura ideato nel 2003, il progetto è stato poi ripreso dal polistrumentista e compositore svedese nel 2012, anno di uscita del primo lavoro, Never Ending Nightmares, seguito dopo quattro anni da Fuck Forever Off.
All’insegna di un death metal foriero di tempeste thrash e grindcore, il sound che Johansson ha creato per gli Human Delete vede nel 2018 il suo picco creativo, prima con lo split Anthems of Doom – Lethal Onslaught, insieme ai deathsters greci Carnal Garden, e poi con questo nuovo album intitolato Werewolves in the Iron Sky: nove brani per mezzora di assalto sonoro a cui il nostro ci ha abituato, scontandosi per pochi dettagli da molte delle sue proposte, ma sempre con un’attitudine ed un approccio alla materia non così comuni come si potrebbe pensare.
Werewolves in the Iron Sky si muove tra il death metal old school e lo sferragliante approccio del grindcore, con sfuriate thrash e rallentamenti che variano l’ascolto e ci permettono di assaporare il sangue che sgorga da brani come I Grip Rip Your Heart, Prototype Metal Claw e la monolitica Lunar Rites.
Werewolves in the Iron Sky è altro buon lavoro targato Rogga Johansson, uno che di death metal ne macina a quantità industriali ogni anno, sempre con la stessa attitudine, passione e, perché no, talento.

Tracklist:
1.Werewolves in the Iron Sky
2.I Grip Rip Your Heart
3.Fur (Fur Immer)
4.Merge with the Beast
5.Prototype Metal Claw
6.Werewolf Reich
7.Conjure the Moon
8.Lunar Rites
9.Werewolf reich II

Line-up
Rogga Johansson – All instruments, Vocals

IX-The Hermit – Present Days, Future Days

Dei IX-The Hermit ne sentiremo ancora parlare, nel frattempo si può ascoltare Present Days, Future Days per farsi un’idea sulle buone potenzialità messe in mostra dal gruppo.

Chi è abituato a frequentare l’underground metallico sa che le sorprese sono sempre dietro l’angolo e diventa quasi un’urgenza scovare nuove realtà, sorprendendosi piacevolmente all’ascolto di demo, ep o primi full length che potrebbero diventare l’inizio di qualcosa d’importante.

Ovviamente, quando si parla di underground si intende quello mondiale, lasciando ad altri antipatici confini da proteggere, per abbracciare ogni impulso musicale che riesca ad emozionare.
In questo caso rimaniamo nel nostro paese per presentare questa ottima nuova band, i IX-The Hermit, fondata da musicisti dal diverso background e con l’intento di creare qualcosa di nuovo ed originale, inglobando in unico sound i diversi generi musicali da cui provengono.
Dopo diversi cambi di line up, la formazione si stabilizza lo scorso anno così che, la band si può concentrare sui sei brani che compongono questo primo lavoro, un ep dal titolo Present Days, Future Days.
Sei buoni motivi per dare un ascolto alla proposta dei IX-The Hermit sono racchiusi nel sound di questo album che parte con Party Animal, titolo dai richiami street metal, ma pesante come un macigno seppur devota ad un hard & heavy che non manca di potenza e groove.
Ma già dal secondo brano la band lascia le strade dirette e hard rock del brano di apertura per salire su per tornanti progressivi, alternati da ripartenze pesanti come nella decisa You’re Not Worth e nel crescendo di Boston.
Buona tecnica unita ad una non facile catalogazione, fanno di Your Pain e soprattutto della conclusiva The Hermit, brani che uniscono metal estremo, sfumature alternative ed atmosfere progressive.
Dei IX-The Hermit ne sentiremo ancora parlare, nel frattempo si può ascoltare Present Days, Future Days per farsi un’idea sulle buone potenzialità messe in mostra dal gruppo.
Tracklist
1.Party Animals
2.Beyond All My Days
3.You’Re Not Worth
4.Boston
5.Your Pain
6.The Hermit

Line-up
Fabrizio Vindigni – Vocals
Fabrizio Miceli – Guitars
Luigi Gabriele – Guitars
Matteo De Franco – Bass
Giacomo Marsiglia – Drums

IX THE HERMIT – Facebook

Aaron Buchanan And The Cult Classics – The Man With Stars On His Knees

Un album, The Man With Stars On His Knees, magari lontano dai gusti di chi frequente questa webzine ma che merita sicuramente più di un ascolto distratto, specialmente da parte di chi fagocita rock senza barriere e confini di genere.

Primo album solista per Aaron Buchanan dopo neanche un anno dall’uscita dagli Heaven’s Basement.

Aaron Buchanan And The Cult Classics (monicker che a detta dello stesso singer si ispira a film cult come Le Iene, Taxi Ddriver e Pulp Fiction) risulta a tutti gli effetti una nuova band, con Buchanan circondato da una manciata di ottimi musicisti che corrispondono a Laurie Buchanan e Tom McCarthy alle chitarre, Mart Trail al basso e Paul White alla batteria.
The Man With Stars On His Knees non lascia spazio a dubbi sulla buona alchimia formatisi all’interno del gruppo, che rilascia un ottimo lavoro incentrato su di un rock votato alla tradizione ma inserito in un contesto moderno, tra alternative e sfumature radio friendly.
Ruggente, melodico e passionale, Buchanan si dimostra cantante e songwriting di spessore, tra atmosfere elettriche, brani accattivanti e di facile assimilazione così come altri dove il rock diretto e graffiante fa il suo sporco lavoro.
La band, inutile dirlo si fa apprezzare nelle tracce più energiche, anche se non mancano semi ballad dal retrogusto alternativo molto suggestive come la splendida title track.
Un album, The Man With Stars On His Knees, magari lontano dai gusti di chi frequente questa webzine ma che merita sicuramente più di un ascolto distratto, specialmente da parte di chi fagocita rock senza barriere e confini di genere.

Tracklist
1.Show What You’re Made Of
2.All the Things You’ve Said and Done
3.Dancin’ Down Below
4.The Devil That Needs You
5.Journey out of Here
6.The Man with Stars on His Knees
7.A God Is No Friend
8.Left Me for Dead
9.Mind of a Mute
10.Morals?
11.Fire in the Fields of Mayhem
12.Undertow

Line-up
Aaron Buchanan – Vocals
Laurie Buchanan – Guitar
Tom McCarthy – Guitar
Mart Trail – Bass
Paul White – Drums

THE CULT CLASSICS – Facebook

Déhà

Il video di Butterflies, dall’album Cruel Words (Rain Without End Records).

Il video di Butterflies, dall’album Cruel Words (Rain Without End Records).

Chariot Of Black Moth made one of the finest, darkest video ever for the song “Butterflies”, out soon on Naturmacht Productions’s sub label “Rain Without End”. We are immensely thankful to Jakub Moth for his incredible work and bringing the song’s darkness upfront. Mesmerizing, powerful, ill. We couldn’t have wished for something better. Thank you.

“habits of none, used to a flatline / tainted clothes, old buildings / damp tunnel, no light / ataraxia, nothing changing / thousand corpses, lying dead / moving maggots, ripping flesh / turning life, upside down / we are food for what we kill / we crawling, spreading blood / it is sacred, but not so low / here is no peace, here is no life / drink for health, we mean night / all is flooded, so are hearts / no butterflies in your stomach / if you feel something moving / their corpses are being eaten”

Maximum volume, headphones, darkness, loneliness are increasing the side effects of this song. Use with caution. We recommend that you do not take drugs nor drink alcohol before, during, and after. Stay sober, don’t hide your emotions behind a wall.

Yearnin’ – Take A Look

Si respira un’aria molto fresca in questo disco, un entusiasmo di fare musica e non un peso, una voglia di macinare note distorte e cavalcate ritmiche.

Dalla provincia di Livorno arrivano gli Yearnin’, progetto di tre amici che cominciano nel 2015 a fare un suono che non si sente spesso in Italia e non solo.

Al centro di tutto c’è il blues, vero e proprio cardine del progetto, declinato in forme non tradizionali e molto efficaci. Ma non c’è solo il blues, ad esempio la penultima traccia, Rescue Me, è un pezzo che sembra dei migliori Alice In Chains, non è affatto derivativo ed è bellissimo. Si respira un’aria molto fresca in questo disco, un entusiasmo di fare musica e non un peso, una voglia di macinare note distorte e cavalcate ritmiche. Oltre al blues e al grunge qui possiamo trovare anche del garage fatto molto bene e del rock bruciante, quasi southern. I riff sono taglienti, la voce ci porta per mano in un mondo più vero e vizioso, su strade polverose di campagna, che posso essere nel delta del Mississipi come in provincia di Livorno. I tre ragazzi hanno trovato una bilanciatura perfetta, vanno come dei treni e non c’è mai un momento di noia o di stanchezza. Rielaborare in questa maniera il blues non è cosa facile, eppure loro lo fanno molto bene riuscendo anche a portare elementi innovativi, in un suono nel quale è già stato detto tutto e solo i più bravi riescono ad aggiungere qualcosa. Il disco è davvero una goduria così come lo deve essere uno loro spettacolo dal vivo. Il suono è rustico, credibile e ben strutturato, figlio di tante jam in saletta, che è poi il luogo dove tutto nasce. La produzione fa risaltare tutta la loro bravura e, inoltre, gli Yearnin’ sanno usare diversi registri, dalle cose più veloci a quelle più lente e sensuali, sempre con un accento originale. Take A Look è un disco che fa godere e allevia un po’ le nostre sofferenze quotidiane, il che non è poco.

Tracklist
1.Take a Look
2.The One You Want
3.Poor Boy
4.No Man’s Land
5.Back for More
6.Her Walking
7.If I’m Nothing (Why Are You Knocking At My Door?)
8.No Soul
9.Rescue Me
10.Grave

Line-up
Lorenzo Rossi – Batteria
Gabriele Taddei – Voce, Chitarra
Gianluca Valentini – Voce, Basso

YEARNIN’ – Facebook

Chalice Of Suffering – Lost Eternally

Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dai modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Qualche anno fa, in occasione dell’album d’esordio For You I Die, in sede di recensione mi espressi moto favorevolmente sui Chalice Of Suffering,  nuova creatura dedita al death doom più atmosferico guidata da JohnMcGovern.

La peculiarità della band del Minnesota era quella di essere, in qualche modo, differente dalle altre, in virtù di un approccio atmosferico che, anche grazie al profondo recitato del vocalist, assumeva quasi i contorni di una sorta di dolorosa colonna sonora di un esistenza quanto mai grigia.
Dopo l’uscita di quell’album John ha dovuto affrontare problemi di salute piuttosto seri che, per fortuna, oggi sembrano superati e questo sembra aver ancor più acuito la sua sensibilità artistica: Lost Eternally è un concentrato di atmosfere plumbee e dolenti, melodicamente intense e praticamente quasi mai spinte su versanti estremi sia a livello ritmico che chitarristico (qui la coppia già collaudata nel precedente lavoro, formata da Nikolay Velev e Will Maravelas, si rende protagonista di un ottimo lavoro).
Altro valore aggiunto in questa occasione è quello costituito dalla partecipazione di diversi vocalist in qualità di ospiti e questo, ovviamente, rende ancor più interessante il tutto andando ad integrare al meglio il growl declamatorio di McGovern.
In the Mist of Once Was, traccia d’apertura scelta anche per esser accompagnata da un video, delinea in maniera chiara quale sarà l’impronta del lavoro, anche se qui il tocco in più fornito dal contributo delle bagpipes suonate da Kevin Murphy appare tutt’altro che secondario: il tradizionale strumento a fiato scozzese, infatti, rispetto all’album precedente appare perfettamente coeso con il dolente tessuto sonoro.
Come in buona parte degli altri lunghi brani (che si assestano mediamente sui dieci minuti ciascuno, a parte gli ultimi due relativamente più brevi) il sound sembra snodarsi placido per insinuarsi lentamente nell’immaginario dell’ascoltatore, il quale verrà poi scosso emotivamente da un magnifico crescendo finale; così avviene nella magnifica Forever Winter, che assieme alla successiva title track rappresenta il fulcro centrale di un album che qualsiasi amante del doom più evocativo ed atmosferico non potrà non apprezzare. Con l’eccezione di Miss Me, But Let Me Go, traccia leggermente più sostenuta a livello ritmico che, non a caso, vede la partecipazione di un musicista di estrazione death come l’indiano The Demonstealer, Lost Eternally è un fluttuante viaggio all’interno di sensazioni e turbamenti in grado di minare a turno le certezze di ognuno e che, nella poetica di McGovern, finiscono per fondersi in un unico drammatico sentire.
Lost Eternally eleva i Chalice Of Suffering ai livelli più alti nel genere: il sound della band statunitense, in virtù del suo incedere più ragionato, sembra davvero differenziarsi dagli storici modelli presi a riferimento i cui contenuti vengono rielaborati  con una cifra stilistica che appare quanto mai personale.

Tracklist:
1. In the Mist of Once Was
2. Emancipation of Pain
3. Forever Winter
4. Lost Eternally
5. The Hurt
6. Miss Me, But Let Me Go
7. Whispers of Madness

Line-up:
John McGovern – Vocals
Will Maravelas – Guitars/Keyboards
Aaron Lanik – Drums
Nikoley Velev – Guitars/Keys/Drums (on The Hurt, Lost Eternally, Emancipation of Pain)
Neal Pruett – Bass
Kevin Murphy – Bagpipes (on In the Mist of Once Was)

Guests:
Danny Woe of Woebegone Obscured (on Emancipation of Pain)
Demonstealer of Demonic Resurrection (on Miss Me, But Let Me Go with John)
Giovanni Antonio Vigliotti of Somnent (on Lost Eternally with John)
Justin Buller of Wolvenguard/In Oblivion (on The Hurt)

CHALICE OF SUFFERING – Facebook

Ewigkeit – DISClose

James Fogarty è un musicista in possesso di un grande talento che con il monicker Ewigkeit viene espresso in maniera compiuta e senza alcun filtro.

Ewigkeit è il progetto solista di James Fogarty, alias Mr. Fog, musicista attivo nella scena metal da oltre un ventennio nel corso del quale ha fatto parte di diverse band di spicco, tra le quali risalta di gran lunga l’ultima in ordine di tempo, i leggendari In The Woods.

La riuscita di un album come DISClose è motivata anche dal versatile lavoro vocale di Fogarty, uno di quei cantanti capaci di passare con disinvoltura da tonalità aspre ad evocative clean vocals senza lasciare spazio a perplessità di sorta.
Il primo full length a nome Ewigkeit risale addirittura al 1997 e quello in questione è il decimo della serie, considerando la riedizione nel 2017 dell’esordio Battle Furies in occasione del suo ventennale.
Il black metal che forniva la base stilistica dei primi lavori si è stemperato nel tempo in un metal decisamente melodico, pur se a tratti sempre doverosamente aspro, e così DISClose gode di una certa orecchiabilità che ne rende sicuramente l’ascolto non tropo arduo, a fronte comunque di una certa irrequietezza stilistica.
Questo se vogliamo rappresenta due facce della medaglia di un’opera valida in ogni sua fase, ma poco connotata in uno specifico genere per ritagliarsi magari un audience dedicata: il vantaggio, che va ben oltre ogni altra considerazione, è comunque rappresentato dal fatto che Fogarty in tal modo tiene ben lontano il rischio di annoiare gli ascoltatori con un sound eccessivamente ripetitivo. Le aperture verso sonorità più moderne ci sono ma avvengono in maniera molto fluida e senza snaturare un sound caleidoscopico che unisce melodia e note estreme in maniera esemplare.
DISClose offre grandi aperture melodiche inserite all’interno di strutture che, per lo più, di estremo hanno soprattutto lo screaming (anche se in questo caso avrei preferito per gusto personale un più frequente ricorso anche all’efficace growl che James ha sicuramente nelle sue corde), veleggiando tra progressive death, gothic doom, black avanguardistico e alternative rock/metal senza mai restituire il sound in una forma frammentata.
Ogni brano vive di squarci memorabili, sotto forma di chorus di grande impatto ed esaltati per lo più dall’evocativa voce pulita che Fogarty esibisce in maniera magistrale.
Disclosure e Resonance sono le due tracce del loto che preferisco, ma il bello di DISClose è che ognuno potrà trovare un proprio brano ideale che non deve necessariamente coincidere con quelli prediletti da altri: James Fogarty è un musicista in possesso di un grande talento che con il monicker Ewigkeit viene espresso in maniera compiuta e senza alcun filtro.

Tracklist:
1 – 1947
2 – Disclosure
3 – Oppenheimer’s Lament
4 – Guardians of the High Frontier
5 – Resonance
6 – KRLLL
7 – Moon Monolith

Line-up:
James Fogarty

EWIGKEIT – Facebook

Calico Jack – Calico Jack

L’album è sostanzialmente rivolto ad appassionati di questo specifico genere, e se tali sonorità non sono esattamente nelle vostre corde non sarà certamente il debutto dei Calico Jack a farvi cambiare idea.

Il metal a sfondo piratesco, portato all’attenzione degli ascoltatori del metal classico e power dagli storici Running Wild, trova nuova linfa ed un tocco di originalità nel primo full length omonimo dei Calico Jack, ciurma in arrivo da Milano e battente bandiera pirata dal 2011.

La band (il cui nome è ispirato al capitano John Rackham, inventore della classica bandiera con il teschi e le due sciabole incrociate, conosciuto come Jolly Roger) si allontana dal sound dei Running Wild e dei loro eredi Alestorm per avvicinarsi al folk metal, anche se le atmosfere epiche da abbordaggio sono presenti, così come quelle da locanda e feste alcoliche dopo il ritorno a Tortuga.
I Calico Jack mettono in evidenza una parte estrema, dovuta principalmente al growl, protagonista principale in coppia con il violino, sempre presente nell’economia del sound caratterizzante brani che, alla lunga, tendono ad appiattirsi risultando leggermente prolissi.
Sono forse troppi settanta minuti di durata per un album del genere, anche se non mancano certo episodi rocciosi e divertenti come l’opener The Secret Of Cape Code, Devil May Care e la notevole Under The Flag Of Calico Jack, brano che si rivela una sorta di saga musicale lunga diciotto minuti e picco dell’intero lavoro.
L’album è sostanzialmente rivolto ad appassionati di questo specifico genere, e se tali sonorità non sono esattamente nelle vostre corde non sarà certamente il debutto dei Calico Jack a farvi cambiare idea.
Tracklist

1.The Secret of Cape Cod
2.Where Hath th’ Rum Gone?
3.Death Beneath the Wave
4.Devil May Care
5.Caraibica
6.Songs from the Sea
7.Sharkbite Johnny
8.Grog Jolly Grog
9.Straits of Chaos
10.Under the Flag of Calico Jack
11.Jolie Rouge

Line-up
Giò – Vocals
Toto – Rhythm Guitar, Choirs
Melo – Lead Guitar
Dave – Fiddle
Caps – Drums
Gigi – Bass, Choirs

CALICO JACK – Facebook

Seven Thorns – Symphony Of Shadows

L’album è composto da nove brani nei quali la potenza del power è accompagnata da un buon talento melodico e da atmosfere progressive che mettono in evidenza l’ottima tecnica dei musicisti, protagonisti di un lavoro a tratti avvincente.

I Seven Thorns sono un gruppo danese attivo da vent’anni, magari poco conosciuto fuori dai confini nazionali ma assolutamente in grado di solleticare i palati degli amanti del power metal dai gusti raffinati.

Symphony Of Shadows è il quarto lavoro del quintetto, non troppo produttivo nella sua carriera ma, a giudicare da quanto sentito in questo nuovo lavoro, capace di raggiungere un buon livello qualitativo in un genere che ultimamente è uscito dai primi posti nelle preferenze dei fans.
L’album è composto da nove brani in cui la potenza del power è accompagnata da un buon talento melodico e da atmosfere progressive che mettono in evidenza l’ottima tecnica dei musicisti, protagonisti di un lavoro a tratti avvincente.
Le caratteristiche principali del sound dei Seven Thorns rileva una forte connotazione power/prog, strutturata su ritmiche potenti, un uso assai melodico e progressivo delle orchestrazioni che ricordano non poco i conterranei Royal Hunt, band a mio avviso che ha ispirato il gruppo del singer Björn Asking, non lontano come interpretazione dal regale DC Cooper.
I Seven Thorns non nascondono certo le loro influenze, passando appunto dai Royal Hunt agli At Vance e ai Sonata Artica, peccando forse in originalità, ma restando ben saldi sui piani alti del genere con una raccolta di brani dall’appeal notevole, sempre caratterizzati da potenza e melodia e resi eleganti dal gran lavoro alle tastiere di Asger W. Nielsen.
Black Fortress, la cavalcata Last Goodbye, il deciso power/prog metal di Virtual Supremacy e la conclusiva, neoclassica title track sono i brani cardine di questo ottimo lavoro firmato Seven Thorns.

Tracklist
1. Evil Within
2. Black Fortress
3. Ethereal (I’m Still Possessed)
4. Beneath a Crescent Moon
5. Castaway
6. Last Goodbye
7.Virtual Supremacy
8. Shadows Prelude
9. Symphony of Shadows

Line-up
Björn Asking – Vocals
Gabriel Tuxen – Guitars
Asger W. Nielsen – Keys
Mads Mølbæk – Bass
Lars Borup – Drums

SEVEN THORNS – Facebook

DYING AWKWARD ANGEL

Il video di “Isaiah 53:7”, dall’album “Absence of Light” (Extreme Metal Music / Rockshots Records).

Il video di “Isaiah 53:7”, dall’album “Absence of Light” (Extreme Metal Music / Rockshots Records).

Italian death metal tyrants DYING AWKWARD ANGEL have posted a new music video for “Isaiah 53:7” off their latest full length “Absence of Light” released May 2018 via Extreme Metal Music / Rockshots Records.

Initially formed two decades ago in Turin, Italy, DYING AWKWARD ANGEL is a total testament to the strength and convictions of true metallers. Enduring line-up changes and travails that would have crushed a lesser band, DYING AWKWARD ANGEL refused to die…instead they have thrived!

Inspired by In Flames, At The Gates, Carcass, Dark Tranquillity, in 2013, DYING AWKWARD ANGEL unleashed their debut full-length album ‘Waiting For Punishment’, following it in 2016 with a well-received EP entitled ‘Madness Rising’. Then in 2018, the band’s current line up with founding member Edoardo Demuro on guitar, Luca Pellegrino on drums, Lorenzo Asselli on guitars, Davide Onida on bass and Michele Spallieri on vocals released their next full length “Absence of Light”.

Guitarist Edoardo Demuro comments:

“We started with the only goal of destroying everything…Over the years we have been working to achieve a more solid and understandable sound. We have created the very personal Dying Awkward Angel sound…’Absence of Light’ is a new era for us; the first official release, a mature sound, an increased richness of themes, a really powerful new voice on our music. You can see it as the might of God when it doesn’t give you what you expected. This new chapter of Dying Awkward Angel is heavy, fast, powerful, dark and bright at the same time. We hope to give the fans the same emotions we have when we play! We hope they have a lot of fun!”

“Absence of Light” is available for stream and download on Extreme Metal Music / Rockshots Records here, iTunes, Spotify, and all other major online retailers.

Track Listing:
1. Blood of Your Blood (5:39)
2. Death Coach (2:58)
3. Isaiah 53:7 (4:33)
4. Shade (2:54)
5. Dolls (4:50)
6. Sancta Sanctorum (4:19)
7. Absence of Light (1:59)
8. Maldita Seas (4:03)
9. The Dust Devil (3:52)
10. T.U.S.K. (3:42)
11. The Killing Floor (5:47)
Album Length: 44:42

DYING AWKWARD ANGEL is:
Edoardo Demuro (Guitars)
Luca Pellegrino (Drums)
Lorenzo Asselli (Guitars)
Davide Onida (Bass)
Michele Spallieri (Vocals)

For more info:
http://www.Rockshots.eu
http://www.dyingawkwardangel.com
https://www.facebook.com/dyingawkwardangel
https://twitter.com/dyingawkwarda

DunkelNacht – Empires Of Mediocracy

L’album segue le coordinate stilistiche di un black metal dagli spunti death, vicino al classico sound di matrice polacca, oscuro e cattivissimo ma con trovate melodiche che ne risaltano la qualità indiscussa delle composizioni. Un ritorno pienamente riuscito quello dei Dunkelnacht, autori con Empires Of Mediocracy di un album che gli amanti del genere non possono perdere, bravi e diabolici.

In arrivo dalla scena death/black metal transalpina i DunkelNacht licenziano il loro terzo lavoro, questo ottimo Empires Of Mediocracy composto da otto capitoli di un concept che analizza a suo modo il genere umano e le sue origini.

Attivo dal 2005, il quartetto di Lille dopo vari split e demo esordì sulla lunga distanza con Atheist Dezekration nel 2010, seguito quattro anni dopo da Revelatio, licenziato dalla Wormholedeath, mentre Empires Of Mediocracy vede la luce tramite Non Serviam Records.
L’album segue le coordinate stilistiche di un black metal dagli spunti death, vicino al classico sound di matrice polacca, oscuro e cattivissimo ma con trovate melodiche che ne esaltano la qualità indiscussa delle composizioni.
La band ha fatto davvero un gran lavoro, rimanendo in un contesto estremo violento, ma perfettamente leggibile, grazie ad una produzione perfetta e ad un songwriting davvero eccellente.
I suoni delle varie Servants, Amongst The Remnants Of Liberty e della title track escono dalle casse potenti e cristallini, il growl di M.C. Abagor risulta diabolico e luciferino, mentre le ritmiche alternano mid tempo a devastanti ripartenze creando un vortice di metal estremo, che a tratti placa la sua furia e crea atmosfere oscure.
Il brano che dà il titolo all’album, Empires of Mediocracy, è l’esempio del sound di cui è composta questa nera opera, offrendo un death/black valorizzato da un importante lavoro chitarristico e sorretto da una notevole parte melodica.
Un ritorno pienamente riuscito quello dei Dunkelnacht bravi e diabolici di Empires Of Mediocracy di un lavoro che gli amanti del genere non dovrebbero perdere.

Tracklist
1. Relentless Compendium
2. Servants
3. Eerie Horrendous Obsession
4. DunkelNacht – Amongst the Remnants of Liberty
5. Verses and Allegations
6. Empires of Mediocracy
7. The Necessary Evil
8. Non Canimus Surdis

Line-up
Heimdall – Guitars, Programmings
Alkhemohr – Bass, Vocals
M.C. Abagor – Vocals
Tegaarst – Drums

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Svirnath – Dalle Rive del Curone

Le sonorità offerte da Svirnath sono del tutto in linea con le produzioni facenti capo alla brillante label tedesca Naturmacht, autentico punto di riferimento per chi voglia ascoltare black metal atmosferico nella sua accezione più pura e underground.

Arriva al secondo full length Frans, musicista lombardo/piemontese attivo anche nei validi doomsters Abyssian e nei Consolamentum,  che con il suo progetto solista Svirnath propone un black metal atmosferico e dai tratti pagan folk.

Dalle Rive del Curone, fin dal titolo, evidenzia quanto siano importanti per l’autore gli spunti derivanti dall’amore e dal rispetto per una natura che dovrebbe essere sempre parte integrante del modus vivendi di ciascuna persona.
A livello musicale l’album si snoda piuttosto bene, essendo ricco di valide aperture atmosferiche, e se mostra alcune incrinature queste vanno ricercate in uno screaming perfettibile (pur essendo una caratteristica che sembra accomunare gran parte delle uscite in quest’ambito) e in un lavoro chitarristico che nelle parti soliste mostra qualche sbavatura, a fronte di un afflato melodico tutt’altro che trascurabile. Ed è proprio limando tali aspetti che brani notevoli come la title track o L’etereo bagliore potrebbero risaltare ancor più di quanto non avvenga, in virtù di una scrittura sempre volta all’esibizione del lato più evocativo del genere.
Le sonorità offerte da Svirnath, del resto, sono del tutto in linea con le produzioni facenti capo alla brillante label tedesca Naturmacht, autentico punto di riferimento per chi voglia ascoltare black metal atmosferico nella sua accezione più pura e underground.

Tracklist:
1. Vir Naturae
2. All’ombra delle fronde
3. L’etereo bagliore
4. Dalle rive del Curone
5. Quando soffia il Maestrale
6. L’abete

Line-up:
Frans – All instruments, Vocals

SVIRNATH – Facebook